1.Si era creduto di capire che Syriza, vinte le elezioni in Grecia, avesse come parola d’ordine un vigoroso “no” all’austerità; avrebbe quindi categoricamente respinto tutte le condizioni antisociali, regressive, minacciose dei più elementari principi dell’aspirazione all’uguaglianza e a una vita accettabile per gli strati popolari, poste per il loro prestito dalle varie autorità finanziarie e dalle loro coperture europee.
Molti allora si rallegravano per la possibilità che emergesse finalmente, in Europa, un orientamento politico del tutto diverso dal consenso reazionario in cui tutti gli Stati, da trent’anni, mantengono le rispettive opinioni pubbliche, spontaneamente o con la forza.
2.Naturalmente, era già possibile trovare non pochi argomenti per mitigare questa speranza. Non foss’altro, il termine molto infelice di “austerità”, che lasciava intendere che si sarebbe potuto ottenere il contrario (che poi, che cos’è? Il “benessere”?) senza cambiare granché. E invece tutto stava ad indicare che gli avversari, la gente al potere e i loro mandanti dell’economia selvaggia mondializzata, non avevano la minima intenzione di cambiare alcunché, anzi intendevano consolidare e aggravare la tendenza dominante, di cui sono i gestori e da cui traggono benefici.
Si avvertiva anche il pericolo che rappresentava l’accettazione, per arrivare al potere, di regole immutabili: elezioni, maggioranze incerte, scarso controllo sull’apparato statale, ancor meno sulle potenze finanziarie, tentazione organizzata del compromesso corruttore, in breve un margine di manovra molto ristretto.
Infine, si vedeva che Syriza non aveva davvero, con la massa della gente, legami politici saldi e organizzati: il suo era un successo d’opinione, versatile per definizione, e soprattutto incontrollato, senza garanzia contro l’assalto, interno ed esterno, degli opportunismi secondo cui pervenire al potere e restarvi è l’unica regola. Per tutti questi motivi io appartenevo al campo degli scettici.
3.Debbo confessare che, quanto i cinque mesi di “trattative”, senza che il governo Tsipras prendesse una qualche iniziativa spettacolare, erano scoraggianti e davano ragione al mio pessimismo argomentato, tanto la decisione di ricorrere al referendum e, più ancora, il suo eccellente risultato (un “no” franco e massiccio ai creditori) si potevano interpretare come quel che avrebbe aperto, finalmente, una sequenza politica assolutamente nuova. Sembrava che all’ordine del giorno vi fosse una vera avventura, in una ritrovata dialettica tra lo Stato e il suo popolo. Ho testimoniato io stesso su queste colonne [di Libération] di questa speranza.
4.Possiamo dire che non se ne è fatto niente e che la mia è stata una valutazione sbagliata.
5.Chi immaginava, a quanto pare a torto, che potesse accadere? Semplicemente, si pensava che il governo greco e Alexis Tsipras scegliessero una nuova tappa della loro politica decidendo di ricavare le conseguenze del referendum e solo di questo. Il che significava dire: ormai c’è un mandato popolare imperativo per rifiutare, categoricamente – del resto, in conformità con il nocciolo duro del programma di Syriza – le misure richieste dai creditori. E questo andava detto, non solo senza dichiarare che la Grecia lasciava l’Europa ma, assolutamente al contrario, dichiarando esplicitamente e con forza che restava in Europa – come vuole la maggioranza dei greci. E che le decisioni greche d’ora in poi, prese dallo Stato sotto l’autorità e la sorveglianza di un popolo mobilitato, avrebbe fornito, a tutti i popoli e a tutti i governi, l’esempio di un nuovo e libero modo di stare in Europa.
6.Era possibile, sulla scia del referendum, rinviare la palla nel campo degli eurocrati, in questi termini: “noi stiamo in Europa e nell’euro, ma abbiamo ricevuto dal nostro popolo il mandato per il rifiuto categorico delle vostre condizioni. Le trattative vanno riprese senza ripetere il grave errore di queste condizioni che, il referendum lo dimostra, lavorano contro l’Europa dei popoli e non per essa”. Questo doveva essere oggetto di una solenne dichiarazione la sera del referendum.
7.Una politica esiste solo se si sostituisce al problema posto dagli avversari un altro problema. L’avversario dice: “o mi ubbidite, oppure lasciate l’Europa”. È lui e solo lui a creare e brandire il Grexit. Il governo greco non deve in alcun modo rispondere recitando la stessa parte di quella degli europei, con la cattiva mamma tedesca, il gentile ma pavido papà francese e il cattivo ragazzo greco, sceneggiata in cui, purtroppo, sembra che Tsipras alla fine si sia infilato. Perché non rispondere instancabilmente: “il Grexit non è nel nostro orizzonte. Non se ne parla neanche. Il nostro problema è: o voi cambiate le vostre condizioni dietro trattativa, o noi inauguriamo in Europa, da cui voi non avete alcun modo di espellerci e assumendocene tutte le implicazioni, un altro modo di affrontare la crisi, un altro modo al quale proponiamo che si ricolleghino tutti i governi, se ve ne sono e ne sono capaci, e tutte le forze politiche disponibili nell’intera Europa”?
8.In altri termini: Probabilmente non c’era, quanto alla questione monetaria, un piano B immediatamente praticabile (e ancora non è del tutto sicuro), ma c’era, e bisognava portarlo avanti senza cedimenti, un problema politico B, irriducibile al problema “accettate, oppure è il Grexit!”. Ma non è stato questo l’atteggiamento di Tsipras e del gruppo che lo consiglia e lo appoggia. Hanno accettato di recitare la parte dello scolaro capriccioso, ma che farà progressi, nell’opera teatrale montata dal serraglio capitalista europeo. Si sono lentamente ma sicuramente posti nei termini del problema dell’avversario, continuando a farlo giorno dopo giorno, unicamente per far credere che è un bene che ci siano loro al governo piuttosto che gli altri partiti greci (altri partiti con i quali ben presto governeranno!).
In realtà, se le cose stanno come dicono loro stessi che stiano, andarsene sarebbe più dignitoso, preparando infinitamente meglio il futuro. Questo tipo di capitolazione è peggiore della molle e abietta acquiescenza dei precedenti governi, perché indebolisce ancora di più l’idea, già molto sofferente in Europa, di una reale indipendenza politica, e questo per guadagni insignificanti, se non al prezzo di un aggravamento sensibile della situazione popolare.
9.In tutta questa faccenda, il referendum, e solo questo, creava una situazione che definirei preliminare agli eventi. Il governo faceva appello al popolo. Il popolo rispondeva positivamente, attendendo che il governo rispondesse alla sua risposta nel registro degli atti concreti. Era un momento unico. Alexis Tsipras ha “risposto” dicendo… che avrebbe continuato a fare come prima. Ha rifiutato ogni coerenza, nel registro della decisione politica, con quello che lui stesso aveva organizzato. Quel che si può dire di un simile atteggiamento non è neanche una questione di destra o di sinistra: Tsipras e i suoi consiglieri si sono dimostrati incapaci di fare ciò che sono riusciti a fare, non dico grandi rivoluzionari, ma conservatori come de Gaulle o Churchill. Non hanno voluto o non sono riusciti a prendere – il che, è vero, accade di rado – una vera decisione politica: quella che crea una nuova possibilità, di cui occorre esplorare le conseguenze, mobilitando, ben al di là delle sole autorità politiche, tutti coloro che sono presi dall’urgenza dell’agire. Non hanno adottato nei confronti dei burocrati europei lo stile di Mirabeau e dei deputati del terzo stato nel 1789, cui il re aveva ingiunto di sciogliersi: “Noi siamo, come voi, in Europa e nell’euro. Al contrario di voi, siamo portatori, per volontà popolare, di un’altra visione sia dell’Europa sia dell’euro. Se volete il Grexit, ditelo chiaramente, e quindi provate ad infliggercelo con la forza!”.
10.Per farla breve, l’errore di Tsipras e del suo gruppo, a mio avviso, è semplicemente di non aver fatto politica quando, miracolosamente, e forse per poche ore (la sera del referendum?) farla dipendeva da loro. Dopo questo cedimento, ho paura che torneremo all’ordinario tran tran. La Grecia non significherà più niente per nessuno, pagherà quel che può, la gente sarà un po’ più demoralizzata e miserabile, e si dimenticherà tutto questo episodio nel grande caos del capitale planetario.
11. Se c’è una lezione da trarre dai grandi momenti della storia, è che l’occasione politica è rara, e che non ritorna. Dal XIX secolo, si può dire che la socialdemocrazia si definisce così: mai cogliere praticamente la rara occasione di far esistere una possibilità politica nuova. Anzi, al contrario, lavorare con accanimento a fare come se questa occasione non fosse mai esistita. Alexis Tsipras e la sua squadra governativa sono i nuovi socialdemocratici, di cui il capital-parlamentarismo ha grande bisogno, vista la continua e logora spregevolezza dei vecchi?
Se cosi fosse, se l’ora del ricambio fosse semplicemente in funzione dell’ordine stabilito e della sua salvaguardia da sinistra, non parliamone più. Se nuove peripezie, inclusa la strutturazione e l’ascesa in forze della frazione di Syriza che si oppone all’attuale andamento delle cose, dimostreranno che la ricerca di una nuova strada politica su scala europea, se non mondiale, è ancora viva in Grecia, non potremmo che rallegrarcene, senza riserve.
* filosofo