Ho aspettato alcuni giorni prima di commentare l’esito della marcia indigena e dello sciopero del 13 agosto in Ecuador, che avevo temuto fosse riuscito meno bene di quanto previsto. Scarseggiavano materiali e anzi circolavano quasi soltanto le dichiarazioni infuocate contro i promotori della mobilitazione fatte da Correa, che da quando non c’è più Pepe Mujica è quello che beneficia di un trattamento di favore della stampa occidentale rispetto a tutti i presidenti “progressisti”.
Anche il manifesto, d’altra parte, solidamente ancorato con Geraldina Colotti alle fonti di informazioni “ufficialiste”, aveva liquidato come poca cosa il Paro del pueblo e il Levantamiento indígena.
I compagni dell’Ecuador che avevano tempestivamente segnalato la mobilitazione che stavano preparando, nei giorni successivi sono stati impegnati in discussioni di bilancio dell’iniziativa (e di valutazioni collettive delle prospettive) e avevano risposto telegraficamente alle sollecitazioni di nuovi testi, rassicurando peraltro sul risultato complessivo positivo: è la prima volta che si riesce a organizzare una mobilitazione popolare di carattere nazionale negli otto anni del correismo; le iniziative non sono rimaste circoscritte alla capitale, ma si sono sviluppate in diverse provincie, sia nelle città che nelle campagne; la marcia indigena, partita il 2 agosto dal sud del paese, ha trovato appoggio in tutte le zone che ha attraversato; anche la marcia del pomeriggio di giovedì 13 ha attirato la presenza di decine di migliaia di cittadini di Quito, e l’esperienza si è ripetuta il giorno successivo. Il governo ha risposto in modo repressivo, e ha minacciato di “rispondere con la violenza ai violenti”. Ovviamente la discussione prosegue sulle forme necessarie per dare continuità alla mobilitazione, e per garantire il consolidamento delle prime forme di unità raggiunte. Se arriveranno articoli interessanti, cercheremo di tradurli. [mentre scrivevo, mi è arrivato l’articolo di Decio Machado e Raúl Zibechi, e subito dopo la tempestiva traduzione sul sito http://comune-info.net/ , che ho subito ripreso in: Zibechi-Machado: la repressione come limite ]
Ma stride il confronto con l’informazione amplificata che c’è stata invece su tutti i mass media italiani a proposito di una manifestazione antigovernativa in Brasile del 16 agosto (appena tre giorni dopo la manifestazione centrale di Quito). La differenza si spiega subito: nonostante gli sforzi di Correa e dei suoi molti amici e clienti di attribuire alla destra la marcia indigena, solo perché le destre storiche, svuotate e senza prospettive, avevano promosso iniziative convergenti per lo stesso giorno (centrate non sulla critica dell’estrattivismo distruttivo, ma sul tentativo di modifica della costituzione per consentire una nuova rielezione di Rafael Correa, e sull’aumento delle tasse di successione), il segno alla mobilitazione in Ecuador è stato dato dal movimento indigeno e dalla sinistra (che d’altra parte aveva da tempo contestato autonomamente la pretesa di Correa di trasformarsi in presidente a vita).
In Brasile invece la protesta era inequivocabilmente di destra. Quindi meglio utilizzabile dai nostri mass media: tante bandiere nazionali, tanti striscioni contro Dilma ma soprattutto contro il PT (con cartelli in cui la falce e martello veniva accostata alla svastica). Naturalmente 800.000 persone (o anche un milione o due come hanno sostenuto gli organizzatori) non vogliono dire molto in un paese con più di 180 milioni di abitanti. Dilma comunque ha bollato le manifestazioni contro di lei come iniziative golpiste, ma il problema è che abbastanza modeste sono state le contemporanee manifestazioni in difesa del governo. Vedremo come è andata ieri 20, data in cui è stata convocata una mobilitazione di tutte le sinistre (fuori del PT) con la parola d’ordine di respingere l’offensiva conservatrice ma senza smettere di criticare le attuali politiche governative di austerità (http://www.resumenlatinoamericano.org/2015/08/19/brasil-organizaciones-sociales-se-movilizaran-este-jueves-contra-la-ofensiva-conservadora-pero-sin-dejar-de-criticar-las-actuales-politicas-de-austeridad-gubernamentales/). Tra i promotori partiti come il PSOL e il PCdoB, tra gli aderenti il Movimento dos Trabalhadores Sem Teto (MTST), il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST), la Central Única dos Trabalhadores (CUT), la Central dos Trabalhadores e Trabalhadoras do Brasil (CTB) e molti altri ancora: Intersindical – Central da Classe Trabalhadora, Federação Única dos Petroleiros (FUP), União Nacional dos Estudantes (UNE), União Brasileira dos Estudantes Secundaristas (UBES), Rua – Juventude Anticapitalista, Fora do Eixo, Mídia Ninja, União da Juventude Socialista (UJS), Juntos, Juventude Socialismo e Liberdade (JSOL), Associação Nacional de Pós Graduandos (ANPG), Federação Nacional dos Estudantes do Ensino Técnico (Fenet), União da Juventude Rebelião (UJR) ecc. Hanno aderito perfino il Serviço Franciscano de Solidariedade (Sefras) e la Igreja Povo de Deus em Movimento (IPDM).
Al di là del puro confronto numerico sulla partecipazione alle diverse manifestazioni, sarà importante capire se la mobilitazione è riuscita ad offrire un punto di riferimento visibile ai settori popolari scontenti e indignati per la corruzione del governo e dell’apparato del PT, ma non disposti a tornare sotto l’influenza di una destra rapace e che non esita a chiedere un intervento dell’esercito. Probabilmente né il governo di Dilma Rousseff né quello di Correa cadranno a breve scadenza, e il golpe non è dietro l’angolo, ma certo pesa che l’esercito soprattutto in Brasile non sia stato neppure toccato dal nuovo corso “progressista”, e possa apparire un punto di riferimento per chi mal sopporta le modeste misure di giustizia sociale prese in questi anni. Ne aveva parlato ampiamente una docente di Storia del Brasile, ma soprattutto consulente della Commissione nazionale per la verità, Heloísa Maria Murgel Starling, in un inquietante articolo apparso poco più di un anno fa su Limes (6/14), Nel nuovo Brasile, la dittatura è ancora tabù.
È interessante osservare che – anche se il tema principale è stato la guerra alla “casta” e alla corruzione – sia la destra che la sinistra temono il ruolo della Cina, che ha impegnato ingenti capitali nell’America Latina, e appare come una potenza imperialista. Ma in realtà la Cina può pesare negativamente nella situazione brasiliana (e di molti altri paesi del continente) soprattutto se dovrà cominciare una ritirata dopo una lunga fase di penetrazione ed espansione, e ridurrà gli acquisti programmati, che hanno indotto il Brasile ed altri paesi a orientare la produzione in base alle esigenze cinesi. È questo che può far saltare gli equilibri attuali e potrebbe portare alla fine dell’esperienza “lulista”.
Il PT e Syriza
Esperienza che aveva pesato molto nella formazione del progetto di Syriza e dell’ideologia di Tsipras, in vario modo. Certo oggi Tsipras è stato incoraggiato dalla verifica che lo scarto tra il peso dell’opposizione tra i militanti del PT e quello del leader carismatico (che è sempre Lula, dietro le spalle di Dilma) in un paese male informato e in parte scarsamente politicizzato, ha permesso la sopravvivenza del gruppo dirigente del PT attraverso diverse elezioni che sembravano inizialmente più che incerte. Probabilmente anche per questo Tsipras, contando sui tranquillizzanti sondaggi che lo darebbero ancora vincitore di una tornata elettorale ravvicinata, ha deciso di anticipare a settembre la scadenza elettorale senza esservi costretto da un formale voto di sfiducia. Pensa soprattutto a mettere fuori gioco l’opposizione interna, che ha più volte dichiarato di voler escludere (almeno in parte) dalle liste approfittando dei tempi imposti dai macchinosi meccanismi elettorali ellenici che glielo consentirebbero. Tsipras sa che nel giro di pochi mesi la brutalità che gli è stata imposta dai creditori, ma di cui si è fatto pienamente corresponsabile dichiarando che “non c’era alternativa”, potrebbe modificare radicalmente la situazione. Dilma ha imposto sacrifici per pagare gli impianti sportivi megalomani voluti per ragioni di prestigio, ma certo non sono neppure paragonabili al taglio feroce delle pensioni minime, o all’aumento dell’IVA in Grecia, e alla svendita di risorse indispensabili come gli aeroporti in molte isole meta del turismo internazionale accettata da Tsipras. L’unico successo che vanta Tsipras in questa fase delle trattative (che sarebbe più esatto definire “della capitolazione”), è il cosiddetto “aiuto economico dell’Europa”, ma non ci vorrà molto per verificare che non avrà nessuna ricaduta sulla maggior parte della popolazione, perché destinato in larga parte alle banche europee e greche, e perché in realtà continuerà ad aumentare un debito che non si è avuto il coraggio di denunciare come ingiusto e odioso.
Non le critiche dell’opposizione interna ancora in parte indecisa su come e quando organizzarsi fuori da Syriza, ma l’evidente brusco peggioramento della condizione di vita dei greci può essere determinante per un crollo della sua immagine: gli elettori possono cominciare a chiedersi a che è servito cambiare governo se la sua politica è uguale a quella dei governi precedenti, e anzi appare più dolorosa perché messa in atto con lo zelo di chi vuol farsi perdonare dalla Merkel e “dall’Europa” il radicalismo iniziale.
Per il momento Tsipras spera probabilmente di poter fare come in Brasile: dopo tanto malcontento tra i militanti storici, tra i fondatori del PT, dopo qualche incertezza, per la rielezione di Dilma Rousseff sono stati determinanti i voti degli strati più poveri, rimasti poveri ma grati per quei sussidi assistenziali di poche decine di dollari che prima dell’elezione di Lula non c’erano. Ma in Grecia non si tratta solo del perpetuarsi delle disuguaglianze, c’è un ulteriore arretramento netto delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, e il calcolo del premier potrebbe risultare sbagliato. Vedremo nei prossimi giorni, che possibilità di scelta avranno i greci. Intanto sarebbe bene smettere di tifare per Tsipras come fa il Manifesto e gran parte della residua sinistra italiana: la sua scelta elettorale è legata all’obiettivo di distruggere le voci critiche, facendo appello alle masse meno politicizzate, prima del congresso, che a quel punto non potrà decidere più nulla. Complimenti. La cravatta regalata a Tsipras dal “compagno Matteo” ha funzionato…