La prima lettura dell’enciclica Laudato si’ mi aveva spinto a sottovalutarne l’effetto, nel primo breve commento inserito ai margini dell’orrendo scaricabarile di Ventimiglia. Mi immaginavo naturalmente che una sinistra allo sbando si lasciasse incantare da una denuncia senza proposte concrete costruita usando in parte la terminologia del movimento ambientalista, e condendola con citazioni dell’unico santo che piace anche a gran parte dei non credenti, il Francesco dell’amore e del rispetto per la natura, ma anche del dialogo disarmato con l’Islam in tempo di crociate.
Così mi ero accontentato di domandare al papa coerenza di atti, ad esempio con l’invio di qualche autorevole prelato come “forza di interposizione” tra i due schieramenti di polizia che si dividevano il compito e la responsabilità di spedire i migranti al di là del confini. Ma ovviamente non basta. Credo si debba analizzare meglio la “tecnica” usata nell’enciclica per far apparire il papa come un faro per l’umanità, che “si pone non come capo di una Chiesa, e nemmeno come profeta dei credenti, ma come padre dell’intera umanità” (sono parole di Raniero La Valle, apparse sul “manifesto” del 19 giugno).
La tecnica è antichissima, ed è propria di ogni chiesa, non solo di quella cattolica, e della sua avanguardia combattente, l’ordine dei gesuiti in cui Bergoglio si è formato. Per capirla, prendiamo uno dei paragrafi che hanno suscitato più interesse, il 129, e analizziamolo punto per punto, per vedere non solo se c’è una proposta reale, ma anche una denuncia utile e ben mirata. Lo riporto qui integralmente, inframezzando i miei commenti con un corpo diverso.
129. Perché continui ad essere possibile offrire occupazione, è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Per esempio vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti ed orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale.
Fin qui, la descrizione un po’idilliaca (con la mitizzazione perfino dell’ormai pressoché scomparsa economia di caccia e raccolta…) ha solo il torto di presentare come quasi statica la situazione, come se le monoculture industriali non continuassero a espellere anche con la violenza i produttori dalle terre, dalle foreste, dai mari e dalle acque interne. Ma poi due frasi descrivono in questo modo edulcorato il processo di concentrazione in atto almeno da un paio di secoli:
Le economie di scala, specialmente nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli agricoltori a vendere le loro terre o ad abbandonare le loro coltivazioni tradizionali. I tentativi di alcuni di essi di sviluppare altre forme di produzione, più diversificate, risultano inutili a causa delle difficoltà di accedere ai mercati regionali e globali o perché l’infrastruttura di vendita e di trasporto è al servizio delle grandi imprese.
Chi è responsabile di questo processo? Qualcosa di impersonale come “le economie di scala”, o le “difficoltà di accedere ai mercati”, oppure l’estensione del sistema capitalistico a tutto il mondo precapitalistico avvenuto con un combinato di violenza delle armi e di controllo ferreo della finanza? Ma vediamo le soluzioni proposte:
Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione. Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica.
Prima di tutto: chi sonoqueste autorità? Di chi sono espressione? E che vuol dire “a volte”? In quali paesi le “autorità” non favoriscono la concentrazione capitalistica anche in agricoltura? Ma per capire pienamente l’ipocrisia di quell’attribuzione in blocco della responsabilità a una indeterminata “politica” vediamo la “soluzione” che l’enciclica propone:
L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune.
Questa è la chiave: il mondo deve restare in mano a “imprenditori” e alle loro, non neutrali, “autorità”, ma l’enciclica raccomanda loro di “comprendere” che la creazione di posti di lavoro è parte del suo “servizio al bene comune”. Questo sarebbe il “comunismo” o almeno il “benicomunismo” dell’enciclica?
Analoghe formulazioni si trovano in molte parti dell’enciclica: ad esempio nel paragrafo precedente si afferma che “rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società”. Sono almeno mille e settecento anni che la chiesa dà consigli prima agli schiavisti, poi ai signori feudali, poi ai capitalisti su come governare. Con quanta efficacia, con quali risultati, lo abbiamo visto nei secoli e lo vediamo ogni giorno.
Se è facile spiegare l’accoglienza entusiastica di tutti i mass media borghesi all’enciclica, con la sola eccezione della destra troglodita di Salvini e soci, è difficile capire la sinistra che accetta questa logica mistificante: eppure anche il PRC non ha trovato di meglio che riportare nella pagina della sua Direzione l’articolo un po’ esaltato di Raniero La Valle sul papa come “padre dell’intera umanità”: http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=18574
Non basta che tra le tante cose contenute in questa enciclica, accanto alle ripetute perorazioni contro il diritto all’aborto, contro il “relativismo”, ecc., ci sia al punto 25 anche questa importante ammissione:
I cambiamenti climatici danno origini a migrazioni di animali e vegetali che non sempre possono adattarsi, e questo a sua volta intacca le risorse produttive dei più poveri, i quali pure si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa.
Non basta questo però per mutare il giudizio complessivo sull’enciclica perché, se l’ammissione su una delle cause del fenomeno è importante, manca del tutto una denuncia esplicita delle ipocrite “convenzioni internazionali”; e in conclusione si lamenta solo la “generale indifferenza di fronte a queste tragedie”, e la “mancanza di reazioni di fronte a questi drammi”. Ma il papa non è solo un individuo, è a capo di una enorme forza, presente in tutti i continenti, dotata di mezzi economici e di strumenti di diffusione delle proprie idee senza paragone. È lecito dunque giudicarlo da quel che la chiesa fa, non solo da quel che lui scrive o dice.
Ma ne riparleremo ancora.