Mercoledì 22 luglio, una parte dell’accordo imposto dalle istituzioni ed accettato da Alexis Tsipras – decidere la sua adozione è, sul piano politico, un test il cui carattere non può essere mitigato da espressioni di malessere personale – è di nuovo presentata alla Vouli. Bisogna tenere presente che il documento di 975 pagine è una tabella di marcia dettagliata.
Il primo punto presentato questo mercoledì riguarda la legislazione bancaria, detta del bail-in, che riprende l’accordo UE del 26 giugno. Cioè: una banca, nel caso di insufficienza di capitali propri in seguito a delle perdite, deve sollecitare in via prioritaria gli azionisti e i creditori detentori di debiti subordinati. Ciò per limitare il concorso di fondi pubblici.
Ora, lo Hellenic Republic Asset Development Fund (HRADF), creato nel luglio 2011, in qualità di società anonima di diritto privato, di cui la Repubblica greca è l’unico azionista, dispone di una presenza notevole in Alpha Bank, National Bank e Piraeus Bank. Nel consiglio degli esperti ci sono tre membri designati dalla Troika. L’organizzazione del sistema finanziario greco è pertanto al centro dei dibattiti, tanto più che è prevista una ricapitalizzazione delle quattro banche, per 25 miliardi di euro. L’intera meccanica bancaria-finanziaria sfugge al «potere» del governo greco. Lo stesso mercoledì, è anche prevista la «riforma» del Codice civile. Nessun aspetto della società sfugge a quello che è chiamato, in modo oltraggioso, «piano di aiuto ».
Alexis Tsipras ripete: «Vedo dichiarazioni, ma nessun piano alternativo all’accordo del 12 luglio; e se il piano più a sinistra è quello di Schäuble [Grexit temporaneo di 5 anni, per riassumere], lo si vada a dire ai Greci». Venerdì 25 luglio, gli inviati della Troika arriveranno ufficialmente ad Atene. Parleranno ai Greci, e a quali Greci?
Alcuni ministri provano a indicare quale via si potrebbe seguire per attutire il trauma dell’austerità. Così Theano Fotiou, ministra delegata alla Solidarietà sociale, insiste in interventi radiofonici, allo stesso tempo, sul bisogno «di unità di Syriza» e su misure come la reintroduzione di pasti nelle scuole alla riapertura delle scuole. Per farlo, bisognerà contare sull’aiuto della diaspora greca! Sarebbe un piano B all’interno del piano A? La portavoce del governo, Olga Gerosvasili, lascia intendere, da parte sua, che il disaccordo sull’agricoltura è secondario. «L’informazione» governativa ha le proprie esigenza, in un paese dove i grandi media privati hanno perso ogni credibilità.
I voti dei deputati di Syriza saranno contati e «registrati» questo mercoledì. Saranno 32 i NO?
Le 7 astensioni (voto «presente») saranno all’appuntamento? Il lavoro al corpo effettuato da Tsipras e la sua cerchia – minacce e cooptazione – sarà convalidato oppure sarà ostacolato completamente o parzialmente? Non si tratta di un aneddoto, ma del futuro di Syriza in quanto coalizione di una «sinistra radicale» fatta fallire. Ciò, nel momento in cui la «polarizzazione» interna è fortissima e gli attacchi virulenti contro la sinistra si moltiplicano. Senza parlare della voce secondo la quale dei membri del KOE (corrente maoista in Syriza) si dimetterebbero da Syriza, il che non è confermato. Sotto i colpi di una crisi proteiforme, una riconfigurazione della «sinistra radicale» si annuncia o è già iniziata. La manifestazione convocata da Adedy questo mercoledì sera rischia di non essere massiccia. E il «clima poliziesco» potrebbe fare da eco alla canicola.
Pubblichiamo di seguito un colloquio con John Milios, economista e membro del Comitato Centrale di Syriza. L’intervento che John Milios doveva fare nel quadro del Forum internazionale Ernest Mandel a Losanna è pubblicato su questo sito, datato 29 maggio: La logica di classe intrinseca delle politiche di austerità.Può Syriza proporre un’alternativa progressista?
(Redazione di A l’encontre)
Com’è la situazione una settimana dopo che il Parlamento ha accettato il Memorandum e due settimane dopo il referendum?
Quando è stato varato il referendum, abbiamo visto una campagna di voto che aveva caratteristiche sociali e di classe. C’erano due «Grecia» che si combattevano l’una contro l’altra. Da una parte c’erano, grossomodo, i poveri, i salariati, i disoccupati e i piccoli imprenditori, mentre dall’altra, c’erano i capitalisti, la classe dirigente o dei quadri [managerial class], gli alti ranghi dello Stato, ecc., che si agitavano per il SÌ.
Infine, una vasta coalizione della maggioranza sociale ha visto il referendum come un’opportunità per esprimere il proprio impegno contro il proseguimento dell’austerità e del neoliberismo. Tutto ciò è successo in una situazione di timore e terrore provocata dalla scelta della BCE di non ampliare la fornitura di liquidità d’urgenza (Emergency Liquidity Assistance, ELA) alle banche greche. Un grande numero ha visto la cosa come una tattica che mirava a provocare lo spavento e hanno iniziato a ritirare il loro denaro. Infine tutto ciò ha provocato la chiusura delle banche.
Il popolo greco ha quindi votato mentre le banche erano chiuse e in un’atmosfera di paura che pretendeva che il voto a favore del NO avrebbe condotto al disastro. Ci sono stati pure forti ricatti da parte dei datori di lavoro che spingevano affinché i loro dipendenti votassero SÌ. Nonostante questa campagna di paura e di propaganda, il 61,3% degli elettori ha votato NO.
Che cosa rimane oggi di questo risultato?
Penso che il referendum sia stato un errore politico dell’amministrazione Tsipras. La mia opinione politica è che Tsipras, e se non è lui allora la maggioranza del governo che lo ha messo sotto una forte pressione, desiderava firmare il Memorandum. Stimavano che il risultato del referendum sarebbe ciò che prevedevano i sondaggi: 50-50 o una piccola maggioranza per il NO. Avrebbe offerto una legittimazione politica alla firma del Memorandum.
Ma quanto è successo con il referendum è stato straordinario ed apre la questione per il futuro. Il governo ha trasformato il 61,3% di NO in un 82% di SÌ in Parlamento ed ha accettato il Memorandum.
Vedo una linea rossa che attraversa la politica di questo governo già dal primo momento. Pensavano di poter governare come prima della crisi. Cioè, che la questione principale è una recessione e che l’austerità è soltanto una cattiva politica che provoca riduzioni supplementari della domanda finale reale.
Personalmente, penso che questa analisi è completamente sbagliata [ved. l’articolo di John Milios citato nell’introduzione]. Il Capitale non ha altri mezzi per uscire da una crisi da solo, senza ridurre i costi per unità di produzione con tutti i mezzi. Ci sono due mezzi per farlo: con una riduzione dei «costi del lavoro» – cioè con l’austerità – e con una diminuzione dei costi dei beni intermedi e del capitale.
Anche la seconda opzione provoca una recessione a breve termine. Immaginiamo, per esempio, che tutte le industrie riducano di metà l’uso di petrolio, gas e altre energie generalmente necessarie. Che succederà al settore dell’energia? Crollerà.
Il capitalismo funziona attraverso un rimaneggiamento permanente dei rapporti di forza. Questo governo non ha capito che se volesse essere un governo della classe lavoratrice, dovrebbe seguire una politica che, sin dall’inizio, non parla di sviluppo né di recessione in generale,ma cerca vie alternative per promuovere la produzione di beni e servizi.
Ciò includerebbe strutture cooperative, l’apertura di fabbriche o di imprese nel settore dei servizi, così come un sistema fiscale solido e giusto che ridistribuisce i redditi e la ricchezza in direzione della classe lavoratrice. Tali misure dovrebbero essere degli obiettivi in quanto tali, non soltanto dei mezzi per uscire dalla crisi. Ecco la domanda-chiave: uscire dalla crisi a favore di chi?
Quali sono gli ostacoli a tali misure al livello dell’economia greca?
Attraverso i memorandum [2010 e 2012], è cambiato in parte il carattere dell’economia greca. E’ diventata più vicina a un’economia latinoamericana. Cioè un’economia duale nella quale una parte della popolazione viene esclusa.
C’è stato un aumento dei profitti molto importante per via dell’austerità. Grazie alle privatizzazioni e alle politiche liberiste estreme, il capitale privato ha conseguito nuove possibilità di entrare in quello che era il settore pubblico. E durante gli ultimi mesi del 2014 abbiamo visto tassi di crescita positivi e una riduzione della disoccupazione. Come diceva Marx, non ci sono crisi permanenti.
La questione è sapere come una società esce da una crisi. I profitti sono aumentati e il capitale è più centralizzato nella misura in cui piccole imprese hanno chiuso. Per esempio, il commercio al dettaglio si concentra in grandi centri commerciali e in grandi catene di negozi.
L’austerità è la politica corretta per lo sviluppo capitalistico a favore degli interessi più aggressivi del capitale. E’ un mezzo di distruzione creativa. Sapevano che ci sarebbe stata una grande recessione, e questa recessione ha tolto di mezzo i capitali valorizzati in modo inadeguato, le piccole imprese, i diritti civili, i diritti dei lavoratori, i diritti sindacali, così come pezzi interi del settore pubblico: tutto quanto era necessario.
Ciò che eravamo abituati a descrivere come il modello sociale europeo oggi non sembra niente di più che un cattivo scherzo. E’ un peccato che questo governo, che aveva un programma completamente diverso, sia stato costretto a prendere tali misure: diventare un governo del capitale, proseguire le politiche dei governi precedenti e finire in una situazione dove la gente lo combatte
C’è una tensione fra quanto è interno alla società greca e all’economia da una parte, e i negoziati con l’Europa che stanno in prima pagina nella stampa. Penso che ciò ha sempre fatto parte della sua analisi: non ci si dovrebbe focalizzare così sui negoziati, questo è un progetto di classe.
Fa bene a porre questa domanda. Ci sono due elementi in proposito. Il primo, per chi lottano gli «europei»? Lottano soltanto per recuperare i vecchi debiti del settore pubblico greco? La mia risposta è negativa, non potranno mai recuperare questo debito nella sua interezza. Lo sanno e per questo motivo hanno cominciato lentamente a discutere di una ristrutturazione del debito.
Lottano per un’integrazione europea nella forma di un’Europa liberista in ogni paese. Lottano per i capitalisti greci ma anche per quelli degli altri paesi. Non vogliono permettere la formazione di un’alternativa all’interno dell’eurozona.
Secondo punto, l’integrazione europea gioca una parte molto importante nel promuovere le politiche liberiste. In un certo modo funziona come una trappola per un governo che desidera condurre politiche a favore del popolo. Ciò non deriva dal fatto che numerosi paesi hanno la stessa moneta, ma dal fatto che la BCE deliberatamente non funziona come prestatore ed emittente di moneta di ultima istanza.
La BCE non sostiene i settori pubblici dei paesi membri dell’Eurozona con prestiti, così praticamente l’unico modo di fare fronte a problemi fiscali durante la crisi è il ricorso all’austerità. Ha deliberatamente posto tutti i paesi della zona euro in situazione a rischio di fallimento per proseguire la sua agenda neoliberista.
Allora com’è possibile adottare la posizione differente di una ristrutturazione interna dell’economia come risposta alla crisi quando si rischia il fallimento, quando si ha bisogno di prestiti supplementari per rimborsare i creditori e quando le banche possono essere chiuse da un’istituzione politica come la BCE? Una via strategica differente avrebbe potuto – si potrebbe ancora forse – essere seguita?
Penso che c’era un altro cammino strategico e che poteva essere imboccato già dai primi momenti quando questo governo di sinistra è giunto al potere. In riassunto, una prima tappa consisteva nel creare redditi per lo Stato tassando i ricchi. Ciò significa ugualmente combattere la corruzione e il contrabbando di petrolio e dei prodotti del tabacco. Questo governo non ha fatto molto in quella direzione, anche se era un punto importante del nostro programma.
La seconda grande questione è l’insolvenza. Dobbiamo dire agli Europei: «guardate, noi abbiamo un programma elettorale e voi avete una struttura dell’Eurozona che costringe ogni paese a trattare da solo i propri problemi fiscali. Quando un paese non può fare fronte ai propri problemi, gli consentite un prestito a condizione che conduca brutali politiche di austerità. Non siamo d’accordo con questo modo di fare perché siano un paese democratico dove la gente ha votato diversamente. Abbiamo iniziato a creare redditi per lo Stato con altri mezzi e siamo spiacenti, ma visto che non ci avete dato le rate di finanziamento sulle quali ci eravamo accordati nel passato, non possiamo rimborsare i nostri obblighi di debito, né all’FMI, né alla BCE.»
Il governo greco era giunto finalmente a questa posizione e aveva rinviato un pagamento all’FMI lo scorso mese. Prima di ciò e senza aver ricevuto i finanziamenti che gli erano dovuti, ha rimborsato ai creditori oltre 7 miliardi di euro, ossia più del 3% del PIL. Il governo avrebbe dovuto rinviare questi pagamenti almeno da febbraio ed esigere un nuovo programma.
Avrebbe potuto contemporaneamente ottenere eccedenti primari e risolvere da solo i suoi problemi fiscali tassando i ricchi. Il problema finanziario di pagare i creditori avrebbe potuto essere affrontato con un altro programma che non avrebbe incluso l’austerità.
Quando Syriza ha vinto le elezioni, le banche stavano in una situazione molto migliore; da allora le famiglie greche hanno spedito all’estero più di 41 miliardi di euro. I depositi bancari, sotto tutte le forme raggiungono attualmente 120 miliardi di euro. Prima della crisi, erano 230miliardi. La Banca dei regolamenti internazionali (BRI) ha calcolato chele famiglie greche avevano una posizione finanziaria netta di 250 miliardi di euro. Si tratta di un eccedente sotto forma di depositi meno tutti i debiti privati su scala internazionale.
Questi dati dimostrano che la classe media greca e i ricchi spedivano denaro all’estero molto prima della vittoria elettorale di Syriza, ma il processo si è accelerato a partire dai negoziati infiniti.
Se ci fosse stata una partenza diversa, come ho sottolineato, il risultato avrebbe potuto essere molto migliore. Certo non si può essere sicuri di una cosa prima di provarla. Ma sono convinto che ci sarebbe potuto essere, e che c’è, un’altra via.
Che cosa succede adesso che le banche si trovano in questo stato fragile, che i depositi sono spariti e che si deve attuare un nuovo Memorandum? Il Memorandum può essere realizzato da un partito di sinistra, in particolare nello spazio di alcuni anni? Il governo otterrà il sostegno del partito? Ci sono margini di manovra?
Il governo mi ha posto e ci pone tutti in una situazione particolare: di rottura fra le nostre opinioni politiche e la nostra posizione in qualità di partito della maggioranza lavoratrice da una parte, e dall’altra come membri di Syriza. Sulla base di quanto ho detto fino adesso, la politica di questo governo è oramai una politica a favore del capitale e promotrice dell’agenda liberista. Per definizione, questo va contro le convinzioni di Syriza e di quanto richiedevano il 61,3% degli elettori.
Non si tratta di un problema solo per Syriza, ma è un problema per tutti coloro che si sono mobilitati durante gli ultimi mesi e, in particolare, durante le ultime settimane a favore del NO al referendum. Di fronte a questo 61,3% si pone la domanda di che cosa dobbiamo fare adesso. Ricordandoci, inoltre, che senza la chiusura delle banche e la campagna di terrore, questo 61% sarebbe stato pure più alto.
Ho deciso categoricamente che appartengo a questa parte della società e che continuerò a battermi contro l’austerità e le misure del governo simili a quelle prese dai governi anteriori. Da un’altra parte, non voglio vedere una scissione del partito. Voglio essere parte in causa nei dibattiti che si avviano attualmente.
Una maggioranza del Comitato centrale di Syriza, che include compagni da quasi tutte le frazioni o correnti ideologiche, continua a sostenere la posizione del NO. Esigiamo dal governo che trovi un’altra soluzione alla crisi e che non firmi il nuovo Memorandum.
Sono però convinto che il governo ha preso la sua decisione e che firmerà. Il che rende la situazione difficile: non voglio austerità supplementare da un governo Syriza ma non voglio neppure una scissione. E’ una situazione molto difficile e non può essere risolta da una sola persona. Dobbiamo discutere fra di noi, nel partito e con la gente.
Ciononostante, non sono pessimista. Questa situazione – una delusione immensa per coloro che credevano in Syriza – può funzionare come punto di partenza di un’altra via, dove la gente stessa, in relazione con forme di democrazia diretta, inizia a prendere il proprio presente e il proprio futuro nelle proprie mani?
Possiamo iniziare a creare nuove strutture produttive di presa di decisione? Possiamo rimettere in esercizio le imprese e le fabbriche rimaste chiuse per colpa della crisi? Stiamo per assistere alla nascita di un movimento dal basso, di cui abbiamo bisogno oggi? Il vecchio slogan «il popolo prima dei profitti» può diventare una realtà concreta in Grecia?
Questo movimento può non solo mettere il governo sotto pressione ed esigere che cambi strada, ma può iniziare a cambiare la società provando a mettere in pratica la fine dell’agenda neoliberista e sfidare il capitalismo stesso.
Come tutto questo viene collegato al dibattito molto concreto sull’uscita dall’euro? Non citandolo, sembra suggerire che è un argomento secondario.
L’austerità e il neoliberismo non sono una questione legata soltanto all’euro. Se un paese cambia moneta, la classe lavoratrice del paese non prende il potere né pone fine all’austerità.
Però ho già dichiarato che l’eurozona, con le particolari e pesanti azioni della BCE, svolge una parte importante nella promozione e stabilizzazione del neoliberismo. Se una strategia condotta da un movimento politico di massa che pone un termine a tali politiche passa per l’uscita dall’euro, allora non vedo perché sarebbe un problema.
Il problema che affronta la classe lavoratrice greca non è tuttavia un problema tecnico che possa essere risolto con una semplice riorganizzazione della politica monetaria del paese, come la scelta della moneta. Posso facilmente immaginare una situazione dove una Grecia che esce dall’euro non riesce a trovare le risorse necessarie per sostenere i tassi di cambio della sua nuova moneta e ricorre a prestiti dall’eurozona o da altrove. Ma qualsiasi prestito, nella fase presente del capitalismo, significa memorandum di austerità. Quindi chi finanzierà il paese per sostenere i tassi di cambio della nuova moneta?
Infine, la svalutazione della nuova moneta favorirebbe probabilmente gli esportatori. Ma la classe lavoratrice non fa parte degli esportatori.
Hanno bisogno di carburante, di cibo e di medicine.
Si. Inoltre gli esportatori sono i grandi capitalisti e semplicemente aumenteranno i loro profitti. È identico a una svalutazione interna tramite la diminuzione degli stipendi. Aumenteranno i nostri stipendi perché realizzano profitti più importanti? La questione non è trovare un trucco per rendere il capitalismo greco più efficiente.
Prima ho sottolineato la posizione finanziaria netta largamente positiva delle famiglie greche per dimostrare che i ricchi e le grandi imprese (che non sono incluse in quelle cifre delle famiglie) hanno già spedito i loro soldi all’estero. Questa piccola frazione della società sarebbe avvantaggiata da una nuova moneta svalutata. La classe lavoratrice, invece, affronterà una svalutazione del suo potere d’acquisto.
Nel corso del cambiamento sociale che sfida il neoliberismo e il capitalismo, non ci sarà motivo di fermarsi perché la Grecia ha l’euro. In questo caso una nuova moneta potrebbe essere necessaria per appoggiare questa nuova via. Ma dobbiamo partire da questo cammino, non il contrario. Per questo motivo considero secondaria la questione dell’uscita dall’euro.
Parlando in termini non teorici ma politici – cioè come modificare i rapporti di forza politici e sociali – considero l’euro come un falso problema. Non partecipo ai dibattiti sulla moneta perché lasciano da parte la questione principale che è come rovesciare la strategia a lungo termine pro austerità dei capitalisti greci ed europei.
La questione non è tanto recessione contro crescita in generale quanto ridistribuzione della ricchezza, dei redditi e dei poteri a favore della classe lavoratrice; in altre parole una crescita per la maggioranza sociale anziché una crescita nell’interesse dei profitti.
(Traduzione dall’inglese al francese di A l’encontre. Colloquio realizzato il 20 luglio 2015, pubblicato il 21 sul sito Jacobin [https://www.jacobinmag.com/2015/07/tsipras-euro-merkel-debt-grexit/]. John Milios è membro del Comitato centrale di Syriza, professore di economia politica all’Università tecnica di Atene. Michal Rozworski, scrittore e ricercatore, vive a Vancouver, Canada. Il colloquio può essere ascoltato in inglese sul blog di quest’ultimo). Traduzione di A.Marie Mouni.