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cubaposibleCuba Posible è una “nuova piattaforma di analisi e dialogo” creata a Cuba da Roberto Veiga e Lenier González, ex redattori della rivista cattolica cubana Espacio Laical; si appoggia al Centro Cristiano de Reflexión y Diálogo della città di Cárdenas nella provincia di Matanzas.

Si propone di far affermare una visione economica “orientata allo sviluppo ma anche al bene comune, che non consenta che ci siano settori sociali emarginati o in condizioni di povertà”, promovendo la “Casa Cuba” secondo il progetto formulato dal monsignor Carlos Manuel de Céspedes García-Menocal, morto nel gennaio 2014. È una “piattaforma di analisi e dibattito, e non vuole trasformarsi in un partito politico, per quanto desideri che le sue riflessioni e dibattiti abbiano un’incidenza nella vita della comunità nazionale e nelle stesse istituzioni”.

Del suo Comité Rector fanno parte studiosi cattolici come Rita María García Morris, il sacerdote Raimundo García Franco, fondatore del CCRD-C e, naturalmente, Roberto Veiga, coordinatore generale del progetto e Lenier González, vice coordinatore; nel Consiglio di Direzione ci sono anche intellettuali laicitra cui il professor Aurelio Alonso, sociologo e militante comunista critico (fu uno dei membri della direzione della prestigiosa rivista guevarista Pensamiento critico soppressa nel 1971) e da lungo tempo rappresenta un “ponte” tra il partito comunista cubano e il mondo cattolico; tra gli altri membri il giurista e politologo Julio César Guanche, Mayra Espina, sociologa, Pavel Vidal, economista, ecc.

Per capire l’importanza di questo scritto bisogna conoscere il linguaggio cubano, che dal periodo dello stretto legame con il “socialismo reale” ha conservato molti termini un po’ ermetici o reticenti, a partire proprio dalla “attualizzazione del modello economico”.

Verso il fondo dell’articolo il linguaggio comunque diventa più chiaro, e si capisce meglio che la riflessione verte su come il partito comunista cubano riuscirà ad arrivare al cambio di direzione previsto per il 2018, che “costituisce una sfida delicata, poiché avverrebbe in un contesto di deindustrializzazione nazionale, di significativo impoverimento delle basi popolari, e di estensione di fenomeni quali la disuguaglianza” che creano contraddizioni tra l’ideologia del “blocco egemone” e la pratica dell’esercizio del potere… (Premessa di Antonio Moscato)

 

Una lettura politica del cambiamento economico a Cuba

Alice chiede al Gatto che ghigna:

“Vorresti dirmi, quale via dovrei infilare da quì?”.

“Ciò dipende molto dal luogo dove vorresti andare”, rispose il Gatto.

“Poco importa dove” disse Alice. “Allora poco importa di sapere

quale via dovresti prendere”, soggiunse il Gatto,

” purché giunga a qualche luogo”, riprese Alice,

come se volesse spiegarsi meglio. “Oh certo, vi giungerai!”,

disse il Gatto, “sai il proverbio italiano,

tanto cammina sino che arriva”.

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

(Traduzione di Federico Pietrocòla-Rossetti)

 

L’attualizzazione del modello economico a Cuba, se valutata in base ai suoi effetti sugli indicatori economici chiave, sembra, per ora, costituire un processo di relativa rilevanza. Ad essere severi, la si potrebbe considerare un fallimento, a volersi invece mostrare benevoli, la si potrebbe vedere come materia in sospeso. I tassi di crescita del Pil nel corso del triennio successivo all’approvazione ufficiale del processo, che non sono riusciti a superare il 3% annuo, non forniscono la “velocità di decollo” richiesta dal recupero dello scenario macroeconomico, né garantiscono il progresso del benessere materiale della popolazione.[1]

Si potrebbe obiettare che occorre più tempo, anche se tre anni rappresentano un arco di tempo ragionevole per giudicare un programma economico governativo. In molti paesi, il tempo massimo di cui dispone un governo per lasciare la propria impronta sull’economia di una nazione è di quattro anni. Sembrerebbe prevalere, in particolare dal punto di vista degli economisti, l’ipotesi che il futuro politico del paese dipenda dal successo o dal fallimento dell’attualizzazione. Se si parte da questa premessa, non sembrerebbero allettanti le prospettive per il governo cubano; ma quali conseguenze avrebbe per l’analisi della situazione cubana l’eventualità che una simile ipotesi non fosse valida?

Supponiamo vi fosse l’eventualità che il successo del programma del governo fino al 2018 – il momento che sembra quello cruciale per il futuro di Cuba – non si basasse, sostanzialmente, sull’attualizzazione del modello economico, ma su una riforma dello Stato molto più vasta che, in generale, stesse producendo risultati plausibili. È questa una dimensione in cui i rapporti causa/effetto tra programma e risultato sembrerebbero offrire maggiori indicazioni. Dopotutto, indipendentemente dalle insufficienze e al di là di qualsiasi considerazione dottrinaria dell’attualizzazione si potesse avere sull’attuale modello statuale cubano, risulta evidente come la misurazione delle principali variabili politiche del paese – quale che sia il “metro” utilizzato – non consenta di avallare una conclusione allarmista sulla relativa stabilità e determinazione dello Stato cubano, pur nel mezzo di una situazione economica che, a gran fatica, riesce a raggiugere lo stadio della riproduzione semplice.[2]

Non sto dicendo che non vi siano aree problematiche di governabilità a Cuba, né che le cose non potrebbero cambiare in futuro; ma quel che sembra rilevante porre ora in rilievo è un dato della presente realtà cubana: esiste una evidente sconnessione tra i risultati economici del paese e la concretizzazione di una riarticolazione della capacità dello Stato cubano che gli consente di continuare a esercitare, senza soprassalti di fondo, quella che – detto in modo un po’ crudo – è l’essenza del potere: la capacità di esercitare “il mandato”, la capacità di imporre una volontà su un’altra volontà, anche contro la resistenza di quest’ultima.[3] Fondamentalmente, il potere politico è questo. Ogni tentativo di edulcorarlo a lungo andare diventa futile.[4]

 

Che cosa potrebbe impedire a un osservatore del processo cubano di riuscire ad apprezzare l’eventuale validità di questa ipotesi alternativa?

Almeno tre cose, probabilmente: a) il prevalere di un’ottica “di gestione” dell’attualizzazione, che rende difficile vederla come un dato eminentemente politico e non meramente tecnico; b) un’assimilazione troppo alla lettera del modo relativamente sbilanciato in cui sia il racconto ufficiale sia parte della narrativa contestataria attribuiscono eccessivo peso all’aspetto economico; e c) la dimenticanza o la sottovalutazione del problema del potere o, per maggior precisione, dell’esistenza di uno Stato (non solo di un governo) che sa e che può esercitare il potere in maniera effettiva, con relativa autonomia rispetto alle variabili economiche.

Quest’ultimo aspetto ci induce a tener presente il caso di quegli Stati che fungono da “attore-chiave nella costruzione di un blocco egemone con un determinato indirizzo storico-politico”.[5] È una definizione che riproduce chiaramente quel che è stato lo Stato Cubano dal 1959 ad oggi; quel che, però, importa ora sarebbe riuscire a chiarire se l’attuale Stato cubano abbia o meno bisogno di fare o no “qualcosa” per continuare a funzionare in questo modo, e quali sarebbero gli strumenti concreti di cui realisticamente dispone per provarci. Detto in altri termini: che cosa bisognerebbe risolvere, in materia di capacità statale, per mantenere il potere del “blocco egemone”[6] che finora ne ha detenuto il possesso, su quali elementi può contare per farlo, e quali potrebbero essere le probabilità di successo nel conseguire un impegno del genere.

 

Per dare un nome alle cose

L'”attualizzazione del modello economico” e la “riforma dello Stato” sono i due processi, in rapporto fra loro ma distinguibili, che danno il titolo al presente articolo. Conviene allora cercare di attribuire ad essi una definizione precisa, non tanto per una più vasta concettualizzazione, quanto per chiarire a che cosa ci riferiamo. Si tratta di due concetti opinabili passibili di definizioni distinte e che, in molti casi, hanno un ‘implicazione polisemica nel quadro dei dibattiti sulle politiche ufficiali. Nel contesto degli attuali dibattiti su Cuba, l'”attualizzazione” ha concentrato l’attenzione di molti studi ed è stata presente in altrettante analisi. In compenso, sono scarsi i riferimenti alla “riforma”.

È complicato raggiungere un adeguato livello di precisione rispetto al primo dei due concetti. Per cominciare, per quel che ne so, “attualizzazione del modello economico” è un termine esclusivamente riferito agli attuali processi di Cuba, il che determina inconvenienti che non possono rinviare direttamente a un quadro teorico stabilito, né al livello di economia politica, né a quello delle scienze sociali.

Ovviamente si tratta di un termine che starebbe a indicare, più o meno approssimativamente, un tipo di processo che generalmente si traduce concettualmente come riforma economica, cosicché l'”attualizzazione”, indirettamente, si colleghi con la teoria e con l’indagine empirica sulle riforme economiche. I motivi per cui il governo ha imposto l’impiego di un termine non convenzionale – per meglio dire vago – potrebbero essere vari. Di certo, sembra essere piuttosto chiara una motivazione politica: comunicare che non si intende operare un cambiamento nel sistema, un messaggio che è stato forse portato all’estremo di eludere due significati spesso utilizzati nel termine “riforma” (inteso in senso accademico come correzione positiva di un sistema e, nella sua accezione più discorsiva, come disfare per tornare a formare).

L'”attualizzazione” del modello economico cubano è intesa nel presente articolo come un processo di intervento pubblico correttivo applicato in maniera estesa al sistema economico nazionale e che include i normali contenuti di una riforma economica – cambiamenti strutturali (relativi al mercato e agli apparati istituzionali) e modifiche operative (regole) – e che incorpora anche elementi di strategia economica che oltrepassano l’ambito convenzionale delle riforme economiche. È il caso delle trasformazioni in almeno tre aree supplementari: le basi materiali della creazione di ricchezza e occupazione (inclusa la questione della specializzazione produttiva del paese); la qualità della dinamica economica (innovazione); e la coesione sociale (redistribuzione della ricchezza e degli introiti). Insomma, l’attualizzazione di un modello economico cubano si concepisce nel quadro di questo articolo come il materializzarsi di un progetto ibrido di politica pubblica – combinazione di riforma e rinnovamento di strategia economica – orientata all’esecuzione di cambiamenti qualitativi nella conduzione statale dell’economia. Due cose andrebbero poste in risalto: In primo luogo, che l’attualizzazione è un progetto eminentemente politico, il cui leitmotiv centrale è il ringiovanimento di un modello economico statale accentrato (modello che non è incompatibile con determinati gradi e forme di decentramento), e che esso è concepito come meccanismo di consolidamento di un sistema politico a partito unico, cui si subordina l’intero disegno economico. Secondo, che l’attualizzazione comporta una contraddizione finora relativamente controllata, ma con la capacità permanente di generare tensioni.

Tali tensioni sono motivate dall’adesione a processi tecnocratici di “razionalizzazione” della gestione economica pubblica (soprattutto nella variante “efficientismo”), alla mercantilizzazione e alla crescita del settore privato, che debbono coesistere con un sistema politico che genera pratiche specifiche dell’esercizio del potere, difende interessi economici, promuove determinati valori e sostiene un’ideologia in collisione con il suddetto processo di razionalizzazione.

Questa realtà costituisce un motivo costante di preoccupazione per il governo cubano, poiché deve affrontare alcuni prevedibili effetti dell’attualizzazione. Nonostante ciò, deve esserci chiaro che tale preoccupazione non sarà correggibile, per la stessa natura dell’attualizzazione, che genera contraddizioni economiche, sociali, politiche ed ideologiche. Per dirla in breve: l’attualizzazione non è un processo con una intrinseca capacità di auto-correzione e, meno ancora, ha la tendenza all’auto-equilibrio.

Probabilmente essa è necessaria e addirittura inevitabile, ma si rivela portatrice di un potenziale autodistruttivo, vista da un’ottica di analisi politica. Fin qui, non si è detto niente di nuovo. Le scienze sociali hanno riconosciuto da tempo il carattere contraddittorio dei processi sociali, inclusi quelli relativi ai processi di riforma in società con sistemi politici a partito unico, in particolare quelli preseduti da partiti comunisti.[7]

È appunto l’incapacità di autocorrezione dell’attualizzazione ciò che ha la sua stessa subordinazione a un altro processo di maggiore importanza. Questa cosa, che dovrebbe apparire ovvia, ha incontrato relativamente scarsa attenzione e, se affrontata, è quasi sempre da un’ottica che assume la funzione correttiva della politica come un processo “estraneo” alla logica dell’attualizzazione.

Diventa quindi necessario rilevare che “l’attualizzazione del modello economico” risulta un episodio marcatamente subordinato alla questione politica. La “cosa” politica (inteso qui “cosa” nel significato ontologico relativo all’essenza) è quel che determina e pertanto subordina a sé il disegno e la dinamica dell’attualizzazione economica, non viceversa. È importante tener presente il precedente chiarimento per non elaborare apprezzamenti chimerici sull’attuale processo politico a Cuba.

Giunti a questo punto, ci sembra utile introdurre il concetto di “riforma dello Stato”. Come si è detto precedentemente, non è un concetto in uso attualmente a Cuba anche se, a mio avviso, potrebbe spiegare meglio la reale dimensione dell’ambizioso progetto che si è prefisso l’attuale dirigenza cubana. A grandi linee, tale progetto punta a stabilire, in meno di un decennio, le basi per la costruzione della nuova direzionedel paese.[8] Tutto questo, naturalmente, è condizionato da una prolungata situazione di ristagno economico e dai tratti di un evento politico inedito in circa sei decenni: un esercizio massiccio di trasferimento del potere politico a Cuba.

In questa sede adottiamo la definizione di riforma dello Stato utilizzata da Carlos Sojo, che parte dalle proposte di Grindle sulle “capacità di Stato”.[9] Vale a dire: la concezione di riforma dello Stato come processo volto a introdurre i cambiamenti che consentano che lo Stato continui a essere uno Stato capace, più in particolare “uno Stato che può stabilire e mantenere in vigore funzioni economiche, tecniche, amministrative e politiche, secondo lo schema seguente: a) capacità istituzionali – intese come la possibilità di regolamentare gli interscambi politici ed economici della società in base a un insieme di regole del gioco note e osservate; b) capacità tecniche – relative alla decisione e adeguata esecuzione di politiche macroeconomiche; c) capacità amministrative – legate a un’efficiente amministrazione di una rete di servizi e infrastrutture considerati basilari, sul piano sia economico sia sociale; d) capacità politiche – in relazione all’esistenza di strumenti adeguati alla formazione di domande sociali, la rappresentanza di interessi e la risoluzione di conflitti. Insieme a tali capacità vi sono i meccanismi di partecipazione sociale e la possibilità da parte dei quadri politici di rendere conto dei problemi e delle responsabilità. In sintesi, gli elementi comunemente riferiti al problema del “buon governo”. Per lo specifico caso di Cuba, la definizione che precede ha bisogno di una precisazione perché nell’Isola lo sviluppo è assunto come una funzione statale e quindi andrebbero anche considerate le capacità tecniche che si richiedono per guidare i processo di sviluppo.

Ad ogni modo, il confronto di entrambi i concetti facilita la comprensione di almeno tre problemi cruciali relativi al progetto di “buon governo”, in cui sembra trovarsi impegnata appieno l’attuale dirigenza statale cubana. In primo luogo: “il buon governo” implica un processo molto più ampio e complesso dell’attualizzazione, poiché abbraccia dimensioni politiche che l’attualizzazione non può risolvere. In secondo luogo: laddove l’attualizzazione potrebbe essere decisiva per due componenti della riforma dello Stato (capacità tecniche e amministrative) e parzialmente rilevante per le capacità istituzionali (quelle relative al piano economico), la riforma dello Stato sarebbe cruciale perché potesse funzionare ciascuna delle componenti centrali dell’attualizzazione (riforma e strategia economica). In terzo luogo, e per ultimo, dobbiamo capire che pur essendoci una serie di questioni politiche che la riforma dello Stato può contribuire a risolvere, esistono anche altri aspetti, ad esempio la pratica dei partiti politici, dei movimenti sociali e delle formazioni che aspirano a essere forze politiche, il cui raggio d’azione sono gli spazi politici al di là delle strutture dello Stato, qualcosa che preferisco individuare come “politica e basta”. Mi riferisco allo spazio in cui le idee che si scontrano, gli interessi divergenti e i valori e le predilezioni ideologiche di diverso segno competono (“lottano” se si preferisce questo termine) per il controllo del potere.[10]

Segnalo questo perché mi pare importante valutare come qualunque blocco socio-politico egemone possa servirsi dello Stato per imporre i propri obiettivi e in genere non sia difficile capire come li ottenga. Naturalmente, di solito è complicato capire perché, ad opera di chi e come siano decisi questi obiettivi politici.

 

Il dilatato raffreddamento economico e la bruciante questione del potere a Cuba nel “periodo speciale”

Il cosiddetto “periodo speciale” è una definizione ambigua cui si è fatto ricorso nella relazione ufficiale cubana per denotare ciò che in pratica ha costituito un lungo periodo di raffreddamento economico che, con alti e bassi, dura ormai da un quarto di secolo. È un tema che ha ottenuto notevole attenzione e ha dato vita a un profusa letteratura accademica dentro Cuba e fuori, per cui non mi soffermo troppo per caratterizzarlo.

Quel che interessa ai fini di questo articolo è ubicare questo lungo “inverno” dell’economia cubana come spazio temporale e come contesto economico e sociale di un complesso processo politico che è riuscito ad evitare che la sconfitta economica si trasformasse in totale fallimento del progetto politico del socialismo cubano (o del socialismo “alla cubana” se si preferisce). Per essere più preciso, mi riferisco a un progetto di organizzazione della società basato su un’economia statale-accentrata e sul predominio politico di un partito unico di ispirazione d’avanguardia. Questo partito è il successore di un nucleo rivoluzionario legittimato dalla sua vittoria in una guerra civile e riaffermato in una rivoluzione sociale di cui hanno beneficiato vasti settori popolari. Tale Rivoluzione ha ottenuto e riaffermato questa legittimità grazie a un ampio programma di inclusione sociale e a un’ideologia che ha combinato fondamenti comunisti con un complesso di idee di radice nazionale – ai primordi martíana – che ha dato vita a una base d’appoggio popolare estesa e organizzata.

Naturalmente, il progetto politico è stato intaccato, in alcuni aspetti più che in altri, durante il periodo speciale, ma il dato comprovabile è che a più di un ventennio dal crollo dell’Unione sovietica, il progetto continua ad essere vigente a Cuba. Pur essendoci state alcune modifiche, in certi casi importanti, esse non hanno trasformato sostanzialmente la natura del progetto. Né il modello economico statale ha lasciato il posto a uno schema basato sul settore privato e il predominio del mercato, né si è passati a un sistema politico pluripartitico. Il programma di inclusione sociale continua ad essere, nonostante la crisi, uno dei migliori dell’America latina e dell’area dei Caraibi (in realtà, uno dei migliori in tutto il mondo in via di sviluppo) e l’idea di giustizia sociale continua a primeggiare, non solo come predicazione astratta ma come cemento di un’ideologia che, malgrado sia contrastata in misura crescente, conserva ancora un notevole impatto concreto nella politica nazionale. Infine, l’irrompere di un eterogeneo settore contestatario e il sorgere di aree di frustrazione, sconcerto ed apatia tra la popolazione non hanno cambiato il dato fondamentale che il progetto può ancora contare su un decisivo sostegno popolare, che riesce ad essere molto attivo ed efficace in determinati strati sociali.[11]

In senso stretto, l’attualizzazione è stato uno dei tanti meccanismi di risposta utilizzati dallo Stato cubano per evitare con successo un tipo di scenario molto complesso che ad altre latitudini smantellò più di un governo e regimi economico-sociali, in nessun caso con profonde implicazioni a tutti i livelli sociali.

Per valutare le cose da una prospettiva adeguata, ci sarebbe da tenere presente che durante questo lungo “inverno” economico, al di là di alcuni processi discrepanti rispetto al potere che potevano avere una logica interna (comprese voci discordanti in seno allo stesso PCC e provenienti da istituzioni ufficiali), la disputa per il potere politico a Cuba in anni recenti si è fondamentalmente adeguata a un quadro in vigore fin dal 1959. Tale disputa ha avuto al suo centro il conflitto con gli Stati Uniti, sempre in complicata – e spesso divergente – interazione con altri settori nazionali (all’interno di Cuba e fuori), che in realtà sono stati il residuo dell’epoca della Guerra fredda, o una sorta di nuovi “attivi”.

Lo spettro degli interventi utilizzati dagli inizi degli anni Novanta per contendere il potere cubano è stato molto ampio. Vi rientra il rafforzamento delle leggi statunitensi per spalleggiare l’accerchiamento economico di Cuba (con la logica di colpire direttamente la popolazione per ricavare rendite politiche dall’eventuale malcontento popolare). Si sono anche sviluppate azioni terroristiche (ad esempio la campagna di artefatti esplosivi nelle installazioni turistiche, nel 1997). Allo stesso modo, con quella stessa logica, si è destinato denaro dei contribuenti nordamericani per sostenere una variegata “opposizione”, con scarso impatto sulla politica nazionale

Lo Stato cubano, soprattutto il cosiddetto Stato rivoluzionario cubano, si è riformato in varie occasioni nell’ultimo mezzo secolo. Mi limiterò, naturalmente, a soffermarmi sulla riforma dello Stato in corrispondenza del periodo speciale, la cui attualizzazione è stata una componente non solo recente ma relativamente tardiva. Il fatto stesso che l’attualizzazione abbia fatto irruzione, come programma governativo, vent’anni dopo l’inizio del periodo speciale, indipendentemente dal fatto che già da allora si lavorava a quelli che ne hanno costituito i fondamenti tecnici, si capisce soltanto se lo consideriamo come una subordinazione della componente economica a quella politica che, a propria volta, ricerca una riforma dello Stato i cui ritmi, le cui proprietà e i cui indirizzi sono stati determinati da considerazioni politiche al cento per cento. In questo senso – va segnalato – la considerazione principale è stata il problema del potere. Ritengo di certo che la priorità di questo problema sia stata quella di preservarlo nelle mani del “blocco egemone” che lo ha detenuto fin dal 1959, per assicurarne l’ordinato passaggio a una nuova generazione di dirigenti.

Considerando gli sviluppi degli ultimi anni, ho raggiunto la percezione che gli attuali leader di Cuba non hanno considerato la crisi economica come mera pressione che li obbliga a riformare lo Stato ma, soprattutto, come l’occasione buona per farlo. Inclino a pensare che la si sta percependo come un’occasione favorevole per “impacchettare” un processo di ricostruzione integrale dell’autorità politica intorno a un nuovo gruppo dirigente. Apprezzo che si progetti che le future autorità si insedino su uno Stato riconfigurato “a misura” di quello che potrà essere il nuovo contesto politico, con un potere statale “ereditato” che non offre la legittimità di un potere “fondante”.[12] Credo si tratti di un processo assai più complicato e di certo più profondo che non un presunto esercizio di “gattopardismo”.[13]

Trattandosi essenzialmente di una riforma dello Stato, occorrerebbe fare qui una distinzione importante tra “potere dello Stato” e “capacità statale”. Molte volte si mette a fuoco il processo, anche da parte dello stesso governo, da una prospettiva istituzionalista, ponendo l’accento sulle componenti regolamentari e funzionali; è chiaro che occorre introdurre un piano di analisi più sostanziale, che ha radici nel definire il modo in cui lo Stato si rapporterà agli altri attori sociali.

Si tratta di un tema sul quale coesistono approcci concettuali diversi. Il “potere dello Stato” emana dalla natura stessa del “gioco politico” che converte rapporti politici in rapporti di potere e in strutture di potere, cosa che condiziona la possibilità che lo Stato possa assicurare le condizioni per imprimere una determinata direzione alla società. Per altro verso, seguendo l’impostazione di Maximiliano Rey, potremmo considerare che: “la capacità statale allude a come, a partire dalla direzione dello Stato, si può mobilitare l’impalcatura politico-amministrativa, in stretto rapporto con il contesto sociale di questo determinato settore di politiche, che gli consenta di plasmare le decisioni”, Vale a dire che la “capacità statale” si riferisce essenzialmente al modo in cui si sviluppano le attività nelle quali si traduce il poter previamente definito dello Stato”.[14]

Questa differenziazione concettuale potrebbe rivestire una duplice rilevanza pratica nel caso di Cuba. In primo luogo, per capire che quel che è stato in gioco negli ultimi venticinque anni a Cuba non è stata una perdita di “potere dello Stato” ma un’erosione – in alcune aree significative – della “capacità statale” di realizzare adeguati compiti di formazione effettiva, efficiente e sostenibile”, per riprendere la celebre definizione proposta da Merilee Grindle.[15] E cioè che la bruciante questione del potere nell’odierna Cuba è stato più un problema di attitudine a costruire politiche pubbliche che non un problema di conservare, sostanzialmente, i rapporti di forza politici sui quali si regge lo Stato.

La gravità dei problemi di “capacità statale” non va in alcun modo sottovalutata, poiché ovviamente in determinate condizioni l’erosione di capacità può finire per trasformarsi in una crisi del “potere dello Stato”. Ciò nonostante, questo non si è verificato a Cuba, tra le altre cose perché la riforma dello Stato sembra aver funzionato ragionevolmente bene su questo punto essenziale. Le capacità dello Stato sono state giostrate in modo tale che, pur essendosi ridotte, sono state capaci di “tenere in mano” i beni pubblici che assicurano l’accettabilità sociale dei fondamenti politici del potere dello Stato.[16]

In secondo luogo, perché si tratta di una differenziazione concettuale chiave per capire perché la riforma dello Stato, orientata fondamentalmente verso la soluzione dei problemi di “capacità statale” in cui si include l’attualizzazione, non si può considerare un mero assunto amministrativo, tecnico o gestionale. Al contrario, è una questione primordialmente politica.

In fin dei conti, ciò che l’attualizzazione può ottenere e definire dipenderà sostanzialmente da come si considerano e applicano i problemi connessi all'”economia politica”, e questo è un compito eminentemente politico, non tecnico.

 

Breve nota finale sulla questione politica, la riforma dello Stato e l’attualizzazione

Il rapporto tra politica, riforma statale e attualizzazione è un tema vasto, complesso e cangiante, la cui analisi – ancorché parzialmente – eccede non solo lo spazio consentito a questo articolo, ma va sicuramente oltre le capacità analitiche di singoli specialisti. Fatta quest’avvertenza, mi avventuro a scrivere qualcosa che potrebbe risultare utile a chiudere, a mo’ di provocazione intellettuale, il tema abbordato nel testo.

Che tipo di compito essenziale si dovrebbe risolvere più in là della riforma dello Stato, sul terreno della politica “e basta”, e quali prospettive di successo potrebbero esistere per questo, incluso assumendo un disimpegno opaco dell’attualizzazione?

Il periodo decisivo per la politica cubana è quello compreso tra questo momento e il 2018, quando si ipotizza che si completi la trasmissione del potere politico alla nuova leadeship. Questa trasmissione sarà, pertanto, un momento politico delicato per la questione del potere, perché inevitabilmente inserirà nel processo un’analisi della stessa definizione (riaffermazione) di un modello di Stato e non solo la questione della capacità dello Stato. Sarà una questione relativa alla sostanza del potere.

Come ho già detto, sarà determinante un buon disegno strategico e metodologico, ed anche ben gestito, dell’attualizzazione e della riforma dello Stato. Risulterà decisivo, naturalmente, anche il livello di motivazione sociale che normalmente comporta una riarticolazione del blocco sociale egemone (la prima riarticolazione significativa in mezzo secolo). Questo implicherebbe “compiti” nettamente politici, almeno su due grandi piani.

In primo luogo: la necessità di garantire l’attivarsi di settori e il configurarsi di coalizioni che garantiscano che le relazioni politiche del PCC con altri settori sociali si costituiscano in rapporti di forza, sia all’interno del “blocco egemone” sia nei suoi vincoli con il resto della società. Quest’ultimo elemento costituisce una sfida delicata, poiché avverrebbe in un contesto di deindustrializzazione nazionale, di significativo impoverimento delle basi popolari, e di estensione di fenomeni quali la disuguaglianza che creano contraddizioni tra l’ideologia del “blocco egemone” e la pratica dell’esercizio del potere. In secondo luogo: l’esigenza di assicurare che il progetto di trasmissione del potere non sia “ostacolato” in maniera apprezzabile da una mobilitazione politica contestataria di qualsiasi genere.

In teoria, il propagarsi di ideologie alternative potrebbe essere, di qui al 2018, il terreno in cui magari il PCC potrebbe essere maggiormente flagellato. Finora, certamente, si tratta di una possibilità soltanto sul piano ipotetico.

Ad ogni modo, il confronto ideologico (“lotta” ideologica se si preferisce) risulta una questione essenziale a Cuba fino al 2018, ed è questo lo spazio netto della politica “e basta”. È un impegno in cui il PCC potrebbe trovarsi in posizione relativamente migliore dei suoi rivali, non solo per la sua superiorità in fatto di possibilità di diffusione (che è certo molto importante), ma soprattutto perché il Partito continua a proiettare credibilità rispetto a un tema cruciale per l’articolazione di un messaggio ideologico largamente accolto dalla popolazione a Cuba: la giustizia sociale.

Di fatto, dopo l’inspiegabile “scivolone” comunicativo commesso con l’irrispettosa metafora del “piccione” (quello secondo cui i cubani aspettano a becco aperto la magnanimità dello Stato provvidenza), l’informazione disponibile sembra indicare che il PCC ha avuto successo nell’evitare che la disuguaglianza derivante dall’attualizzazione sia stata percepita come un equivalente di ingiustizia sociale, a prescindere dal fatto che la disuguaglianza si costruisce socialmente a partire dal potere e non è mai un “incidente” sociale. Al fondo, temi come l’unificazione monetaria e la tessera di approvvigionamento, per non fare che due esempi, lungi dall’essere argomenti “tecnici” dell’attualizzazione, potrebbero costituire apporti positivi, o trasformarsi in errori politici, a seconda di come li si maneggino.

La lotta ideologica non è un argomento secondario, dal momento che sono le contraddizioni delle politiche in corso il terreno più propizio per riportare a galla le incongruenze tra ideologia e pratica politica. È dunque questa la sfera di più rapido logoramento del messaggio ideologico di coloro che esercitano il potere e in cui è più facile prestare attenzione a messaggi ideologici alternativi. Naturalmente, in questo caso, oltre al problema ideologico, è importante la “capacita statale” di realizzare politiche pubbliche che evitino l’esclusione sociale e che diano significato concreto al messaggio ideologico di giustizia per tutti.

Fino a che il PCC manterrà l’iniziativa per articolare “impegni ideologici positivi”[17] – ad esempio quello collegato alla percezione popolare del fatto che lo Stato cubano si assume la responsabilità in favore della giustizia sociale offrendo risultati concreti e non solo favorendo occasioni – è altamente probabile che il 2018 arrivi senza subire un significativo logoramento ideologico e politico, indipendentemente dalle contraddizioni (e dai guasti) dell’attualizzazione. Una ragione per suffragare questo argomento è la probabilità che a Cuba avvenga quanto si è verificato con una certa regolarità nell’esperienza storica: che gli “impegni ideologici positivi” risultino ben più attraenti di altre proposte ideologiche alternative, basate su temi che, essendo importanti in sé, vengono popolarmente percepiti come “beni politici astratti”.[18]

 

[1] Considerata dalla prospettiva dello sviluppo, non solo dall’angolo di visuale della macroeconomia, l’attuazione è del pari deludente. Non per il fatto di non riuscire ad offrire sviluppo – una meta che richiede sicuramente lassi di tempo maggiori – ma per lo scarso effetto che essa sta avendo sul crearsi di condizioni cruciali per dare impulso allo sviluppo, in particolare rispetto a quello che servirebbe per collocare, stabilmente, una parte crescente della forza lavoro del paese in traiettorie tecnologiche e organizzative ascendenti (trasformazione orientata verso una struttura di maggior “valore aggiunto”), e al tempo stesso per garantire che questa forza lavoro fosse in grado di “catturare” i vantaggi sociali del processo, compresi aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro, in linea con il concetto di “lavoro decente” promosso dall’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIT).

[2] La questione della “misurazione” della governabilità di un paese e del livello di conflitto che potrebbe esservi ha avuto notevole attenzione negli ultimi dieci anni, in particolare nel contesto delle esigenze della politica internazionale, soprattutto in fatto di gestione di conflitti e di priorità di aiuti all’estero e di collaborazione internazionale. Si parte dalle premessa che si tratta di un terreno in cui la misurazione è difficile e fonte di controversie, ma si ammette anche che poter disporre di un sistema di indicatori, pur con carenze, è pur sempre meglio che non averlo. Il punto che occorrerebbe tener fermo è che, d’accordo con questo “metro di misura”, non ci sono motivi per ritenere che lo Stato cubano presenti problemi di fondo di governabilità e, ancor meno per sostenere l’idea che vi sia la probabilità che a Cuba emerga una situazione conflittuali per ragioni interne. Se si passano in rassegna tre delle più note metodologie (MPICE dell’United States Institute of Peace, elaborata da esperti dell’esercito statunitense; “Conflict Assessment Indicators”, elaborata da The Fund Peace; “Governance and Conflict Indicators Report”, elaborata dall’ITAD per contratto con l’Agenzia di Sviluppo Internazionale -DFID della Gran Bretagna) risulta evidente che lo Stato cubano sembra in grado di offrire una situazione di “sicurezza sostenibile” (“sustainable security”), per riprendere la formulazione di Pauline H. Baker, “Conflict Resolution: A Methodology for Assessing Internal Collapse and Recovery”, in Carolyn Pumphrey y Rye Schwartz-Barcott (a cura di), Armed Conflict in África, The Scarecorw Press, 2003. Credo sia il tipo di considerazioni che aiutano a capire meglio alcuni recenti avvenimenti di politica interna rispetto relativi a Cuba.

[3]È questo uno degli aspetti più ricorrenti della letteratura accademica sul tema del potere. Sicuramente è stato un argomento posto in particolare rilievo dalla tradizione marxista, ma è stato anche importante per autori così diversi come Voltaire, Sorel, Clausewitz y Weber, tra gli altri.

[4] A rischio di apparire ridondante, un breve chiarimento: esercitare il “mandato” è pertinente per qualsiasi tipo di Stato contemporaneo. In alcun modo è una caratteristica esclusiva dei sistemi politici “non competitivi”.

[5] Maximiliano Rey. “Capacidad estatal y poder del Estado en Latinoamérica del siglo XXI: Una perspectiva política para el análisis de las políticas públicas y la estatalidad”, in Revista Estado y Políticas Públicas, a. 2, n. 2, maggio 2014, FLACSO-Argentina.

[6] Utilizzo qui il termine di “blocco egemone”, riferendomi concretamente al caso del “potere rivoluzionario” nella Cuba post-1959, più come un “jolly” narrativo che come concetto rigoroso. L’analisi puntuale del “blocco egemone”, indubbiamente indispensabile quando si debba analizzare in dettaglio la “transizione” di potere in corso, va ben oltre gli intenti di questo lavoro.

[7] Qui non mi riferisco a scritti autobiografici come quello di Milovan Gilas, Chrušcëv, Gorbacëv, Alexander Dubcek, Petre Pithart o Zhao Ziyang, tutti molto interessanti in sé, ma a lavori accademici che vanno dai “classici” del tema, quali Janos Kordai, Oscar Lange e Adam Preworski ad altri autori che hanno prodoto un’abbondante letteratura sulle riforme e la transizione post-comunista a partire dagli anni Novanta: A. Aslund, V. Kosmarskii, H. Kroll, D. Lipton, J. Sachs, J.M. Litwack, M. Hart-Landsberg, P. Burkett, S. Haggard,, B. Naughton, J. Unger, G. White, O. Filippov, O. Svetsova, G. Jibson, G. Evans, S. Whitefield, Wu Guoguang, Zheng Yongnian, Jinglian Wu, Chenggang Xu, Yiping Huang, L. Brandt, T.G. Rawski, Le Dang Doanh, A. Kokko, D. Dapice, R. Mallon, J.K. Rosengard, Hubert Schmitz, Dau Anh Tuan, Pham Thi Thu Hang y, Neil McCulloch.

[8] Governance intesa come efficienza, qualità e buon indirizzo di intervento dello Stato, che fornisce a questa buona parte della sua legittimazione in ciò che a volte si definisce “un nuovo modo di governare”.

[9] Carlos Sojo. “Reforma económica y cambio estatal en Centroamérica”, in Revista Nueva Sociedad, n.. 156, luglio-agosto 1998, pp. 127-142.

[10] Condividere il potere è, in sostanza, una variante possibile del risultato della lotta per il potere.

[11] Di nuovo, non si tratta che non vi sia perdita di sostegno rispetto al progetto statale vigente, ma che, indipendentemente da questo, il progetto si mantiene e si riaggiusta fondamentalmente in accordo con ciò che decide il governo. Non credo vi sia bisogno di dimostrare che il PCC continui a controllare l’esercizio della politica a Cuba. La scarsa rilevanza di altri raggruppamenti politici (non ritengo applicabile la definizione di “forze” politiche) si spiega sicuramente con la confluenza di vari fattori, anche se uno di questi molto importante è il fatto che questi gruppi politici non sono riusciti a mettere insieme il sostegno popolare, perlomeno non alla scale che si richiede per partecipare effettivamente alla vita politica.

[12] L’annuncio da parte del PCC, nel febbraio del 2015, che sarebbe entrata in vigore dal 2015 al 2018 una nuova Legge elettorale sembra adeguarsi all'”abito su misura” che si confeziona a mano per ricostruire a Cuba l’autorità politica. Nello stesso senso si potrebbe interpretare il richiamo fatto in precedenza, nel febbraio 2013, alla possibilità di una riforma costituzionale. Per ora, mancano particolari, ma sembra evidente la connessione di simili annunci con un processo di adeguamento concepito per facilitare una rinnovata governance alla nuova direzione politica.

[13] Gattopardismo” nel senso di “cambiare tutto perché niente cambi”, utilizzato nelle scienze politiche alludendo a un’espressione del personaggio di Tancredi nel romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tommasi di Lampedusa.

[14]Maximiliano Rey, op. cit.

[15] Merilee Grindle, Getting Good Government. Capacity Building in the Public Sector of Developing Countries, Harvard University Press, 1997.

[16] Non mi riferisco assolutamente all’esistenza di una situazione di “compiacenza” né di disponibilità generalizzata all’accettazione dello status quo, e sicuramente neanche a una situazione di “tolleranza” o di “rassegnazione”. L’emigrazione crescente del “periodo speciale” conferma che non di questo si tratta. Quel che dico è che la capacità statale di continuare a procurare beni comuni che sono considerati essenziali dalla gente (non solo dal governo) favorisce l’esistenza di una notevole fascia di acquiescenza popolare nei confronti di questo governo statale.

[17] Qui, “positivo” non vuol dire che si tratti di qualcosa di “buono”, ma qualcosa su cui si possano costruire soluzioni pratiche.

[18] Una nota di interesse storico su questo punto: i movimenti operai della fine del XIX secolo-inizi del XXI che riuscirono ad articolare “impegni ideologici positivi ottennero maggior successo nell’organizzare programmi politici attraenti rispetto al movimento “cartista” della prima metà del secolo XIX, che restò strutturato intorno a un messaggio ideologico basato su “beni politici astratti”.