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bombardamento-syriaPubblichiamo qui di seguito un articolo che sintetizza quanto è avvenuto negli ultimi anni in Siria. L’articolo è stato steso da Fabrizio Burattini e Gippo Mukendi sulla base della discussione svolta dall’Esecutivo nazionale di Sinistra Anticapitalista.

 

L’inizio della rivolta

Nel marzo del 2011, anche sull’onda degli sviluppi delle rivolte popolari sollevatesi contro regimi autoritari in altri stati arabi, migliaia di giovani siriani, anche attraverso l’uso dei social network, prendono il coraggio di scendere in piazza contro il regime autoritario dinastico della famiglia Assad.

Alla base della rivolta siriana, come di quelle degli altri paesi arabi, c’è una pesante situazione sociale ed economica caratterizzata da una vastissima disoccupazione giovanile, dalle politiche sempre più liberiste del governo capitalista di Assad e dalle conseguenze sociali che colpiscono vasti strati della popolazione.

Per le/i manifestanti, le cui file si ingrossano con il passare dei giorni, l’obiettivo è quello di porre fine alla dittatura di Bashar Al-Assad e di eliminare la struttura politica monopartitica e oligarchica basata sul partito Ba’th.

Questo partito, che pure nel corso della seconda metà del secolo scorso aveva avuto una importante funzione da un lato nella costruzione della sinistra nazionalista e panaraba e dall’altro nello sviluppo di una corrente laica e interconfessionale, si era trasformato, negli ultimi decenni del 900, in un partito “personale” di Saddam Hussayn in Iraq e della famiglia Assad in Siria, tra l’altro anche attraverso l’eliminazione fisica dei fondatori del partito.

Sia Saddam, sia Assad, anche grazie agli sconvolgimenti geopolitici successivi al crollo dei regimi dell’Est europeo, adottarono una politica disinvolta nelle alleanze internazionali, con ripetuti affiancamenti dell’occidente nelle guerre mediorientali (alleanza antiraniana, partecipazione della Siria alla alleanza antirachena nella Prima guerra del Golfo).

Bashar Al-Assad, già alla fine di marzo 2011, dopo un breve tentativo di dialogo con i manifestanti e qualche concessione democratica e sociale, inizia una violenta e massiccia repressione delle dimostrazioni e dei quartieri popolari più influenzati dai rivoltosi.

Prima a Dar’a, Latakia, Homs, e poi a Damasco e Aleppo, e in tutte le altre principali città del paese le manifestazioni si estendono. E i morti, per la repressione militare e poliziesca, cominciano a contarsi a centinaia, mentre gli arresti dei dissidenti si moltiplicano.

La prima apparizione di milizie fondamentaliste

Ma per numerose settimane il carattere democratico (e laico) delle dimostrazioni si mantiene. E’ solo alla fine di aprile 2011 che cominciano a fare la loro apparizione nei cortei le formazioni islamiste, con le loro parole d’ordine che accantonano le rivendicazioni democratiche e sociali, privilegiando quelle identitarie, confessionali e integraliste.

E’ solo nel giugno di quell’anno, dopo che il numero dei manifestanti morti ha ampiamente superato il migliaio e che gli arrestati sono già almeno 10.000, che per la prima volta i manifestanti rispondono al fuoco dei soldati e dei poliziotti. Il governo passa dalla repressione di piazza allo schieramento dei carri armati e all’inizio dell’uso degli aerei per colpire le zone sotto il controllo dei ribelli, con il deliberato intento di stroncare nel sangue il movimento sociale e democratico, trasformando così definitivamente una rivolta popolare democratica in una delle più sanguinose guerre civili di questa epoca.

Numerosi militari e ufficiali dell’esercito disertano e, assieme a gruppi di ribelli, creano l’ESL (Esercito siriano libero), con l’intento di rispondere in modo più adeguato alla guerra scatenata dal regime. L’ESL, le cui file si ingrossano anche grazie all’afflusso continuo di disertori che non vogliono partecipare alla sanguinosa repressione antipopolare, ottiene di “liberare”, seppure per brevi periodi, alcune città e di portare l’azione militare antiregime perfino all’interno della capitale.

Nella devastazione sociale provocata dalla guerra e dai bombardamenti dell’aviazione governativa, l’opposizione comincia a diversificarsi, si sviluppano conflitti settari, soprattutto tra sunniti e alawuiti (a ragione ritenuti più legati al regime). E, nel gennaio 2012, nel fronte dell’opposizione cominciano ad apparire altre formazioni armate, alcune di carattere dichiaratamente islamista e fondamentalista, come Al-Nusra, che inizia a sviluppare un’azione esplicitamente terroristica anche contro i civili, e con l’utilizzazione, fino ad allora sconosciuta in Siria, degli attacchi suicidi.

L’opposizione militare al regime resta sostanzialmente unita, ma le piattaforme politiche si divaricano tra un obiettivo laico, democratico e sociale e la rivendicazione dell’istaurazione della Sharia.

La repressione continua ad inasprirsi, con l’utilizzazione nel pieno delle città di aerei e elicotteri da combattimento e dando via libera a bande paramilitari filogovernative organizzate dalla criminalità comune di stampo alawuita.

I primi interventi dall’esterno

E’ solo dopo il moltiplicarsi e l’ingigantirsi delle stragi ad opera dell’esercito governativo che l’Occidente inizia a prendere in considerazione la rivolta e la successiva guerra civile siriana. Nell’estate del 2012, USA, Francia e Gran Bretagna decidono una prima timida fornitura di armi (via Turchia) all’ESL.

Le potenze imperialiste occidentali, che inizialmente erano state ampiamente disorientate dall’insorgere delle “primavere arabe”, cominciano a pensare che l’imbarbarimento indotto nelle rivolte dalle risposte brutali dei regimi autoritari poteva (in Siria, come d’altra parte anche in Libia) creare un terreno utile per un’azione di penetrazione politica che da un lato evitasse la radicalizzazione sociale di quelle rivolte e dall’altro consentisse loro di creare nella regione teste di ponte più sicure.

Nel frattempo gli stati del Golfo, attraverso i loro referenti, partecipano alla “partita” con l’intento di difendere i propri interessi reazionari, e sostengono sempre più lautamente le formazioni ribelli di impronta sunnita e fondamentalista.

Nella zona curda della Siria, si forma il Comitato supremo curdo (CSC) che si oppone al regime di Damasco, che ha una tradizione di discriminazione nei confronti di quella minoranza. Il CSC mantiene una alleanza con l’ESL, pure se si tratta di un’alleanza molto guardinga a causa dei legami che si stanno consolidando tra ESL e governo turco, storico nemico dell’autonomia curda. In pochi mesi il CSC, con il suo braccio militare delle Unità di Protezione Popolare (YPG), caccia l’esercito di Assad dalla grande maggioranza delle città curde della Siria.

Il conflitto civile continua con fasi alterne, ma con un progressivo sgretolamento della capacità governativa di controllare il paese. Nel frattempo, si allarga il fenomeno degli scontri settari tra sunniti e alawuiti, con stragi feroci da entrambe le parti. E, grazie al crescente finanziamento da parte dell’Arabia e del Qatar, le formazioni fondamentaliste, come Al-Nusra, acquistano peso e prestigio nel fronte dei rivoltosi.

A metà del 2013, i miliziani sciiti libanesi Hezbollah, che fino ad allora erano stati estranei al conflitto in Siria, sia per sollecitazione dell’alleato iraniano, sia per scongiurare il contagio siriano in territorio libanese, corrono in soccorso al regime di Damasco, e, grazie anche alla loro conoscenza della tattica di guerriglia, contribuiscono a infliggere sconfitte all’ESL.

L’apparizione dell’ISIS

Inoltre, il conflitto siriano si alimenta di un’ulteriore componente settaria nella plurisecolare contrapposizione tra sciiti e sunniti. L’ESL comincia a perdere il ruolo di primo piano nell’opposizione ad Assad, che viene gradualmente assunto dalle formazioni islamiste, in primo luogo dal Fronte Al-Nusra e da una formazione composta prevalentemente da non siriani, lo “Stato islamico” (ISIS), che iniziano a far fronte comune contro l’ESL, ritenuto “eretico” e “filoccidentale”.

L’abbrutimento della guerra vede in quel periodo (fine 2013) anche alcuni episodi di uso di armi chimiche che provocano la massiccia uccisione di civili, anche in zone della periferia della capitale. Il fatto, le cui responsabilità non sono mai state chiarite, offre il pretesto al governo imperialista USA per minacciare (con il sostegno in particolare della Francia e della Turchia) “azioni chirurgiche” contro l’esercito siriano e quindi di internazionalizzare esplicitamente la guerra civile. Il rischio viene scongiurato per la diffusa opposizione dell’opinione pubblica europea e americana (in particolare della base elettorale di Barak Obama). Grazie alla mediazione della Russia, che ha riallacciato l’alleanza con il regime di Damasco, si giunge ad un accordo internazionale che comporta la distruzione dell’arsenale chimico siriano.

L’ESL, che aveva esplicitamente sostenuto l’ipotesi dell’intervento USA contro la Siria, perde ulteriormente prestigio e lascia altro spazio alle formazioni islamiste, che, comunque non fanno più fronte comune, vedendo fermamente contrapposte le milizie islamiche “nazionali” di Al-Nusra a quelle “panislamiche” dell’ISIS. Il conflitto dunque diventa una guerra di tutti contro tutti: governo di Damasco, Hezbollh e milizie iraniane, ESL, Al-Nusra, ISIS, milizie curde, solo per citare gli attori principali.

Nessun risultato ottiene neanche la Conferenza di Ginevra di inizio 2014, salvo una breve e inconsistente tregua nella città di Homs tra l’esercito governativo e le milizie dell’ESL.

L’imputridimento della guerra provoca il paradosso di rialzare la popolarità del regime di Assad, pur se largamente ritenuto dalla popolazione siriana il principale responsabile dei massacri, e ne spiana la strada alla rielezione presidenziale in una votazione (giugno 2014) la cui regolarità è diffusamente messa in discussione ma che certamente vede un’ampia partecipazione al voto.

Nell’estate del 2014, l’ISIS, forte dei successi nel Nordovest dell’Iraq dove era stato proclamato il “califfato”, scatena una nuova offensiva in Siria, emarginando sempre più le componenti laiche e le altre formazioni islamiste. Le roccaforti curde vengono accerchiate e, a volte espugnate. Gli USA colgono l’occasione per una nuova operazione militare in Iraq (ma anche con alcuni sconfinamenti in Siria) al fine di contrastare l’avanzata dell’ISIS.

La resistenza del Rojava

A cavallo tra il 2014 e il 2015 si collocano l’eroica resistenza delle milizie curde e l’esperienza di autogoverno della città di Kobanê, con l’importante ruolo giocato dalle Unità di difesa delle donne curde (YPJ), cosa che mette in luce come, a differenza di gran parte del Medio e Vicino Oriente, nel Kurdistan sono ancora poco dominanti le impostazioni misogine e sessiste proprie dei movimenti antioccidentali islamisti e come là il movimento di liberazione nazionale conservi ancora valori laici e democratici. Tutto ciò anche per l’influsso del PKK (Partito dei lavoratori curdi) e dei suoi alleati delle altre regioni curde che negli ultimi anni ha adottato una linea politica improntata a valori libertari e federalistici.

La controffensiva curda (con la quale collaborano anche alcune formazioni dell’ESL), anche utilizzando la copertura aerea dell’aviazione occidentale, riesce nella prima metà del 2015 a riconquistare gran parte del Kurdistan siriano, scacciandone i miliziani dell’ISIS.

L’intervento russo

Alle forze governative e ai loro alleati sciiti Hezbollah sfugge di mano sempre più il controllo del paese, fino a che a settembre di quest’anno il governo russo decide di trasformare il suo sostegno politico e logistico al regime di Assad in un vero e proprio intervento militare. Contemporaneamente all’azione militare, Putin sviluppa un’ampia azione diplomatica nei confronti dei governi occidentali al fine di acquisire posizioni di sostegno, o perlomeno di neutralità nei confronti delle operazioni dell’aviazione russa in Siria.

In realtà l’obiettivo russo non è certo quello di “lottare contro il terrorismo”, ma quello di sostenere militarmente e politicamente il regime di Assad schiacciando tutte le formazioni di opposizione. Putin, il 28 settembre, dando il via ai bombardamenti russi, dichiarava: “Non c’è altra maniera di mettere fine al conflitto siriano se non quella di rafforzare le istituzioni dell’attuale governo legittimo nella loro lotta contro il terrorismo”.

I Comitati locali di coordinamento, sorti in varie città nel 2011 nelle prime fasi della rivolta, fortemente messi in crisi dalla frammentazione settaria della ribellione e dai disastri della guerra civile, hanno ripreso la loro azione e organizzato in varie località manifestazioni di protesta contro l’intervento russo.

Molti governi occidentali, in particolare la Germania, la Gran Bretagna, la Turchia e, perfino, Israele assumono una posizione di avallo alle operazioni russe. Operazioni che, peraltro, perlomeno in tutta una prima fase, non si limitano a colpire le postazioni dell’ISIS, ma bombardano anche postazioni di altre formazioni ribelli, in particolare dell’ESL.

Indirettamente anche gli USA consentono l’azione russa lasciando che i missili e gli aerei russi sorvolino indisturbati lo spazio aereo del loro “protettorato” iracheno e consentendo l’ingresso in Siria di reparti dell’esercito di Baghdad per poter dare man forte all’esercito “lealista” di Damasco.

In realtà, si dimostra come, anche per le potenze occidentali, al pari del Cremlino, l’obiettivo prioritario sia quello di provare a contenere il caos prodotto dal loro stesso intervento e di giungere alla stabilizzazione di una regione profondamente sconvolta dalle politiche di guerra messe in atto negli ultimi 25 anni, oltre che storicamente tenuta in uno stato di perenne tensione per la politica colonialista dello stato israeliano.

Lo stesso Obama, alla fine di settembre, all’assemblea dell’ONU, ha dichiarato di voler trovare una soluzione per la Siria attraverso la collaborazione con la Russia e con l’Iran.

Al “fronte” internazionale che tenta di giungere alla stabilizzazione della Siria si è aggiunto alla fine di settembre anche il governo di destra sionista israeliano, che ha consacrato con una visita di Netanyahu a Putin il suo assenso alle operazioni russe nella confinante Siria.

Certo, tutti i principali attori internazionali (compreso Putin) si rendono conto che il futuro della Siria non può essere affidato ancora per lungo tempo ad Assad, che ha perso ogni credibilità in larga parte del suo popolo per le responsabilità della trasformazione della rivolta in guerra civile e per gli spaventosi massacri delle forze repressive “lealiste”. Ma buona parte delle potenze occidentali (oltre che i russi) ritengono che la necessaria transizione ad un altro governo debba essere gestita con Assad ristabilito al potere.

La dimensione del disastro umanitario e politico

Le cifre dell’eccidio prodotto dal governo di Assad e dalla guerra civile sono impressionanti, oltre 280.000 morti. I dati dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) fissano il numero dei profughi a 4,5 milioni, a cui vanno aggiunti 7,8 milioni di siriani sfollati all’interno del paese, su una popolazione di 18 milioni, per un totale di 2 siriani su 3 costretti a abbandonare la propria casa e la propria città e un siriano su 4 costretto ad abbandonare il proprio paese. Si tratta dunque di un paese devastato politicamente, socialmente, culturalmente e umanamente a causa della pervicace volontà del regime di schiacciare con ogni mezzo il moto di protesta democratica del 2011.

Alla radice del fenomeno dei profughi, infatti, non c’è tanto l’azione dell’ISIS, ma soprattutto l’azione del regime. D’altra parte la fuga dalle città bombardate e il massiccio esodo verso la Turchia e il Libano iniziano ben prima dell’irruzione in Siria dei miliziani dell’ISIS.

Lo stesso scetticismo di Renzi verso le azioni di bombardamento della Siria nasce dalla consapevolezza che le azioni militari a sostegno del regime di Damasco, lungi dal arrestare o anche solo rallentare la fuga dei siriani, ne stanno accelerando l’esodo.

Sinistra Anticapitalista contro l’intervento dell’Occidente, contro l’ISIS

Coerentemente con la sua impostazione pacifista e internazionalista, Sinistra Anticapitalista condanna ogni azione di intervento militare esterno (della NATO, degli USA, dell’Unione europea, della Turchia, dell’Iran o degli Hezbollah, dei miliziani del “califfato”); denuncia e condanna le tremende responsabilità storiche dell’imperialismo e di Israele nel Medio Oriente; condanna il regime di Bashar Al-Assad responsabile della feroce repressione che ha trasformato una rivolta democratica e di massa in una sanguinosa guerra civile e che ha consentito alle forze oscurantiste dell’ISIS di irrompere in Siria, che era fino a pochi anni fa uno dei paesi arabi più evoluti e laici.

In questa situazione tragica, in cui l’insieme della popolazione siriana è precipitata in un incubo che sembra non avere mai fine, una larga e significativa parte di essa auspica che l’Onu decida di intervenire con un “corpo di interposizione” che ponga fine alla guerra, ai massacri, ai bombardamenti, riporti il confronto con il governo alla situazione precedente allo scoppio della guerra civile e che porti alla soddisfazione delle rivendicazioni democratiche all’origine della rivolta. È una speranza più che comprensibile per un popolo sottoposto ai massacri e alle distruzioni di questi anni. Nessuna speranza e progetto di futuro sono possibili nel contesto dato senza la fine della guerra, anzi delle diverse guerre che si combattono. Non si può tuttavia non rilevare che tutti gli interventi dell’Onu o “autorizzati” dal Consiglio di sicurezza si sono tradotti in occasioni di intervento militare delle potenze imperialiste che, peraltro, con il loro “diritto di veto” hanno il totale controllo delle decisioni operative delle Nazioni Unite.

Sinistra Anticapitalista condanna il progetto fondamentalista e ultrareazionario e i metodi terroristici dell’ISIS, che stanno sconvolgendo tutto il Medio Oriente e che offono una straordinaria occasione alle potenze imperialistiche e alla Russia protoimperialista per poter intervenire al fine di evitare ogni possibilità di radicalizzazione sociale dei movimenti di liberazione dei paesi arabi.

No ad Assad, no all’intervento russo

Sinistra Anticapitalista sii dissocia da ogni tentativo (ed anzi lo denuncia) di scorgere elementi progressisti, democratici e antimperialisti nell’azione di regimi autoritari e oligarchici, nonché capitalisti, come quello di Bashar Al-Assad in Siria o, per altri versi, quello di Putin nella Federazione russa. Quando un regime opprime e massacra il proprio popolo, il suo agire in nessun modo può essere confuso con una presunta azione antimperialista. Non a caso sia Putin che Assad sono punti di riferimento per la demagogia “antimperialista” dell’estrema destra europea.

Il “Forum nazionale russo”, svoltosi nella primavera di quest’anno a San Pietroburgo sotto il patrocinio del governo di Putin, ha radunato tutto il fior fiore della estrema destra razzista, antisemita e antislamica, omofoba, tradizionalista e parafascista d’Europa (e non solo): il British National Party, i sostenitori USA del white power, l’italiana Forza Nuova, i neonazisti greci di Alba Dorata e gli ultranazionalisti spagnoli di Democracia Nacional. E legami espliciti con Putin hanno il Fronte nazionale francese di Marine Le Pen (che ha avuto un finanziamento cospicuo da parte di una banca dell’establishment putiniano), la Lega di Salvini, il premier razzista ungherese Orban, il movimento magiaro Jobbik, il movimento tedesco antislamico Pegida…

Questi legami non sono casuali ma sono dovuti al fatto che il modello politico e cuiturale proposto dal capo di stato russo (fatto di tradizionalismo, collateralismo con la chiesa ortodossa, autoritarismo e nazionalismo neozarista) risulta molto vicino agli “ideali” della destra estrema.

E il sostegno di tali ambienti non è riservato solo a Putin, ma abbraccia, anche qui non casualmente, anche Assad, ritenuto un campione dell’antimperialismo reazionario da numerosi partiti di estrema destra, tra i quali spiccano i “fascisti del Terzo millennio”, come in Italia Forza Nuova e Casapound. D’altra parte alla coalizione capitanata in Siria dal Ba’th di Bashar Al-Assad partecipa anche il Partito socialista nazionale siriano fondato negli anni 30 del 900 da ammiratori del Furher del Terzo Reich.

A sostegno di Assad (e di Putin) si è schierato anche Magdi “Cristiano” Allam, il neo convertito al cattolicesimo fondamentalista, che ha dichiarato: “La Russia è l’unica potenza mondiale che oggi combatte per difendere la nostra civiltà, la civiltà cristiana. E’ l’unica a difendere i cristiani nel Medio Oriente e, di conseguenza, è schierata decisamente dalla parte di Assad che è l’espressione sicuramente di un regime autoritario ma laico…”.

Una posizione mistificante

Settori non irrilevanti della sinistra italiana, di fronte al venire meno di ogni modello a cui rifarsi, e alla mancanza di “campi” internazionali nei quali iscriversi, dopo la caduta dei regimi dell’Est e l’evoluzione capitalista della Cina, spinti peraltro da ascendenze politiche più o meno scopertamente staliniste, provano ad inventarseli e li ricercano in improbabili interlocutori che apparentemente (ma solo apparentemente) sembrano impersonare la lotta contro l’odiato avversario imperialista occidentale, trovandoli nella dittatura sanguinaria di Assad, nell’autocrazia nazionalistica di Putin o nel “nazionalcomunismo” dinastico della Corea del Nord.

Si tratta non solo di una semplificazione, ma di una totale mistificazione dello scontro di classe internazionale che apparentemente fornisce spiegazioni più facilmente utilizzabili ma che in realtà allontana dalla comprensione della lotta di classe, e soprattutto la subordina ad interessi estranei o addirittura antagonisti rispetto a quelli contingenti e storici della classe lavoratrice.

D’altra parte, vogliamo chiedere a chi ritiene infondate e comunque sbagliate le aspirazioni democratiche di ampia parte della popolazione siriana e, in primo luogo dei giovani: ci si provi a mettere nei panni di una giovane o di un giovane siriani, che vede profondamente limitati i propri diritti democratici. In nome di che cosa, di quale interesse superiore, di quale interesse di stato dovrebbe rinunciare a lottare in tutti i modi per realizzare quelle aspirazioni?

E per essere ancora più chiari: tra gli interessi di regimi capitalisti, dittatoriali e repressivi da una parte e quelli delle masse lavoratrici e popolari dall’altro, da che parte ci si schiera? Quale lato della barricata scegliere?

Questa domanda era già legittima di fronte all’atteggiamento di avversità che parte della sinistra “radicale” italiana manifestava negli anni 70 e 80 verso chi lottava per la democrazia nell’URSS o nella piazza Tienanmen contro i regimi collettivistici burocratici di Mosca o di Pechino. Ma questo atteggiamento diventa grottesco quando i regimi di fronte ai quali occorrerebbe piegarsi sono quelli oligarchico dinastico di Assad o autocratico neozarista di Putin.

Il nostro internazionalismo

In realtà la sinistra europea deve ritrovare la bussola di un vero internazionalismo, che non è il sostegno a questo o quel paese, il cui governo viene ritenuto a ragione o, molto più spesso, a torto simbolo di antimperialismo, ma che è la costruzione di una solidarietà tra e con le lotte, a partire da quelle che, come la rivolta siriana, si svolgono in contesti drammatici e terribili.

Perciò, tutta la nostra solidarietà umana e politica va al popolo siriano, vittima di un governo criminale e, oggi, anche dell’azione sanguinaria dell’ISIS, dei bombardamenti russi e delle manovre della NATO e dell’Occidente. Purtroppo la sinistra siriana è stata per decenni vittima della repressione del regime della famiglia Assad, cosa che ha portato nelle galere o nell’esilio gran parte dei suoi quadri e oggi, ancora più dopo i massacri perpetrati da Assad, l’esodo di massa, l’irruzione del “califfato”, le forze della sinistra democratica e classista in Siria sono particolarmente marginalizzate e ridotte ai minimi termini, strette tra le illusioni di vasti settori popolari sui “liberatori” occidentali da un lato e il fanatismo fondamentalista dall’altro. Ma il nostro sostegno al popolo siriano non può essere subordinato alla presenza nelle sue lotte di una sinistra più o meno forte, ma è determinato dalla fondatezza delle sue rivendicazioni di democrazia e di giustizia sociale, che sono strettamente convergenti con le nostre rivendicazioni.

Purtroppo, come d’altra parte un po’ in tutto il mondo, anche nell’Oriente arabo gli avvenimenti della fine del 900 e la incapacità di una propria azione indipendente hanno spinto le forze di sinistra nella marginalità, se non nell’estinzione. A questo, peraltro, ha fortemente contribuito la subordinazione di gran parte della sinistra araba al nazionalismo, travolta assieme a lui dalla sconfitta del panarabismo, consentendo all’islamismo di apparire come il campione della lotta antimperialista.

Ma forze democratiche e di sinistra, seppure minoritarie continuano a lottare in numerosi stati arabi e costituiscono per noi, comunque, i veri punti di riferimento nell’azione di solidarietà con le lotte dei popoli della regione e per battere nel Medio e Vicino Oriente (come analogamente occorre fare in Europa) tutte le ideologie reazionarie e fondamentaliste.

E’ inquietante che non poche parti della sinistra guardino con sospetto alle/ai profughe/i siriane/i che giungono in queste settimane a migliaia in Europa, quasi ritenendoli incapaci di capire come il loro dovere dovrebbe essere quello di restare in Siria a battersi a sostegno del “legittimo” governo.

Il nostro desiderio di accoglienza, al contrario, in particolare nei confronti di chi giunge qui da noi dalla Siria si alimenta anche della comprensione della disperazione di chi ha rivendicato democrazia e ha ricevuto bombe.