Tempo di lettura: 15 minuti

bailoutbowlDimenticato l’internazionalismo, la sinistra italiana tende spesso a vedere i conflitti di classe come conflitti tra Stati, e a indicarne volta a volta uno come causa di tutti i mali. La crisi greca ha rafforzato questa tendenza: sarebbe la sola Germania, indicata in genere come responsabile esclusiva di entrambe le guerre mondiali e “non a caso” culla del nazismo, a volere l’oppressione e il saccheggio della Grecia.[i]

È sciocco e fuorviante: sono stati i capitalisti di tutta Europa, Grecia inclusa, con tutto il loro seguito di lacché politici cristiano-sociali o socialdemocratici, a voler stroncare sul nascere il primo tentativo di risposta di un governo di sinistra al brutale uso del debito per ridurre in schiavitù un paese. Se la sinistra italiana non fosse così provincialmente eurocentrica, ricorderebbe decine di casi di paesi ridotti in catene col meccanismo dei prestiti internazionali (dall’Egitto nel 1882, all’Argentina e tanti altri Stati latinoamericani o africani un secolo dopo): non dalla sola Germania, ma dai capitalisti di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Olanda, Belgio, Italia, ecc.

Cioè da Stati imperialisti, che non sempre hanno avuto la necessità di utilizzare direttamente le armi (che pesavano tuttavia come possibilità concreta) per ottenere i loro risultati.

La germanofobia per giunta è un sottoprodotto dell’impostazione staliniana della Seconda Guerra Mondiale non come guerra antifascista ma come “Grande Guerra Patriottica” antitedesca, con tanto di riferimenti ideologici alla lotta di Alexander Newskij contro i cavalieri teutonici, ecc. Nei primi numeri della rivista “Rinascita” voluta già nel 1944 da Togliatti, c’erano articoli (ricavati dalla stampa sovietica) costruiti con decine di citazioni “antitedesche” di Marx ed Engels, avulse dal senso originario, perché volevano far dimenticare che i due erano severissimi contro la Germania proprio perché era il loro paese.

Né va dimenticato che l’involuzione della sinistra tedesca nel secondo dopoguerra non fu dovuta solo allo sterminio dei suoi migliori militanti nei lager, ma anche all’imposizione di un’assurda divisione, e soprattutto alla orribile esperienza di quel che si autodefiniva comunismo e che scacciò dalle loro case decine di milioni di tedeschi. Per giunta per otto anni, fino alla morte di Stalin e all’esplosione della prima rivolta operaia a Berlino Est, l’URSS impose alla sola parte orientale in cui si erano concentrati comunisti e socialisti sopravvissuti al nazismo un assurdo pagamento dei danni della guerra nazista, creando le premesse del cronico squilibrio con la parte occidentale, liberata da ogni peso per trasformarla in vetrina del capitalismo. Non un presunto germe del fascismo nel DNA, ma queste tragiche vicende hanno fatto sì che proprio nelle zone sotto l’influenza russa (sedicente, a torto, “sovietica”) si moltiplicassero i rigurgiti neo nazisti e xenofobi.

Detto questo, vorrei sottolineare che queste due compagne di Die Linke riscattano l’onore della sinistra tedesca ed europea: sono una minoranza nel loro partito, ma magari avessimo in Italia oggi qualcuno capace di ragionare su questo dramma greco con la stessa serietà e profondità, senza aggrapparsi stupidamente e inutilmente al mito di Tsipras, eroe carismatico di cui si ascoltano solo le penose autogiustificazioni, non le confessioni di errori che pagheremo tutti.

E con tutti i suoi limiti, che non nascondiamo, magari avessimo in Italia un’organizzazione socialdemocratica di sinistra come Die Linke, capace di cambiare le proprie posizioni dopo un serio dibattito, come ha fatto in questi mesi. Insomma, anche dopo Marx, Engels, Liebknecht o Rosa Luxemburg, la sinistra tedesca deve essere guardata con rispetto, senza stupidi e infondati sciovinismi. (Introduzione di Antonio Moscato)

 

 

 

La dichiarazione che segue è stata rilasciata la settimana scorsa da Nicole Gohlke e JanineWissler, due parlamentari radicali di Die Linke(La Sinistra), Germania, che fanno parte di una delle sue correnti di estrema sinistra, Marx21. Nella dichiarazione, criticano quella che vedono come l’incapacità del partito di considerare possibilità politiche al di fuori dell’eurozona, limitandosi a strategie di creazione di un’«Europa sociale» nei confini dell’Unione Europea (EU). Esse propongono invece un ampliamento del dibattito strategico in Die Linke, alla luce della sconfitta di Syriza (Syriza’s defeat) [1] per mano della troika.

Finora, il dibattito in Die Linke sulla sua posizione verso l’UE è stato largamente limitato dal comprensibile desiderio del partito di stare dalla parte del governo Syriza e sostenerlo, e anche dalla convinzione di lunga data di gran parte della sinistra tedesca che ogni opposizione all’UE rischia di cadere nel populismo nazionalistico e va pertanto evitata. Tale rifiuto di considerare visioni di una radicale trasformazione sociale al di fuori dei confini dell’UE ha per forza limitato Die Linke (e altre importanti parti della sinistra europea) a vaghi appelli a un’UE riformata, blandamente socialdemocratica.

L’esperienza di Syriza con la troika ha iniziato a stimolare un ripensamento di tale posizione. Anche se Gohlke e Wissler non sono le sole esponenti del partito a chiedere tale ripensamento, questo contributo è uno dei più importanti delle ultime settimane. Gli avvenimenti delle scorse settimane ad Atene e Bruxelles stanno stimolando accesi dibattiti strategici in tutto il continente, e la Germania non fa eccezione.

 

I termini del dibattito

Il 17 luglio, il gruppo parlamentare del Partito di Sinistra ha respinto l’ultimo programma di austerità imposto alla Grecia, con 53 deputati che hanno votato contro, e due astenuti. Il voto di Die Linke ha dimostrato un chiaro «oxi» al ricatto sul governo greco da parte di Angela Merkel, Wolfgang Schäuble e Sigmar Gabriel.

Anche se può sembrare che ciò non sorprenda, dato che viene da una formazione di sinistra, in realtà rappresenta una ridefinizione della nostra posizione, dato che in febbraio di quest’anno un’ampia maggioranza del nostro gruppo parlamentare aveva votato «sì» all’estensione del salvataggio, mentre una minoranza si era astenuta, e una minoranza ancora più piccola aveva votato «no».

Certo, il voto di febbraio era diverso, senza confronto in termini di gravità della decisione che veniva posta al voto. L’argomento a favore del sostegno al neo eletto governo di sinistra della Grecia, dandogli il tempo di manovrare, doveva essere preso particolarmente sul serio allora, malgrado che le tattiche di ricatto e le richieste neoliberiste delle istituzioni europee fossero già facili da vedere.

Diversamente da febbraio, questa volta Die Linke ha votato «oxi» perché il governo tedesco ha imposto al governo greco il più severo pacchetto di austerità dal 2010. Purtroppo Alexis Tsipras e la maggioranza dei parlamentari di Syriza non hanno visto alcuna via d’uscita dal ricatto, e hanno accettato il pacchetto di austerità.

Questa sconfitta rappresenta un’occasione per riflettere, porci domande, ed esercitare un’autocritica. La capitolazione del primo governo genuinamente di sinistra dell’Unione Europea dallo scoppio della crisi economica, al governo tedesco e agli altri governi europei che seguono la guida della Germania, è in definitiva la nostra propria sconfitta, e una sconfitta per l’intera sinistra europea.

Dobbiamo prendere questo momento per ripensare i presupposti strategici centrali che hanno guidato le nostre politiche nei mesi passati, cioè il nostro «sì» di principio all’UE e il nostro categorico « no» ad abbandonare l’eurozona. Fare questo significa ripensare la nostra strategia politica complessiva come partito di sinistra. Come partito della Sinistra Europea, siamo obbligati a discutere questa questione con i nostri compagni in tutto il continente, e in Grecia in particolare. Non possiamo abbandonarli in questa difficile situazione.

È di scarsa utilità (e controproducente) denunciare Syriza come traditrice e dichiarare la sua fine politica. Questo è il lavoro dei nostri oppositori politici che cercano di soffocare il risveglio politico che sta avvenendo in Grecia. Altrettanto inutili, però, qualsiasi reazione impulsiva, e lealtà cieche e incondizionate.

Non dovremmo, né respingere, né sostenere acriticamente ogni cosa che il governo greco ha tentato per porre fine al generale e continuo impoverimento del popolo greco. Quella specie di moralismo sdegnoso che dice che noi, come tedeschi o «esterni» non abbiamo il diritto di sviluppare un’opinione o una critica di quello che succede in Grecia, non ci aiuterà neppure a cogliere alcuna lezione politica dalla situazione.

Dobbiamo a noi stessi e ai nostri compagni greci una discussione onesta e solidaristica tanto sui successi strategici quanto sugli errori dei mesi scorsi, specialmente se vogliamo continuare a combattere insieme contro l’austerità in Europa e prepararci per le prossime lotte europee. È quindi decisivo che siamo abbastanza sicuri di noi da riflettere criticamente su quanto è successo, discutere l’uscita della Grecia dall’eurozona come una possibile alternativa, e tentare di capire che cosa l’attuale sconfitta e il massiccio «oxi » significano.

 

In malafede

Dopo essere stato eletto, Alexis Tsipras è stato ricattato dagli altri capi di stato europei, ai quali alla fine ha capitolato. Lo ha ammesso di fronte al Parlamento greco. La sua sconfitta non è un fallimento personale, e non è dovuta a una qualche specie di impulso egocentrico da parte sua a tenere il potere.

Nondimeno, il presupposto centrale della strategia politica del governo greco – la non negoziabilità di rimanere nell’eurozona e nello stesso tempo respingere una politica di austerità – non avrebbe avuto (né poteva avere) nessun altro risultato. In definitiva, questa strategia non dava al governo greco altra possibilità che sottomettersi al diktat di Merkel e Schaeuble. Noi abbiamo sostenuto i nostri compagni greci nella loro strategia e sperato che si potesse trovare una qualche via di mezzo, ma retrospettivamente dobbiamo ammettere che non esisteva alcuna via dimezzo.

L’ex ministro delle finanze, YanisVaroufakis, ha pubblicato di recente (recently published) un resoconto rivelatore dei negoziati con l’Eurogruppo, nel quale rivela che le proposte della parte greca non sono mai state prese sul serio – dopo tutto, fare questo avrebbe implicato una seria discussione sulle alternative all’austerità e la possibilità di concessioni da parte dell’Eurogruppo.

Ciò significa che, in realtà, i «negoziati» a porte chiuse di Bruxelles, non erano per niente negoziati, ma piuttosto una serie di riunioni nelle quali l’Eurogruppo decise ripetutamente che il compromesso che Syriza voleva raggiungere era mille miglia lontano da ciò che l’Eurogruppo cercava di spremere dal paese.

La dinamica è culminata nell’espulsione ed esclusione di Varoufakis – ministro greco delle finanze e rappresentante ufficiale di uno Stato membro dell’UE – dagli incontri dell’Eurogruppo. Il suo successivo tentativo di consultare lo statuto dell’Eurogruppo ha rivelato che l’Eurogruppo formalmente non esiste, e non offre quindi alcun diritto o privilegio ai singoli Stati membri. Ed è quindi apparso che le presunte giuste regole del gioco europee si erano frantumate sulle rocce di un’Europa a guida tedesca.

Alla luce di questi fatti, dobbiamo accettare che la strategia del governo Syriza, che era centrata sul negoziato e sul dialogodiplomatico, è fallita. Nemmeno le personalità carismatiche di Tsipras e Varoufakis, né la vasta esperienza e le abili tattiche diplomatiche, sono state sufficienti a ottenere una reale influenza, o a spostare, nemmeno lievemente, l’equilibrio delle forze nelle istituzioni europee.

L’impegno ad astenersi da «azioni unilaterali» non ha ottenuto nessun tempo in più, né spazio di respiro per Syriza. I negoziati hanno piuttosto dimostrato che le istituzioni europee sono un terreno sfavorevole e avverso per la sinistra, e che la strategia di offrire concessioni all’altra parte nella speranza di recuperare almeno una modica quantità di politiche umane e sociali fallirà. Merkel, Schäuble e Gabriel non erano interessati alla sola Grecia: la Grecia doveva servire da esempio per il resto dell’Europa.

Il messaggio che la sconfitta deve inviare è: non importa quanti scioperi generali si fanno, non importa se eleggete un nuovo governo e se la maggioranza della popolazione vota «oxi» in un referendum popolare. Queste cose non vi aiuteranno e non cambieranno la politica del vostro paese.

Questo è il messaggio che vogliono usare per demoralizzare l’intera sinistra europea e per soffocare la protesta sociale in tutto il continente. La delusione e la demoralizzazione si possono contrastare solo se la sinistra europea conduce un dibattito aperto e autocritico sulle lezioni da trarre dall’attuale sconfitta.

 

Una Grexit da sinistra

Alla fine, Schäuble (in collusione con Sigmar Gabriel) ha minacciato la parte greca di una Grexit forzata da destra. Una Grexit «da destra» significa che la Grecia lascerebbe l’euro impreparata, con le condizioni per cambiare la moneta, stabilizzare un tasso di cambio e ristrutturare il debito, da negoziare con l’UE da una posizione di profonda debolezza. È difficile dire se Schäuble e le frazioni conservatrici del capitale europeo considerassero seriamente questa opzione o se si trattasse solo di un ulteriore ricatto politico per estorcere ulteriori concessioni da Syriza alla luce della mancanza di una strategia alternativa del partito.

In un caso come nell’altro, la Sinistra in Europa ha mancato totalmente di pensare in modo serio a un piano B. Quindi, il governo di sinistra greco è stato privato di qualsiasi possibile alternativa nei negoziati con i creditori. Non avere un piano B, significa che Syriza aveva una sola opzione: rimanere nell’eurozona ad ogni costo. Quindi, le istituzioni potevano chiedere al governo greco tutto quanto ritenevano opportuno, poiché l’unica altra possibilità era la rottura, che doveva essere evitata non importa come.

Come poteva essere un piano B? Questo progetto è difficile, ci pone più domande di quante risposte offra. Anche se sulla questione di un piano B ci sono molti importanti contributi, in particolare da parte della sinistra greca, non esiste ancora uno scenario dettagliato di una Grexit da sinistra.

La sua relativa attrattiva è dovuta più che altro alla sua alternativa: rimanere nell’eurozona significa più austerità e immiserimento, l’abbandono di fatto delle funzioni parlamentari e democratiche, e una prova storica per Syriza come partito. Rimanere nell’eurozona ha costretto il governo Syriza – almeno per ora – a cambiare rotta dall’essere un aspro nemico dell’austerità a [essere] l’organo esecutivo della dittatura della troika in Grecia.

Una Grexit di sinistra, decisa autonomamente, non è in nessun caso una soluzione semplice o facile. In particolare, le sue conseguenze economiche restano molto controverse tra gli economisti e i sociologi di sinistra. Ora come ora appaiono più o meno imprevedibili. Sul breve termine, una Grexit potrebbe significare un approfondimento delle linee di frattura, un collasso economico, e un ulteriore impoverimento del popolo greco.

D’altra parte potrebbe anche significare l’apertura di nuovi spazi di manovra politica e di ambito di azione: ad es. decisione autonoma sui prestiti, misure nazionali contro la fuga di capitali e aumento delle tasse sui ricchi senza dover prima cercare l’approvazione della troika. Sono possibilità che vale la pena almeno di esplorare. Tali iniziative significherebbero naturalmente l’assunzione di un rischio politico quasi incalcolabile per i partiti implicati. Richiederebbe un salto nell’ignoto, accompagnato dal timore di essere ritenuti politicamente responsabili per gli errori e per le conseguenze inattese che potrebbero sorgere.

I nostri compagni greci hanno però già dimostrato la loro disponibilità a pensare audacemente e assumere rischi. Ad esempio, nel calore delle acute contraddizioni immediatamente prima del referendum, YanisVaroufakis aveva suggerito al gabinetto del primo ministro una serie di contromisure unilaterali come reazione alla chiusura delle banche greche da parte della Banca Centrale Europea.

La sua proposta può essere letta come il primo passo verso un’uscita dall’eurozona diretta autonomamente. Proponeva: 1) la stampa di obbligazioni o l’annuncio dell’intenzione del governo di introdurre una moneta separata (ancora legata all’euro); 2) attuare un taglio delle obbligazioni greche in possesso della BCE dal 2012; e 3) prendere il controllo della banca centrale greca.

 

Che cosa vuole il popolo?

Nel dibattito a sinistra sulla Grexit, c’è di solito un argomento politico oltre a quello economico: la maggioranza dei greci vuole rimanere nell’eurozona, il che significa che il governo Syriza poterebbe intraprendere una Grexit da sinistra solo contro il volere della maggioranza.

Ma è proprio così, o dovremmo invece vedere questo momento come uno di una dinamica contraddittoria in uno scenario di conflitto di classe polarizzato? È innegabile che, quando viene posta loro la domanda se vorrebbero rimanere nell’eurozona – scollegata dal programma di austerità che il rimanere nell’eurozona implica – la maggioranza dei greci risponde «sì». Ma sarebbe anche vero se la domanda fosse posta centrandola chiaramente sul legame con l’austerità?

La preferenza del popolo greco per quella che sembra la soluzione più facile (cioè rimanere nell’eurozona ponendo fine all’austerità) non è necessariamente incompatibile con la disponibilità ad accettare le conseguenze di una Grexit se dovesse dimostrarsi necessario – particolarmente se si dimostra impossibile rompere con l’austerità rimanendo nell’eurozona. Questo è precisamente quel che ha espresso il 61% dei greci che ha votato «oxi» nel referendum del 5 luglio.

Anche se Tsipras ha cercato di mettere in evidenza che il referendum non era principalmente un voto sulla questione della moneta preferita della Grecia, per molti greci era chiaro che stavano facendo una scelta tra rimanere nell’eurozona (perciò continuando l’austerità) da un lato, e un chiaro rifiuto dell’offerta fatta dalle «istituzioni» (e quindi la possibilità di una Grexit) dall’altra.

I media greci hanno cercato di proiettare proprio questo quadro, e di caratterizzare il referendum in questo modo. Panico e allarme sulle banche chiuse, immagini di lunghe code davanti a (quasi) vuoti bancomat, un collasso della vita pubblica – i media hanno creato uno scenario da giorno del giudizio come sfondo del referendum in Grecia, che l’Eurogruppo a sua volta ha usato come minaccia.

Il messaggio che emerge dal 61% che ha votato «oxi» nel referendum è amplificato dal molto reale rapporto tra la posizione sociale e il comportamento di voto: i poveri e i [lavoratori] dipendenti hanno votato in grandissima maggioranza contro l’accordo. Il referendum sembra quindi indicare che rimanere incondizionatamente nell’eurozona non è necessariamente un obiettivo condiviso dalla maggioranza della popolazione, ma è piuttosto un progetto delle classi proprietarie e dominanti della Grecia.

 

Una sconfitta comune

Il referendum ha dimostrato anche come le azioni coraggiose dei nostri compagni e compagne e l’iniziativa di lanciare il referendum, hanno potuto portare a una grande ripoliticizzazione della società greca e a una ripresa dei movimenti sociali. Molti hanno percepito questa possibilità, e gli è venuta la pelle d’oca quando Gregor Gysi e i/le portavoce della coalizione Blockupy hanno parlato di fronte a decine di migliaia di persone alla chiusura della manifestazione in piazza Syntagma. La mobilitazione per il referendum e il chiaro ‘”oxi” hanno indicato che vi è certamente un enorme desiderio di alternative politiche e di un Piano B nella Grecia stessa.

I nostri compagni e compagne nel governo hanno avuto cinque mesi per convincere una maggioranza della popolazione dell’utilità di un Piano B. Abbiamo avuto cinque mesi per dimostrare al popolo greco che stavamo facendo tutto il possibile per mantenere la nostra promessa elettorale di porre fine all’austerità rimanendo nell’euro. Ma avere un Piano B significa anche stabilire linee rosse che non siamo disposti a superare. Significa anche che – se si fosse dimostrato impossibile porre fine all’austerità all’interno dell’eurozona – allora doveva esistere un’alternativa reale e plausibile alla capitolazione.

Nello stesso tempo sarebbe stato necessario, forse nel senso delle proposte di Varoufakis, cominciare a prendere provvedimenti per lo scenario del caso peggiore, cioè prepararsi a emettere obbligazioni, a stampare una nuova moneta nazionale, a nazionalizzare le banche e a introdurre controlli sui capitali.

Naturalmente, è difficile dire se i nostri compagni e compagne di Syriza avrebbero potuto, con una tale strategia, convincere una maggioranza della popolazione a un’uscita dall’eurozona nel caso di un fallimento finale dei negoziati. Ma la rinuncia a ogni alternativa strategica al rimanere incondizionato nell’eurozona, non solo ha indebolito la nostra posizione nei negoziati, ma è anche stata disorientante per le persone, all’interno e all’esterno della Grecia, che guardavano al nuovo governo piene di speranza.

La responsabilità per l’errore di non preparare un Piano B e di non lottare per ottenere una maggioranza a favore di tale strategia non è della sola Syriza — è responsabilità di tutta la sinistra europea. Noi tutti dobbiamo a noi stessi di riflettere criticamente sul fatto che abbiamo trascurato di utilizzare, o anche solo di avere l’idea di utilizzare, l’ultima risorsa strategica che ci rimaneva: una rottura con le istituzioni e l’eurozona, sviluppando così lo scenario di una Grexit da sinistra. Non abbiamo quindi né ragione né giustificazione per agire come se avessimo saputo far meglio dei nostri compagni e compagne greci.

Nessuno può pretendere che avremmo fatto meglio o in maniera più intelligente di loro. Di fatto, le illusioni sullo spazio di manovra e l’opportunità di riforma all’interno dell’UE sono probabilmente anche più diffuse nella sinistra tedesca di quanto non lo siano in Grecia. Illusioni di questo tipo sono state coerentemente alimentate dal nostro stesso partito nelle ultime elezioni europee, mentre alcune correnti sono arrivate al punto di dire che una critica di principio da sinistra all’UE e alle sue istituzioni era impossibile.

Alla luce di questo errore, dobbiamo impegnarci in una riflessione e un’autocritica approfondite su noi stessi. Poiché la nostra comune sconfitta suggerisce che una politica veramente di sinistra in Europa può essere orientata d’ora in poi solo contro le istituzioni dell’UE. Ne consegue che, per un governo socialista nella periferia europea, una politica di sinistra può essere possibile solo completamente fuori dalla camicia di forza dell’Eurogruppo.

 

Distruggere l’illusione dell’UE

Dunque quali questioni devono essere riesaminate nel dibattito sull’UE? In Germania, la ragione più importante per cui DieLinke ha spesso difficoltà a criticare l’UE in quanto progetto imperialista, è perché essa viene descritta come una lezione storica imparata dopo la seconda Guerra mondiale. Si dice che le grandi potenze d’Europa, un tempo belligeranti si sono unite in una nuova alleanza geopolitica che avrebbe reso un futuro conflitto armato sul continente una cosa del passato.

Filosofi come Jürgen Habermas assumono questo punto di partenza per elogiare la UE in quanto costruzione post-nazionale e alternativa allo stato-nazione europeo. Ma anche se l’UE ha grandemente trasformato le relazioni politiche tra i suoi stati membri costituenti, la concorrenza economica fra detti stati non è stata diminuita da questa trasformazione quale che sia. Anzi: i negoziati attorno all’ultima estensione del salvataggio finanziario della Grecia rendono la cosa facile da vedere per tutti.

Che l’UE abbia introdotto l’euro e una politica monetaria comune ma non una politica salariale, sociale e di bilancio comune, non è una svista o un caso, né una condizione temporanea di un’Unione Europea ancora incompiuta. L’istituzione dell’euro e l’aggressiva strategia di esportazione della Germania sono dannose per i paesi economicamente più deboli come la Grecia, in particolare perché i vari stati non condividono una politica economica comune o coordinata. Anziché arginare il potere della politica e dell’economia tedesca, l’UE gli fornisce semplicemente un alibi post-nazionale.

Ora èchiaro che in Europa d’ora in poi si parlerà “tedesco”, come ha dichiarato allegramente Volker Kauder qualche mese fa. Dato questo stato di cose, dobbiamo decidere in quale misura un “riavvio” del progetto europeo in tutta l’UE costituisca una richiesta utile per la lotta di classe in Europa.

Le conseguenze delle politiche dell’UE sono molto diverse a seconda che si parli di Germania o di Grecia, di Gran Bretagna o di Portogallo. Una riconfigurazione della politica sociale europea condotta degli stati richiederebbe uno spostamento politico sincronizzato in quasi tutti i ventotto stati membri. Anche allora, le grandi società e i mercati finanziari servirebbero ancora da potenti oppositori di qualunque possibile riforma sociale.

Non crediamo che una concreta solidarietà fra i popoli d’Europa sia possibile facendo riferimento positivo a un’UE che sia immaginata e decretata dai governi nazionali come area di moneta comune e zona economica. Le varie lotte contro l’austerità e per un miglioramento delle condizioni di vita in tutta Europa (che di certo devono ancora essere unite in una causa comune) ci appaiono prospettive molto più promettenti. Né è da ignorare la lotta concreta contro le vecchie e nuove forme di fascismo e razzismo; ciò significa combattere Pegida in Germania, il Front National in Francia, e Alba Dorata in Grecia.

Èora di fare delle politiche dell’UE il tema delle lotte sociali concrete esistenti nei vari stati membri, piuttosto che continuare a parlare di una “UE sociale” per la quale saremo incapaci di costruire un movimento sociale nel prossimofuturo. Le nostre politiche devono contribuire a stabilire, espandere e approfondire, le reti paneuropee di solidarietà fra gli/le attori/attrici e gli/le attivisti/e politic/i/he nei movimenti nazionali, regionali e locali europei.

Dopo la sottomissione della Grecia al diktat delle istituzioni, è tanto improbabile quanto inappropriato aspettarsi che i nostri compagni e compagne nella Sinistra Europea continuino a considerare l’UE o l’euro in una luce positiva, poiché l’appartenenza all’eurozona si è rivelata essere uno strumento di attuazione e rafforzamento delle politiche di austerità.

 

Essere all’altezza degli slogan

Non ha molto senso cercare retrospettivamente gli ostacoli a una conclusione diversa della tragedia greca esclusivamente o anche primariamente nella stessa Grecia. Le ragioni del (temporaneo) fallimento di Syriza stanno soprattutto nell’assenza di movimenti di sinistra importanti nel resto d’Europa, come anche nella storica debolezza della Sinistra in Germania. Noi crediamo che sia necessario un nuovo e più forte impegno se vogliamo raggiungere un vero riassetto sociale in Germania con DieLinke.

Rimaniamo un partito che ottiene il 10 percento nelle elezioni e siamo in grado di mobilitare solo ventimila dimostranti per le manifestazioni di Blockupy. Il nostro radicamento nei sindacati è ancora misero, anche se in autunno almeno ci mobiliteremo insieme contro il Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti (TTIP).

Quest’azione comune è importante, ma è ancora troppo poco se veramente vogliamo essere all’altezza del nostro slogan di «portare la resistenza nel cuore del regime europeo di crisi ».Per far questo, dovremo fare il nostro compito a casa, al fine di produrre un “oxi” al neoliberismo e all’austerità che meriti veramente il suo nome.

Una lezione di questa sconfitta è di ripensare i presupposti della nostra politica e osare di considerare la possibilità di una rottura. Una rottura con un’UE che rafforza anziché superare il nazionalismo, la chiusura dei confini europei, e il conflitto imperialista. Una rottura con una politica puramente parlamentare che riduce i partiti a qualcosa che si vota una volta ogni qualche anno, e riduce i parlamenti a organi per attuare i desideri di lobbisti delle grandi imprese..

Il genere migliore e più importante di solidarietà che possiamo offrire al popolo di Grecia è cominciare a fare una reale pressione sul governo tedesco qui a casa nostra.

 

Nicole Gohlke è deputata di Die Linke al parlamento federale tedesco e membro del consiglio direttivo del partito in Baviera. Janine Wissler è presidente del gruppo parlamentare del parlamento dell’Assia e vicepresidente del partito.

 

[1] Versione in italiano: Stathis Kouvelakis: Grecia. Dall’assurdo al tragico.

 

[i] Inutile dire che per lo meno per lo scoppio della Grande Guerra le responsabilità tedesche dovevano essere condivise almeno con Francia e Russia, e che la Seconda Guerra Mondiale fu almeno nel Pacifico una guerra altrettanto interimperialista della prima. Sarebbe bene ricordare che in Europa la sua esplosione (e il precedente diffondersi dei fascismi) fu facilitata dalle frontiere arbitrarie e ingiuste imposte a Versailles dai vincitori della prima.