Durante il dibattito sugli accordi bilaterali con l’Unione Europea avvenuto in occasione della Conferenza cantonale del PS in vista delle prossime elezioni federali, non si sono avute, come si poteva facilmente prevedere, grosse novità. Sulla proposta di congelare la libera circolazione non si è nemmeno entrati in materia.
È stata per contro ribadita l’idea di perseguire nella politica fin qui fatta, mettendo qualche accento sulla necessità di approfondire la discussione su una eventuale adesione all’Unione europea che, di fatto, resta la prospettiva di fondo anche dei social-liberali nostrani.
L’atteggiamento di fondo è stato ben riassunto dal reggente Carlo Lepori: “non ci piace l’idea che il Partito socialista…si possa permettere di ricattare il mondo economico…noi vogliamo collaborare con il mondo economico e con i partiti di centro per realizzare misure di accompagnamento efficaci”. Più chiaro di così…Eppure, Raoul Ghisletta si è addirittura dichiarato soddisfatto dell’esito della conferenza. Mah!
Tra gli interventi seguiti alle relazioni ci sembra interessante ricordare quello di Pietro Martinelli, che permette di riportare la discussione sulla questione di fondo che, ci pare, sia mancata e manchi nel dibattito: cioè la natura dell’Unione europea. L’intervento di Martinelli ha insistito sui cosiddetti valori europei e può essere condensato in questa citazione: “l’Europa è l’ultima delle nostre utopie […] non è solo un fattore economico, ma anche culturale e di visione del mondo”.
Ebbene, è proprio da qui che la discussione deve partire.
La prima cosa alla quale si dovrebbe rinunciare è quella dell’imprecisione terminologica, foriera di gravi incomprensioni. Il dibattito che si sta sviluppando (in Svizzera come altrove) non è su un astratto modello di europeismo o di Europa da costruire; la discussione è se aderire, negoziare, condividere politiche e valori di una istituzione ben precisa, ben regolamentata, che vanta una costituzione, una precisa organizzazione dei poteri e delle linee programmatiche chiare: si chiama Unione europea ed ha già alle spalle una certa storia. Ed è con questa che dobbiamo confrontarci, con questa che dobbiamo parlare e negoziare. Vediamola, allora, questa UE.
Essa è, fin dai suoi primi trattati costitutivi, un progetto eminentemente economico; ma un progetto economico nettamente orientato verso scelte dettate dal capitalismo neoliberale. Liberalizzazione del mercato del lavoro, delle merci e dei capitali sono state fin dall’inizio all’insegna della concorrenza e competitività. La moneta unica e i diversi patti di stabilità hanno di fatto messo la politica economica degli stati nelle mani della Banca Centrale Europea e di un ristretto numero di altri funzionari (del tipo di quelli che, per l’UE, siedono nella famigerata Troika con FMI e BCE). È su questi valori economici che l’UE si è costruita e continua a svilupparsi.
Potremmo aggiungere i veri e propri disastri che le direttive europee hanno causato in materia di servizio pubblico (altro “valore” che sicuramente va difeso): ferrovie, poste, sanità, elettricità, nulla è sfuggito alle politiche volute dall’UE tese a privatizzare questi settori, aprendoli alla partecipazione attiva del capitale privato e introducendo nella loro gestione regole mercantili sempre più forti e potenti. Il risultato: una forte penalizzazione del servizio pubblico in quasi tutti i paesi europei.
Ma, anche volendo seguire il ragionamento di Martinelli, vediamo quali possono essere i tratti “culturali” di questa Unione Europea che ne giustificherebbero un’adesione più o meno convinta. Prendiamo, ad esempio, quello che l’Europa ci propone in materia formazione. La riforma più conosciuta è la cosiddetta Riforma di Bologna, avversata dagli studenti di tutta l’UE per l’impronta neoliberale data ai curricula di studi, concepiti come fabbriche di competenze per formare manodopera qualificata immediatamente spendibile sul mercato e per l’aumento generalizzato delle rette, dato da un sempre maggiore disimpegno statale nel sostegno finanziario degli atenei, per citare solo due aspetti. Non mi pare una riforma di cui essere orgogliosi…
Dal punto di vista dei tanto sbandierati diritti umani, di cui sarebbe la culla, l’UE ha prodotto… la “fortezza europea”, i cui strumenti, da Schengen al famigerato Frontex, servono solo, come mostra la tragica quotidianità della cronaca, a impedire a chi fugge da altre regioni distrutte da guerre, povertà e oppressione create e mantenute in funzione di quello stesso sistema economico capitalista nel solco del quale è nata e continua a evolversi il progetto di Unione Europea. Quelle migliaia di disperati che abbiamo visto sui barconi, le migliaia di morti nel Mediterraneo chiamano in causa direttamente i “valori” difesi oggi dall’UE.
E, per restare agli avvenimenti di questi ultimi giorni, che dire dei “valori” europei che, in nome delle esigenze del capitale e delle politiche di austerità, stanno facendo di tutto per schiacciare il governo e il popolo greco e spingerlo ad accettare un accordo che mortificherebbe e vanificherebbe qualsiasi tentativo di sfuggire alla mortale austerità vissuta in questi ultimi anni? Che dire di un’istituzione che vuole annullare il verdetto popolare che ha portato Syriza al governo della Grecia? Sono queste le “utopie” che dovrebbero farci sognare?
Naturalmente, ci si dirà, l’UE può essere cambiata. Le sue politiche potrebbero essere modificate e proprio per questo sarebbe importante esserci, per allearsi con coloro che queste politiche vogliono modificarle in nome di politiche “progressiste”(chiamiamole così).
Anche qui, qualche richiamo storico non fa male.
Prima di tutto per ricordare che questa Unione europea all’insegna dei valori e delle politiche del capitalismo neoliberale è stata messa in piedi da una maggioranza sostanzialmente…social-liberale. Eh sì, perché l’UE all’insegna della concorrenza e della competitività, le direttive sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, dei servizi pubblici, dell’euro e del ruolo superpotente della BCE e di tutte le altre nefandezze di questo genere sono state pensate e messe in cantiere al momento della cosiddetta “Europa rosa”, cioè quell’UE a 15 paesi, 13 dei quali diretti da governi a maggioranza di “sinistra” o di “centro-sinistra”. Schröder, Fabius, Mitterand, Prodi, Zapatero, etc: sono alcuni dei padri nobili di questa UE. Persino le misure messe in atto quando la “marea rosa” si era ritirata hanno potuto continuare
Vi è poi da ricordare come questo dispositivo di un’UE neoliberale sia stata messo in atto quando, dal punto di vista economico generale, la congiuntura era di gran lunga più favorevole per dei progetti di convergenza, diciamo così, avanzati, in un’ottica di “riformismo sociale”. Oggi queste prospettive, tra l’altro nemmeno più evocate con convinzione dai social-liberali, appaiono del tutto irrealistiche, anche perché i primi a tradirle sono gli stessi governi social-liberali che, in alcuni paesi europei, applicano politiche che vanno esattamente all’opposto e che sono in sintonia con quelle neoliberali avanzate in sede europea.
La realtà è che la Svizzera è da molto tempo in grande sintonia con le politiche neoliberali europee. Anzi, in molti casi (prendiamo, ad esempio, il modello dei tre pilastri per i sistemi pensionistici o il freno all’indebitamento), le politiche nazionali hanno anticipato quelle europee e l’UE si è spesso apertamente ispirata a quanto fatto dalle classi dominanti in questo paese.
E, ci si permetta di aggiungere questa considerazione finale, queste riforme neoliberali nel nostro paese si sono spesso fatte con l’accordo dei social-liberali come forza di governo: da quella, appunto, del sistema pensionistico dei tre pilastri, alla privatizzazione di posta e ferrovia, alla introduzione di criteri mercantili nella sanità (dalla LaMal, all’introduzione dei DRG e del finanziamento pubblico delle cliniche private), fino all’accettazione del principio del freno all’indebitamento e alla spesa, una sorta di “fiscal compact” europeo in salsa ticinese.
Se i social-liberali di questo paese vorranno sul serio contribuire a modifica l’UE nei suoi orientamenti capitalistici neoliberali dovrebbero perlomeno cominciare a rimettere in discussione la propria politica di collaborazione governativa a livello nazionale. Non mi pare che siano pronti.
*Una versione più breve del presente articolo è apparso oggi sul Corriere del Ticino