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grexitNon sappiamo come andrà a finire, molti sono gli sviluppi possibili, nulla è scontato, ma dalla vicenda greca possiamo già trarre qualche considerazione e qualche indicazione.

La prima è l’indisponibilità, anche minima, per gli assetti dominanti a emendare le politiche di austerity. Dovrebbe sempre essere chiaro che la partita greca riguarda l’1.9% del Pil dell’eurozona. Dunque la durezza dei creditori nella trattativa non ha una ragione economica, ma politica. C’è una terribile paura a fare concessioni ai greci, poiché tanti altri potrebbero chiedere di sottrarsi alla morsa del debito e poiché a fine anno si vota in Spagna. Rimettere in discussione il debito sovrano, poi, potrebbe significare rimettere in discussione pure quello privato, vero e unico motore, seppur stentato, della crescita di questi tempi.

Tutti a parole si dicono favorevoli alla trattativa, ma solo per chiedere la capitolazione ellenica. Un po’ tutti sono spaventati dalle sorti dell’Europa perché le conseguenze saranno anche economiche e perché le fragilità del sistema sono sempre più evidenti. Non è un caso che il partner commerciale principale in vista dei vari TTIP, gli Usa, chieda un accordo. Persino la Cina si autocandida per degli aiuti al piccolo paese europeo, e non è semplice propaganda o geopolitica, dato che la borsa di Shangai negli ultimi venti giorni ha perso ben il 17%.
La verità è che l’austerity ha fallito, le diseguaglianze in Grecia come in Europa crescono, la ripresa viene annunciata e puntualmente smentita, le ragioni produttive e finanziarie della crisi che imperversa dal 2007 sono per molti versi immutate. La Grecia è il simbolo di tutto ciò: 6 anni di sacrifici, debito crescente vicino al 180% del Pil, recessione verticale della produzione che ha smentito tutte le previsioni dei professori della Troika, compressione del salario (circa il 30%) senza che questo provochi la minima ripresa degli investimenti, salvataggio delle banche (soprattutto francesi e tedesche) che oggi detengono una minima parte del debito greco. Votare Sì significa semplicemente sostenere un progetto fallimentare e socialmente criminale.

Per la seconda volta il referendum sui diktat della Troika appare intollerabile alle élite: con Papandreus fu fatto ritirare, oggi è l’elemento che fa precipitare le trattative. La democrazia e il coinvolgimento popolare appaiono, anche simbolicamente, come inconciliabili con il fare scelte economiche su scala continentale. Paradossalmente anche quando si punta a vincere il referendum stesso. Perché di questo si tratta ormai. La scelta di Tsipras di coinvolgere i greci nelle decisioni si sta trasformando nell’occasione per provare a disarcionare l’attuale governo ellenico, lo dimostrano le dichiarazioni scomposte di Junker a favore del sì o la scelta di Merkel di posticipare una possibile ripresa delle trattative all’esito elettorale. Ciò dovrebbe far pensare che la scelta del referendum sia stata un autogol? No, una rottura, o perlomeno un salto di livello, nel confronto/scontro con la Troika non poteva avvenire sopra la testa dei greci. Il passaggio è diventato stretto e bene ha fatto il governo Syriza a coinvolgere i cittadini. Nessuna rottura che apra a un cambiamento reale può essere fatta senza il coinvolgimento popolare. Tutto quello che ne potrebbe conseguire in termini di conflittualità, di trasformazioni degli assetti socio-economici, si può fare a condizione di un protagonismo popolare. Se un appunto va fatto al governo greco è quello di aver tenuto troppo di riserva la carta della mobilitazione dei soggetti sociali in carne e ossa, sia su scala nazionale sia internazionale. Certo è comprensibile tergiversare e predisporsi almeno in parte ad una trattativa con i creditori per provare a rompere la morsa prodotta dagli assetti dominanti, basata su austerità e ipercompetizione su scala globale. Una rottura assai meno banale di come a volte si ritiene. Le difficoltà di liquidità di questi giorni lo dimostrano. Sul voto del 5 luglio pesa, infatti, il dato che se voti Sì potrai prelevare ai bancomat, se voti no non sai quando potrai farlo. Questa è la materialità dello scontro in corso. Mai dimenticarlo.

In tutto questo è scandaloso come il governo nostrano non solo evidenzi ripetutamente lo scarto dell’Italia con la Grecia, mentre abbiamo un debito-macigno che da anni grava in tutte le scelte di politica economica con risultati disarmanti (il debito pubblico italiano continua a crescere in termini assoluti e percentuali rispetto al Pil), ma addirittura indichi come strada maestra per uscire dalla crisi quella assunta proprio dall’Italia. La battuta di Renzi sul fatto che non avremmo tolto le baby pensioni agli italiani per darle ai greci, oltre a essere di pessimo gusto (i greci stanno vivendo un impoverimento terribile), non indica certo soluzioni credibili e adeguate al contesto in cui ci troviamo.

Il referendum greco costituisce un tassello fondamentale per il cambiamento, mobilitarsi perché vinca il No all’accordo proposto dai creditori significa non solo rafforzare le ragioni di Syriza contro la Troika, ma per la prima volta provare concretamente a incrinare austerità ed economia a debito, per tutti. La partita è in salita, i sondaggi oscillano e sono poco attendibili, ma l’arroganza delle classi dirigenti europee può essere un punto a nostro favore.
L’arroganza è cattiva consigliera. I greci potrebbero avere uno scatto di dignità per loro e anche per noi.