È nel contesto dell’offensiva lanciata da qualche settimana da Erdogan contro il popolo curdo in Turchia che deve essere compresa la strage che insanguinato Ankara lo scorso 10 ottobre. Più di 100 morti e diverse centinaia di feriti sono il risultato di questo attacco contro la pacifica manifestazione indetta dal HDP (Partito democratico dei popoli).
Un attacco che, al di là dei risultati delle “inchieste” ufficiali, porta l’impronta chiara del governo turco e dei suoi dirigenti, qualsiasi sia alla fine l’esecutore materiale, foss’anche qualche organizzazione legata allo Stato Islamico.
Il governo Erdogan è scosso da tempo da una crisi sociale di ampia portata. Una crisi che lo investe non solo nel rapporto con le richieste di autonomia e il rilancio della lotta del popolo curdo, ma anche con le crescenti lotte dei salariati del paese. Significative, da questo punto di vista, le lotte condotte – a volte sfidando le direttive delle stesse organizzazioni e direzioni sindacali – nel settore automobilistico, un settore importante dal punto di vista dell’economia del paese.
Crisi sociale e crisi politica hanno poi trovato un esito nelle elezioni legislative dello scorso 7 giugno; un risultato caratterizzato non solo dalla sorprendente avanzata dell’HDP (una forza politica particolare che riunisce sotto lo stesso « tetto » il movimento nazionale curdo e una parte della sinistra turca) che ha ottenuto il 13% dei voti (80 deputati); ma, soprattutto, dal negativo risultato ottenuto dal partito di Erdogan (l’AKP) che ha perso la maggioranza assoluta che deteneva da oltre un decennio (2003). Proprio poggiando su questa solida maggioranza parlamentare in questi anni Erdogan era riuscito a costruire il proprio potere (con il sostegno attivo dell’imperialismo americano e di quello di diversi paesi europei) e delineare una strategia che prevedeva anche passaggi legislativi importanti proprio fondati su questa maggioranza (in particolare modifiche costituzionali importanti). Progetti che oggi appaiono fortemente in crisi.
Da qui gli attentati e la repressione degli ultimi mesi, che hanno visto coinvolta non solo l’opposizione curda ma anche militanti politici, sindacali ed associativi che si sono mobilitati contro il regime: si tratta dell’estrema carta che gioca Erdogan per tentare di recuperare una parte del consenso ultramoderato in vista delle prossime elezioni previste ad inizio novembre.
Dietro alla declamata lotta allo Stato Islamico, abbiamo un regime che di fatto utilizza questa presunta lotta al solo scopo di attaccare coloro che rivendicano i propri diritti, come i militanti curdi che, loro sì, combattono sul terreno gli dijhadisti in tutte le loro varianti, ed in particolare lo Stato Islamico.
Di fronte a tutto questo è più che mai necessario rilanciare la nostra solidarietà con il popolo turco e la sua lotta; ma anche con tutti coloro che in Turchia si battono contro una crisi sociale alla quale il potere di Erdogan (sostenuto dai governi europei di “sinistra” e di “destra”) risponde con la repressione, gli attentati, le stragi. Il governo svizzero, visti i suoi forti legami economici e politici con il regime di Erdogan, ha in questo contesto una responsabilità politica importante, una responsabilità che è necessario denunciare con forza.
Cacciamo Erdogan, solidarietà con il popolo curdo e turco.