Tutti quelli che hanno riposto le loro attese nella prospettiva di un Governo Syriza ancora oggi si trovano nello stato di “shock post-traumatico”, come giustamente ha scritto Seraphim Seferiades. Lo shock è attribuibile innanzitutto alla sconfitta di una particolare strategia politica, ma anche alla sua ampiezza: il suo carattere devastante è qualcosa i cui effetti vanno ben al di là delle persone, in un modo o nell’altro, coinvolte.
Come membro del Comitato Centrale di Syriza negli ultimi tre anni porto anche io la responsabilità collettiva di quanto accaduto. Certamente non ricopriamo tutti lo stesso ruolo in Syriza: in qualità di membro della Piattaforma di Syriza negli ultimi cinque anni sono stato tra quelli che più si sono spesi intervenendo in maniera martellante su questioni come l’euro, scorgendo il disastro davanti a noi semmai non avessimo cambiato la rotta.
E comunque sarebbe banale se dicessi che quello che è successo non mi riguarda. La linea della maggioranza di Syriza ci ha portato alla debacle, ma quelli di noi della minoranza non sono stati in grado di impedirla, per quanto molti eventi ci diano oggi ragione. Nonostante tutto ciò io non sto qui per autoflagellarmi, non solo perché non sarebbe d’aiuto ma perché fare così sarebbe una scusa, una via di fuga dalla sostanza politica del problema.
Quelli di noi che hanno accettato tali responsabilità, ognuno per quanto gli competeva, devono ora sforzarsi di contribuire all’azione collettiva relativamente a quello che noi possiamo fare insieme d’ora in poi: non si tratta di arrendersi!
Scrivo qui quello che penso, schematizzandolo in tre punti. Il primo è relativo a che cosa, con questa sconfitta, è stato sconfitto. Il secondo, per quanto paradossale possa sembrare, è relativo a cosa non è stato sconfitto, ovvero che rimane a disposizione per il futuro. Terzo punto, naturalmente, che fare adesso!
Che cosa è stato sconfitto?
Non è mai evidente a chi ha subito una sconfitta, e particolarmente se si tratta di una sconfitta di dimensioni storiche, che cosa sia stato effettivamente sconfitto. L’esempio più caratteristico è relativo alla fine dell’Unione Sovietica e del Blocco dell’Est. Anche oggi non c’è unanimità su cosa sia stato sconfitto per via del collasso di quelle esperienze.
Molti ancora pensano che ciò che fu sconfitto insieme all’URSS fu il comunismo, il socialismo, la rivoluzione, la possibilità di una liberazione sociale. Quelli di noi che non sono d’accordo sono una minoranza, fatto che non significa che si abbia di per sé torto. Eppure non siamo riusciti ancora ad imporre le nostre ragioni. Il dibattito in merito a cosa abbiamo perso noi è aperto, ed io non nutro illusioni che quello che sto per dire sia largamente condiviso: del resto siamo all’opposizione!
Mi pare logico, tuttavia, partire da quello che per me è il punto a dir poco più controverso: ciò che è stata fragorosamente sconfitta è una strategia politica, la strategia che la maggioranza di Syriza, e quindi di Syriza in quanto tale, ha predicato negli ultimi cinque anni e che può essere chiamata “Europeismo di sinistra”. Era la concezione che i memoranda e le politiche di austerità potessero essere superate entro la cornice dell’eurozona, e più in generale, dell’Unione Europea. Non è stato necessario dotarsi di un piano alternativo in quanto l’analisi finale era a lieto fine: una soluzione positiva sarebbe stata trovata nell’eurozona e le apparenti virtù di noi “bravi cittadini europei” e gli esercizi di fede nell’euro avrebbero ammorbidito le trattative.
Penso che sia stato dimostrato in maniera completa durante gli ultimi cinque mesi che nulla di tutto questo è possibile. È stato dimostrato esaustivamente perché tentato da un soggetto politico che ha creduto fino alla fine in questa possibilità, vale a dire piegandosi dal dolore pur di lavorare nella sfera di un particolare contesto, l’eurozona, e tenacemente rifiutando di esaminare altre soluzioni.
Per questa ragione parlare di “tradimento” e di “Tsipras traditore”, sebbene sia radicato in un’emotività comprensibile – è ovvio che qualcuno possa sentirsi tradito quando nel giro di una settimana un 62% di NO diventano SI – non ci aiuta a capire cosa sia successo.
Alexis Tsipras, il Primo Ministro greco, non ha portato a termine un piano segreto “di svendita”. Egli si è trovato a doversi confrontare con il totale fallimento di una strategia specifica, e quando la strategia politica fallisce questo significa che puoi solo scegliere tra un’opzione cattiva ed una peggiore: o piuttosto avere tra le mani solo quella peggiore, che poi è quello che è capitato.
Dunque l’approccio Europeista di Sinistra, l’asse intorno a cui il dibattito era stato centrato sia in Syriza che nella Sinistra Europea in generale, e in cui sia i conflitti del tempo che i limiti di Syriza stessa si sono riflessi, ha subito una ignominiosa sconfitta. Entro questi parametri generali vi sono, tuttavia, un numero di altri fattori meritevoli di attenzione.
Il primo è che la strategia dell’Europeismo di Sinistra ha naturalmente significato eludere largamente la dinamica della mobilitazione popolare. La decisione di focalizzare i negoziati con la Trojka con l’obiettivo di raggiungere una soluzione mutuamente accettabile ha velocemente condotto al primo grande fallimento, l’accordo del 20 Febbraio siglato tra il Governo greco e l’Eurogruppo.
Questo accordo non ha soltanto legato le mani al Governo di Syriza spianando la strada alla successiva capitolazione: la sua prima e più immediata conseguenza è stata la paralisi della mobilitazione e la distruzione di ottimismo e militanza, fattori che erano prevalsi nelle prime settimane successive alla vittoria elettorale del 25 Gennaio.
Naturalmente questo disimpegno nella mobilitazione popolare non è qualcosa che cominci il 25 Gennaio o il 20 Febbraio in conseguenza di una particolare tattica del Governo. È qualcosa di già preesistente nella strategia di Syriza. È qualcosa che ha accompagnato la ritirata delle grandi mobilitazioni di massa dei primi due anni del periodo “terapia shock” , 2010-2012: una ritirata che ha cause soggettive e, più significativamente, oggettive.
Cionondimeno l’adattamento a queste condizioni, alla ritirata del movimento di massa, è stato centrale per la scelta della leadership di Syriza. Da un certo momento in poi, nella virata di Syriza verso posizioni sempre più “moderate”, passare da “nessun sacrificio per l’euro” e “l’euro non è un feticcio” – slogan che avevamo sentito anche dopo la corsa alle elezioni del 2012 – a “noi non abbandoneremo l’euro; essi accetteranno quello che diciamo e sarà evidente come la luce del sole”, ha intensificato e riprodotto la ritirata.
Il secondo punto della strategia che è risultata sconfitta è la logica dell’accomodamento prevalsa nel “fronte interno” una volta che Syriza ha assunto responsabilità di governo. Ci sono un po’ di ambiti entro cui questa logica si è dipanata:
– il primo è stata la scelta specifica di operare in favore di un’alleanza con i funzionari politici storici. Ciò risulta evidente dalla scelta di Prokopis Pavlopoulos, Nea Dimokratia, a Presidente della Repubblica, per non menzionare le preferenze ugualmente pesanti, come quella di Lambis Tagmatarchis, un giornalista totalmente organico al sistema dominante dei media, a direttore della rigenerata televisione pubblica: una posizione che in alcun modo era collegata alle costrizioni delle negoziazioni e del conflitto con i creditori;
– il secondo aspetto dell’accomodamento, anche più profondo, è la logica del conflitto da evitare a tutti i costi e la continuità della macchina dello Stato e dell’apparato dello stato borghese. Due esempi saranno sufficienti ad illustrare questo aspetto: la nomina di Panos Kammenos, il leader del Partito Anel, come responsabile della difesa e della politica estera, senza tenere conto della presenza di Costas Isychos, vice ministro alla Difesa, della Piattaforma di Sinistra, sebbene con poteri limitati
Il ruolo del Ministro della Difesa è diventato lampante, per esempio, nella continuazione della collaborazione militare tra Grecia ed Israele, sebbene sia errato immaginare che Kammenos da solo sia il solo responsabile dell’intera faccenda. L’altro esempio, naturalmente, è ciò che è simbolizzato dalla scelta di piazzare Yannis Panousis, un classico “questurino” della Politica di estrazione Pasok, come Ministro degli Interni, che di fatto ora ha poteri più ampi. Questa è una chiara scelta in favore della continuità dei meccanismi repressivi di Stato, dalle ovvie ripercussioni per il complesso degli equilibri politici e di classe delle forze in campo;
– il terzo aspetto è l’accomodamento nei riguardi del centro del potere economico, l’oligarchia, quella che in greco si chiama “diaploki”, l’intricato nesso tra affarismo, politica e Stato. E qui noi dobbiamo essere assolutamente chiari. Naturalmente sarebbe un errore dare tutta la colpa ai singoli ma deve essere ugualmente evidente il fatto che ci cono stati clan che hanno costruito ponti tra settori dell’oligarchia e Syriza, anche prima che si arrivasse al potere.
Non c’è nulla di casuale circa il ruolo eccezionalmente opaco svolto dal vice Primo Ministro, Giannis Dragasakis, come persona votata per eccellenza a mantenere inalterato lo status quo nell’intero settore bancario e finanziario, alzando un muro contro ogni tentativo di cambiamento in un sistema che oggi è il centro nevralgico, letteralmente il cuore, del potere capitalistico nella sua relazione con lo Stato.
L’elemento ultimo nel fallimento della strategia di Syriza è stata la concezione del Partito e la sua evoluzione come forma-Partito, fatti del tutto coerenti con quanto scritto finora. Anche prima di insediarsi Syriza si è trasformata a poco a poco in un Partito sempre meno democratico, non nel senso superficiale del termine – cioè per quanto concerne la libertà di espressione – ma nel senso che i suoi componenti hanno avuto sempre meno influenza sulla definizione della linea politica e dei luoghi decisionali.
Ciò che è stato costruito dopo Giugno 2012 – passo dopo passo ma sistematicamente – è stato un Partito incentrato e centralizzato sempre di più sul leader ed indifferente alle azioni ed alla volontà degli iscritti. Si è perso il controllo del processo quando Syriza è arrivata al Governo. Da quel momento in poi le alte cerchie governative ed i centri-chiave politico-decisionali hanno acquisito autonomia assoluta dal Partito: merita di essere menzionato il fatto che il Comitato Centrale si è riunito solo tre volte da quando Syriza è al potere! Questo ha portato a termine la degradazione del Partito come spazio di dibattito ed elaborazione politica ed alla fine della stratificazione della sua struttura interna.
Che cosa non è stato sconfitto?
Per i concetti che esporrò ho tratto ispirazione da un testo dell’autrice comunista dell’ex Germania dell’Est Christa Wolf, scritto prima della caduta della DDR ma pubblicato successivamente, dal titolo “Was bleibt” [ciò che ci resta]
È un lavoro molto significativo che secondo il mio punto di vista cerca di dirci questo: la più severa autocritica non dovrebbe arrivare a demolire ciò che è stato un importante sforzo collettivo! Non solo: la ricerca della verità che è insita tra le contraddizioni, rispetto a quegli sforzi infiniti acquisisce particolare significato nei casi di sconfitta: in questo modo si evidenzia il fatto che ci sono sempre altre strade potenziali, che rappresentano una scommessa storica, anche se non vengono percorse.
La storia non è mai stata scritta in anticipo: la sua traiettoria incontra sempre punti di biforcazione di fronte ai quali una via alla fine prevale sull’altra.
Perciò, cosa non è stato sconfitto in Syriza? In altre parole, che cosa c’è di positivo nell’esperienza della Sinistra e del Movimento dei Lavoratori?
In primo luogo vorrei elencare approssimativamente quattro punti che potrebbero risultare d’aiuto per la futura ricostruzione della Sinistra radicale e la riformulazione della strategia anticapitalista odierna.
Come primo elemento l’ipotesi che un governo unitario di forze della Sinistra radicale sia un necessario e provato strumento per avvicinarsi alla questione del potere è stata verificata. Certamente “avvicinarsi alla questione del potere” non significa risolverla. Ovviamente una cosa è essere al Governo ed un’altra cosa è avere il Potere. La domanda è se siamo in grado di utilizzare il primo per il raggiungere il secondo e, se sia possibile, in che modo.
Diciamo pure, se il raggiungimento del Governo attraverso una combinazione di successi elettorali e di una lotta di massa può essere utilizzata come punto di partenza per una strategia di “guerra di posizione”, per esempio per lo sviluppo di una mobilitazione popolare in vista dell’apertura di uno spazio atto a capovolgere complessivamente l’attuale equilibrio dei rapporti tra le classi.
Questo approccio è stato testato per ora solo nella lontana America del Sud. Noi ora abbiamo la prova che in uno dei centri principali del sistema capitalistico mondiale, l’Europa, è almeno possibile per una forza di Sinistra radicale costruire un successo elettorale alternativo, in una situazione di grande sollevazione sociale e politica, e conquistare il Governo.
I limiti di questo confronto con il Sud America sta ovviamente nel fatto che, come centro imperialistico relativamente autonomo, l’Europa è interessata da una struttura politica molto particolare, la UE, che agisce sempre di più come potenza egemone collettiva del Capitalismo europeo, ponendo così ogni sorta di vincolo ed ostacolo che sono solo in parte simili al dominio esercitato dagli Stati Uniti sul “cortile di casa”.
Come secondo elemento: il Programma di transizione. L’idea del programma di transizione è che noi non ci accontentiamo dell’astratto discorso propagandisticamente anticapitalistico, applicabile in tutte le situazioni reiterando semplicisticamente l’obiettivo strategico del rovesciamento in senso socialista e rivoluzionario: le linee che fanno da spartiacque, provate e testate, quelle che cioè rendono possibile l’offensiva contro il nemico di classe, per essere attivate efficacemente e per rovesciare complessivamente i rapporti di forza devono essere ridefinite ad ogni occasione.
Qui anche l’obiettivo dell’anti-Memorandum era, a mio parere, davvero l’asse centrale del programma di transizione: a condizione, naturalmente, cosa che non è stata rispettata, che una coerente linea anti-Memorandum portasse inevitabilmente ad uno scontro lungo i confini dell’Eurozona e della UE medesima.
Qualunque fossero i suoi limiti, in particolar modo in relazione al calcolo del suo costo netto, il cosiddetto “Programma di Salonicco”, sulla base del quale Syriza ha ottenuto il mandato popolare nel Gennaio scorso, è risultato sì incompleto ma di base si è avuta l’impressione che si avvicinasse a quel programma di transizione.
Non c’è nulla di casuale nel modo in cui tutto ciò è entrato in conflitto con la linea seguita dal Governo, al punto che rapidamente è diventato un tabù menzionarlo all’interno dei ranghi governativi e, per certi versi, anche dentro il Partito.
Il Programma di transizione è anche organicamente collegato -questa è una cosa che abbiamo imparato dall’eredità del terzo e quarto Congresso dell’Internazionale Comunista e dalla successiva elaborazione di Gramsci e Togliatti- all’obiettivo di un fronte unitario, convergenza di tutte le forze del blocco delle classi subordinate ad un livello politico e strategico più alto. È questo approccio unificante implicito nell’idea di un “Governo della Sinistra anti-Austerità” che ha acceso l’immaginazione di larghe masse nella Primavera del 2012, permettendo la crescita di Syriza.
Il fatto è che l’obiettivo di un “Governo di Sinistra anti-Austerità” non era solo quello di formare un “Governo Syriza”, e ancor meno un Governo Syriza-ANEL come poi è stato, ma era un’occasione per ricostruire il movimento popolare stesso, con i suoi riferimenti sociali e le forme politiche di sua espressione.
Ma come sappiamo l’obiettivo si è scontrato con due ostacoli, risultanti dalla formazione del Governo dopo il 25 Gennaio, estremamente problematici e per loro natura contraddittori. Un fattore è stato il rifiuto del resto delle forze di Sinistra radicale -KKE e Antarsya- che si sono rivelate incapaci di reagire al problema centrale del momento. Un altro fattore è stato l’impasse che ha evidenziato i limiti della strategia di Syriza, in particolare dopo la svolta “moderata” ed il successivo crollo dopo Giugno 2012.
Quanto sopra mi conduce ad una quarta ed ultima osservazione su “ciò che rimane” di questa esperienza – la relazione tra il sociale ed il politico. Ciò che abbiamo visto lungo questi cinque anni passati sotto i memorandum è che i conflitti dispiegatisi nel corso della lotta di classe sono stati unificati ed hanno richiesto una risoluzione politica.
Da un certo punto in avanti, un successo o una vittoria, anche una parziale vittoria, è stata ricondotta al livello politico ed è diventata una condizione perché la mobilitazione popolare si riproponesse ad un livello più alto.
Questa è stata precisamente la scommessa lanciata nel 2012 ed anche dopo, con tutte le sue contraddizioni ed i suoi limiti. Vale a dire la combinazione di una sinistra di Governo e di un consistente primato di lotte popolari, che naturalmente non può essere mai data per scontata e deve essere continuamente riaffermata di modo da aprire ad una prospettiva di cambiamento sociale radicale.
Si dovrebbe insistere sull’ultimo punto. Ciò che è stato messo in scena in Grecia non è stata una normale alternanza al potere di Partiti con una storia di amministrazione. Non è stato qualcosa di simile all’elezione di François Hollande nel 2012, o come “l’esperimento di centro-sinistra” di Romano Prodi in Italia nel 2000. E non è nemmeno il caso di François Mitterand nel 1981, che andò al potere con un programma certamente radicale per gli standard del tempo. La scommessa in Grecia è stata diversa, conducendo ad un potenziale anti-sistemico, ed esattamente per questa ragione ha suscitato interesse non solo in Grecia ma a livello internazionale. È stata la resa dei conti su larga scala in cui la nostra parte si è vista incapace non solo di vincere ma anche di organizzare un’autodifesa elementare, da cui poi siamo giunti alla capitolazione che conosciamo.
Che fare?
Ad oggi, come scrivevo sopra, la società greca nel complesso è ancora in uno stato di shock post-traumatico. Il nostro campo ha subito il contraccolpo del fragoroso rovesciamento del “NO” al referendum, tutto nello spazio di pochi giorni.
Quando ci allontaniamo dalle cerchie degli attivisti e degli strati sociali più politicizzati vediamo che le sensazioni contrastanti sono prevalenti. C’è un misto di disillusione, rabbia e di profondo disagio rispetto a quanto è capitato, ma anche un margine di tolleranza per una scelta che è stata fatta dal Governo e da Tsipras in persona.
Il punto cruciale per mettersi alle spalle questo stato di disagio e per ripartire è il seguente: il 62% dei NO è ad oggi privo di qualsivoglia rappresentanza. Il suo consolidamento e la sua articolazione politica è la prima cosa da fare per ciascuno di noi. Questo consolidamento non può esser visto come sviluppo lineare delle formazioni esistenti – siano esse Syriza, Antarsya o le altre formazioni o sezioni di questi gruppi.
Noi dobbiamo ora parlare in termini di nuovo progetto politico. Un nuovo progetto politico che sia basato sulla classe, che sia democratico ed anti-europeista, e che in una prima fase abbia la forma di un fronte, aperto alla sperimentazione ed alle nuove pratiche organizzativiste. Un fronte che terrà insieme l’iniziativa dall’alto e le iniziative dal basso – così come quelle che si sono sviluppate durante la lotta per il referendum con la creazione dei “Comitati per il NO”.
Ad oggi è difficile, se non impossibile, dire di più circa la forma concreta che questo progetto politico potrebbe assumere. È ovviamente legato al decisivo esito della battaglia interna che noi stiamo ingaggiando dentro Syriza, con i compagni della Piattaforma di Sinistra ed altri. Noi tutti siamo consapevoli che affinché questo progetto prenda corpo molto altro è necessario.
In nessun modo l’ala sinistra di Syriza, e più in particolare la Piattaforma di Sinistra, che è la componente meglio organizzata, deve essere incoraggiata a reclamare qualche status speciale: certamente ha un ruolo centrale da giocare, come ora è ampiamente riconosciuto da amici e nemici: e questo, in un certo senso, forse, è tra i lasciti più significativi delle scorse settimane.
In merito agli obiettivi, come è stato recentemente schematizzato in un articolo niente male di Eleni Portaliou, mia compagna da molti anni, il progetto è centrato sui seguenti assi portanti:
– liberazione del Paese, e dei greci, dalle catene dell’eurozona, elaborando immediatamente un piano per l’uscita dai memorandum e dall’euro e per un confronto a tutto campo con l’Unione Europea che, dal mio punto di vista, potrebbe arrivare fino alla sua soppressione;
– questo progetto è profondamente basato sulla classe. Dovrebbe essere radicato nei settori d’avanguardia della classe lavoratrice che ha votato “NO” e che ha rigettato le politiche di austerità con più del 70% nel referendum del 5 Luglio; la sua spina dorsale dovrebbe essere costituita dalle forze che provengono dalla migliore tradizione dei lavoratori e del movimento rivoluzionario nelle loro molteplici espressioni. Allo stesso tempo questo progetto è anche nazionale. E qui naturalmente è necessaria un’ulteriore spiegazione. Per come lo intendo io, il termine “nazionale” ha due significati: il primo è nel senso gramsciano di “nazional-popolare”, per cui le masse lavoratrici devono emergere come forza trainante della società. Sono loro quindi che devono diventare “la Nazione”, di modo da riorientare la “Nazione” in una diversa direzione.
Come Marx ed Engels lo formulano nel “Manifesto del Partito Comunista”: “ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia”. Qui “Nazionale” non significa dunque una qualche concezione “frontista-popolare” di unità interclassista con una rappresentazione “nazional borghese”, o con alcuni dei suoi settori: il termine si riferisce alla dimensione egemonica di un progetto con al centro la classe di riferimento, che punta ad una vittoriosa supremazia politica.
Inoltre, lungi dal voler ritrarre tutto ad una visione nazionale o nazionalistica, questa “nazionalizzazione” di un nuovo blocco egemonico, come ho spiegato, significa incarnare un nuovo profondo internazionalismo.
Il progetto è anche nazionale nel senso che ad oggi c’è un problema di sovranità nazionale in Grecia: vale a dire di esistenza di una sovranità popolare e della democrazia stessa. Il nuovo accordo che è stato firmato dal Governo greco non perpetua solamente il ruolo della Troika ma lo accresce. Noi ci troviamo ora in una situazione in cui lo Stato greco e qualsiasi Governo greco fondamentalmente non hanno nelle loro mani nessuna leva per esercitare le loro prerogative.
Questo è forse l’obiettivo più profondo del Memorandum, più e oltre l’imposizione di un ulteriore pacchetto di misure di barbara austerità.
L’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, messo sotto controllo della Troika, ha acquistato una completa autonomia dal Governo. È stato stabilito che un Comitato Finanziario potrà automaticamente decidere tagli orizzontali se ci sono divergenze su qualche obiettivo fiscale stabilito dal Memorandum. Anche l’infame fondo di 50 miliardi è stato creato sotto il controllo diretto della Troika e tutte le proprietà pubbliche greche destinate alla privatizzazione sono state poste sotto la sua giurisdizione.
Anche EL.STAT, l’Istituto di Statistica, apparentemente trasformato in un’autorità indipendente, sarà controllato direttamente dalla Troika e servirà da meccanismo di Sorveglianza e Controllo, su base giornaliera, relativamente all’implementazione da parte dello Stato greco degli obiettivi del Memorandum.
La Grecia è stata così trasformata – per quanto risulta da questa analogia- in una specie di Kosovo, un Paese legato mani e piedi alle catene neocoloniali e relegato allo status di insignificante e distrutto semi-protettorato dei Balcani. In tale congiuntura riferirsi allo status di Nazione autonoma indica che c’è un problema di riconquista di sovranità nazionale come prerequisito per esercitare non solo politiche anticapitalistiche ma democratiche e progressiste del tipo più elementare.
Questo progetto, infine, è profondamente internazionalista, e questo non è in alcun modo incompatibile con quanto è stato appena dichiarato, e ciò non solo perché la difesa degli interessi vitali delle classi lavoratrici e degli strati popolari del Paese sono per loro stessa natura internazionalistici, dato che gli sfruttati di differenti Paesi hanno interessi comuni: è internazionalista in un senso molto più concreto, perché la rottura nell’anello debole dell’Eurozona e della UE apre la strada ad altre rotture in Europa e dà un colpo all’edificio reazionario ed anti-popolare dell’UE.
Non solo il nostro internazionalismo non ha nulla a che spartire con l’Euro e con la UE, ma al suo interno si produrrà una resistenza a queste istituzioni anche più grande, unitariamente al suo rifiuto da parte dei Popoli d’Europa.
La lotta per la Grecia e degli altri Popoli europei contro la gabbia di ferro dell’UE rivelerà il carattere imperialistico e di classe di questo edificio e permetterà che le lotte fin nel cuore storico del capitalismo mondiale si connettano con i movimenti più ampi che si battono contro il dominio capitalistico ed imperialistico su scala globale, e più specificamente, con i movimenti del Sud del mondo, a partire da quelli sull’altra sponda del Mediterraneo.
Non dimentichiamo qui che nello storico 2011, la prima ondata di rivolte popolari dopo l’inizio della crisi nel 2008 ha condotto al quasi simultaneo scoppio della Primavera Araba e dei movimenti greci e spagnoli di occupazione delle piazze. Quello che possiamo dire in conclusione, alla luce dell’esperienza, è che la prospettiva di una genuina “Altra Europa”, che non può essere se non di orientamento socialista, richiede la dissoluzione dell’attuale eurozona e dell’Unione Europea, partendo da rotture negli anelli più deboli. Inoltre questa dissoluzione è un prerequisito per una giusta rottura con una parte dell’Europa, dal passato coloniale e dal presente imperialista e neocoloniale.
In conclusione dico che abbiamo ricevuto una sonora lezione ed abbiamo pagato un prezzo pesante. Come è generalmente vero in questo tipo di situazioni i primi a pagare saranno i lavoratori, e in questo caso la Grecia come Paese e società. Ma per noi, per le forze della Sinistra radicale ed anticapitalista, questa è stata una lezione necessaria: può portare alla nostra distruzione ma anche ad un nuovo inizio, o come il nostro grande poeta Kostis Palamas ha detto, ad una “nuova nascita”, sempre che noi riusciamo a riflettere ed allo stesso tempo ad agire.