Questa domanda è una provocazione se ci si limita al solo ambito politico. Il referendum utilizzato come una semplice pressione tattica sull’Unione Europea, poi la rottura immediata con il mandato popolare uscito dallo scrutinio costituiscono una slealtà flagrante. Per realismo? Per scrupolo di prendersi le proprie responsabilità fino in fondo piuttosto che lasciare riprendere il potere alla destra? Questo ha poca importanza oggi, poiché le conseguenze di tale atto sono già misurabili nella società greca e anche molto ampiamente sul piano internazionale.
Il danno è immenso per tutti noi a meno che avvenga un nuovo colpo di scena che ci sorprenda. Yanis Varoufakis, da parte sua valuta che «avremmo dovuto riconsegnare le chiavi di Maximou e degli altri ministeri, come dicevamo che avremmo fatto in caso di capitolazione. Avremmo dovuto riconsegnare le chiavi a quelli che potevano guardare il popolo negli occhi e dirgli quello che noi non potevamo».
Ma sbaglieremmo a fermarci a questo punto, al solo livello delle responsabilità di Tsipras, delle sue illusioni e oramai del suo autoritarismo all’interno del partito. Nonostante l’esistenza in Syriza di una forte sinistra radicale, la direzione maggioritaria si ispira a un riformismo radicale, integrando nella propria pratica i vincoli strutturali del momento e provando a convincere le istituzioni europee della fondatezza salutare delle sue proposte. Per costatare alla fine che questo approccio «lucido» l’ha cacciata in un vicolo cieco. È ovvio che la direzione maggioritaria del partito ha commesso una serie di errori politici, anche solo nel modo di condurre i negoziati; e uscire dal referendum è stato il peggiore. Ma il «laboratorio greco» suscita una domanda molto più importante: come fare per una politica di rottura radicale con il sistema attuale all’interno dell’Unione europea e della zona monetaria? Il famoso piano B.
Oggi abbiamo una doppia ipotesi di riflessione per valutare la possibilità di un’altra traiettoria del processo greco. C’è in primo luogo quella della mobilitazione popolare e della radicalizzazione di base. Stathis Kouvelakis ha detto «la seconda ipotesi che già allora esprimevo era la necessità dei successi politici, incluso sul piano elettorale, per provocare nuovi cicli di mobilitazione. Penso che questo si è dimostrato esatto in due momenti cruciali». Ma tale evidenza ha avuto limiti pratici per la sinistra del partito: la società greca non era sull’orlo di una crisi prerivoluzionaria. E lo era tanto meno in quanto, grazie alle belle sorprese della Storia, un governo di sinistra radicale era arrivato al governo tramite elezioni classiche – certo dopo importanti scontri di classe e un crollodei partiti tradizionali – ma senza che la società greca si ritrovasse all’antivigilia di un fermento rivoluzionario. Uno dei motivi dipende anche dal fatto che la crisi delle istituzioni greche era «mitigata» dalla solidità delle istituzioni sovranazionali, istituzioni che da anni servivano da sostituti mortiferi, ma comunque sostituti. Una delle sue espressioni è la paura di rompere con l’euro in una larga parte della popolazione, inclusa quella che simpatizza per Syriza. «Quelli in alto» non sono più soltanto la classe dominante nazionale, ma anche le istituzioni sovrastatali. Ci tornerò su.
La seconda ipotesi che ci è stata pubblicamente proposta è quella di un’uscita programmata dall’eurozona. Cédric Durant scrive «Da un punto di vista tecnico, un’uscita della Grecia dall’euro presuppone che smetta di rimborsare il debito. Stampa dracme. Nello stesso tempo, la popolazione subisce uno shock molto importante, negativo, del livello di vita. Tutto quello che viene importato diventa carissimo. Ma in compenso, nell’arco di due, tre, quattro anni, la crescita riprende con vigore. L’esempio più classico è l’Argentina». Se è già abbastanza difficile credere che un popolo mobilitato in una crisi rivoluzionaria possa accettarne le costrizioni su un lungo periodo, che cosa pensare di un tale calendario (quattro anni… ma perché quattro?) in una situazione che non è quella [crisi]?
In un altro ordine di ragionamento, Jacques Sapir in «Conditions for a successful “Grexit”» costruisce un primo schema di ciò che secondo lui sarebbe stato possibile fare per rompere con l’euro. Fra l’altro: «Il governo potrebbe usare una parte delle risorse turistiche, che rappresentano attualmente il 17% del PIL. Se si applica un’IVA del 23% al settore (alberghi e ristoranti), le entrate fiscali, usate come cassa, ammonteranno a 8,5miliardi di dollari (…) Negli ultimi mesi, i greci hanno spedito all’estero oltre 35miliardi di euro. Dovranno rimetterli nella circolazione monetaria, anche solo per pagare le tasse. In queste condizioni, il 20% di questo importo, ossia 7 miliardi di dollari, potrebbe essere stanziato per le riserve della Banca centrale. Infine, la Grecia potrebbe chiedere ai paesi con i quali sta in buoni rapporti un prestito supplementare di 5miliardi di dollari. Questo denaro andrebbe in un fondo di riserva per la nuova moneta».
Ma tali abbozzi non tengono presente una situazione reale nella quale s’intrecciano economico e sociale. Non basta dire che l’economia turistica rischia molto di diminuire, che il PIL diminuirà fortemente e durevolmente a causa della contrazione del commercio estero per un paese che oggi importa tre volte più di quanto esporti, il che ne fa d’altronde uno dei casi particolari dell’Unione. Senza dimenticare l’inflazione che J.Sapir non omette prevedendo «un blocco temporaneo (3mesi) dei prezzi e degli stipendi e la costituzione di una “Conferenza Nazionale sulle Rimunerazioni” con il governo, i sindacati e il padronato a negoziare le condizioni di uscita dal blocco (…) Non si potrà evitare un’importante inflazione strutturale (dell’ordine dal 4 al 6%) [la quale] imporrà svalutazioni regolari (ogni anno oppure ogni 18mesi)». Perché dell’ordine dal 4 al 6% soltanto, in una situazione di probabile scontro sociale con la grande borghesia e la reazione, di riduzione degli investimenti e di penuria parziale? Si vede quindi che il dibattito a sinistra, in senso lato, ci offre solo poche piste per un piano B, in una Grecia estremamente isolata in Europa, da opporre alle istituzioni internazionali in buona salute e che non vengono contestate negli altri paesi europei.
Questi abbozzi di risposte non convincono. Perché per la prima volta questa domanda ci viene posta in circostanze concrete. La difficoltà, al tempo stesso politica, sociale e tecnica, nutre ovviamente il disfattismo. Ma non bisogna confondere disfattismo e lucidità.
Ha ragione Tsipras? Su questo sito Stathis Kouvelakis dice a buon diritto: «Evidentemente, la strategia del «buon euro» e dell’«europeismo di sinistra» è crollata, e molti se ne accorgono soltanto adesso. Il processo del referendum lo ha mostrato chiaramente e l’esperimento è stato condotto fino alla fine. È stata una lezione difficile, ma necessaria». E «bisogna quindi sottolineare la continuità della linea di Tsipras. È certo la ragione per la quale trovo che la parola «tradimento» sia inadeguata se si capisce ciò che succede. Certo si può dire che c’è tradimento del mandato popolare e che la gente, legittimamente, si sente tradita. Però, la nozione di tradimento significa generalmente che a un certo momento si decide coscientemente di non onorare i propri impegni. Credo che in realtà Tsipras credeva onestamente che avrebbe potuto ottenere un risultato positivo con un approccio centrato sui negoziati e sulla sua buona volontà. Ed è anche per questo che ha costantemente ripetuto che non c’era un piano di ricambio.»
È forse anche dovuto al fatto che il piano B non poteva porsi al solo livello della Grecia… Perché gli ultimi mesi hanno dimostrato che le istituzioni che dirigono l’Europa – al di sopra dei parlamenti nazionali e fuori da qualsiasi dibattito pubblico – se ne infischiano del voto democratico di uno Stato membro. Hanno anche dimostrato che su scala continentale queste istituzioni sovranazionali non conoscevano crisi purché lo scontro avvenisse con un paese periferico, dato che lo zoccolo duro si trova attorno alla Germania e alla Francia, come anche alla Gran Bretagna per quanto concerne l’Unione.
E siamo solo alla questione del vincolo monetario e a quella del debito. Rimane l’argomento principale, della nuova fase di concentramento del capitale (particolarmente su scala europea), della multinazionalizzazione delle attività industriali di ogni grande impresa, della segmentazione produttiva che ciò presuppone. Si può uscire dall’euro ma la questione dei prezzi di cessione interna alle aziende rimarrà intera, ciò che in realtà riguarda poco la Grecia.
Questi ultimi mesi suggeriscono pure che l’uscita dall’Euro di un paese politicamente isolato ma economicamente dipendente dai suoi «soci» non è così facile come per un paese che non appartiene a questa zona monetaria di un tipo molto particolare. Portano alla conclusione che riforme ampie, che ridiano sovranità al popolo e permettano di uscire dalla distruzione sociale del capitalismo liberista, d’ora in poi implicano necessariamente uno scontro sociale radicale che apra la via ad una rottura postcapitalista. Portano anche alla convinzione che ben poco si possa ancora concepire all’interno di un quadro nazionale. Certo, le lotte iniziano nelle condizioni specifiche di un dato paese, come nell’esempio della Grecia. In un primo tempo prendono consistenza opponendosi alle istituzioni nazionali. Ma la deflagrazione deve estendersi ad altri paesi, in particolare fra i più importanti economicamente, affinché le istituzioni sovranazionali entrino davvero in crisi e dimostrino la loro incapacità a dominare e a dirigere. Perché la formula di Lenin sulla possibilità rivoluzionaria, «quelli in basso «non vogliono più»e quelli in alto «non possono più»vivere come in passato», non si applica più soltanto alle borghesie e alle istituzioni nazionali, ma anche (soprattutto?) alle istituzioni sovranazionali.
La rete si è chiusa attorno a noi quando si è messo in piedi un cartello internazionale, un sindacato del tardo capitalismo, una nuova forma di «banda di uomini armati» … per ora armati solo di trattati e di banche centrali. Ci si deve arrendere all’evidenza. Anche se non crediamo neanche per un momento a un’esplosione sociale su scala europea e neanche a una sincronizzazione su scala di due o tre paesi, dobbiamo almeno costruire una risposta strategica sulla scala di questo insieme. Non ci può essere da nessuna parte un piano B o C, se non si articolano leve nazionali ed europee, e dunque se queste non si basano su convergenze e solidi fronti politici transnazionali. Il cammino sarà lungo, ma più il tempo passa più la morsa si chiuderà sui popoli e sulla sinistra anticapitalista, avvicinandoci sempre più alla barbarie. No, Tsipras non ha ragione. Ma se è rivelatore del vicolo cieco dell’europeismo di sinistra, come scrive Stathis Kouvelakis, è anche l’espressione delle difficoltà di tutta la sinistra radicale europea. Non abbiamo finito di misurare la profondità della sconfitta sociale che la fondazione dell’Unione europea ha costituito già da 22 anni, per la grande maggioranza della popolazione del continente. E la scala di ciò che dobbiamo ora intraprendere a livello politico europeo.