Mentre in Turchia aumenta la violenza in una vera e propria strategia della tensione, in Siria e Iraq sembra esserci una gara a chi bombarda meglio è di più. L’intervento russo rappresenta certamente un salto di qualità nella sua politica imperiale nella regione. E intanto anche in Italia soffiano brezze di guerra….
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere)….
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
(P.P. Pasolini)
L’immediata attribuzione ad Isis dell’attentato contro la manifestazione per la pace di Ankara – che ha provocato oltre 120 morti – è in questo momento credibile come se la caldaia della Banca nazionale dell’Agricoltura avesse rivendicato la bomba di Piazza Fontana nel 1969.
Attribuire invece la strage al Pkk, come starnazzano i rappresentati dell’AKP, è fuori da ogni logica, perché proprio il Pkk, aveva annunciato il cessate il fuoco unilaterale il giorno successivo alla manifestazione, come atto di pace in connessione con la parte della società turca che nelle sue mille sfaccettature richiede a gran voce la pace, contro la strategia di guerra del governo.
Questa è la terza bomba che ha come obiettivo l’assassinio di massa di attivisti di sinistra, pacifisti, chiunque sia solidale alla causa curda: la prima esplose a Dyarbakir, in una piazza gremita per il comizio dell’HDP, pochi giorni prima delle elezioni di giugno; la seconda a Suruc, centro della solidarietà internazionale verso la guerriglia curda impegnata a fronteggiare l’Isis; la terza, quella di sabato scorso, in una piazza che richiedeva a gran voce la fine della guerra tra governo e Pkk, una piazza che ricordava Gezi per la sua pluralità: insieme ai militanti dell’Hdp, il partito che più di tutti rappresenta l’anima del cambiamento che avanza dopo le rivolte di Gezi Park, e alla sinistra turca, c’erano tante organizzazioni della società civile.
L’obbiettivo di queste stragi è rompere l’unità che si sta faticosamente costruendo all’interno della divisa società turca, l’unica arma in grado di portare un cambiamento democratico nel paese. È difficile non vedere il collegamento con i discorsi a reti unificate del primo ministro che chiama questi attivisti “nemici” e “terroristi”, rincarando la dose anche dopo le stragi
La scelta del presidente turco Erdogan dello scorso luglio di rilanciare la guerra contro il Pkk attraverso il bombardamento delle sue basi in Iraq e Siria e con l’intensificazione della repressione contro le espressioni politiche curde e democratiche all’interno del paese ha prodotto ciò che si poteva prevedere: non solamente gli attacchi (della polizia e di gruppi estremisti) contro manifestazioni, villaggi curdi e le sedi del partito HDP e una situazione di estrema violenza in tutto l’est del paese, ma ha aperto anche la strada ad una strategia della tensione interna e un’escalation della sua propensione militare nella regione che ha provocato un ulteriore intensificazione del conflitto in Siria e Iraq. Naturalmente non significa che l’ordine della strage sia partito da Erdogan, ma che la sua politica abbia aperto la strada a questa strategia, oltre a provocare una fortissima polarizzazione e crisi sociale.
Erdogan sembra giocarsi il tutto per tutto nelle prossime elezioni, da lui volute per provare a riconquistare una maggioranza assoluta di seggi in parlamento che gli permetterebbe di continuare a governare senza alleati e con totale libertà di manovra.
Non è detto che questo tentativo gli riesca – d’altra parte spesso una strategia della tensione viene sconfitta dal movimento democratico e dalla società civile che non è disposta ad un salto nel buio autoritario. Le manifestazioni in tutta la Turchia a seguito della chiamata allo sciopero da parte dell’Hdp, dimostrano che non bastano le bombe a zittire la richiesta di pace e democrazia.
Nulla è ancora scritto rispetto ai risultati delle prossime elezioni politiche generali, e non è scontato che la strategia della paura funzioni nei confronti dell’elettorato curdo “moderato” (che alle scorse elezioni ha premiato l’Hdp) e di quello repubblicano (molti dei morti di Ankara erano membri e simpatizzanti del Chp kemalista…).
Erdogan tenta ancora una volta la strada della censura – la Turchia in questo momento è il paese con il maggior numero di giornalisti imprigionati – non essendo riuscito nella criminalizzazione ed esclusione dell’Hdp, che anzi è diventato un punto di riferimento per tutti e tutte coloro che chiamano a gran voce la pace.
Le prossime settimane di campagna elettorale saranno però a forte rischio e tutto potrebbe succedere. Anche per questo l’HDP sembra deciso sospendere manifestazioni di massa per la sua campagna elettorale, per evitare provocazioni e nuovi lutti.
I bombardamenti turchi nel nord di Iraq e Siria sono stati una grande occasione per gli alleati internazionali di Bashar el Assad per aumentare la loro presenza a fianco del dittatore siriano direttamente e con un salto di qualità dal punto di vista militare.
In primo piano c’è evidentemente l’intervento diretto dei caccia e dei militari russi – direttamente e dichiaratamente indirizzato a consolidare il regime di Assad e a garantire al presidente siriano e al suo entourage la permanenza al potere anche nel caso di una “soluzione” negoziale al conflitto.
Il presidente russo utilizza gli stessi argomenti della “guerra al terrorismo” inaugurata oltre 15 anni fa da George W. Bush e propaganda come diretti contro Isis bombardamenti e interventi militari indirizzati a indebolire i gruppi armati dell’opposizione siriana – esattamente come i bombardamenti Usa sono sempre stati diretti al consolidamento della propria presenza globale.
Putin approfitta del relativo disimpegno statunitense dal medioriente e dalla volontà di Obama di nuove relazioni con l’Iran per aumentare la sua presa sul governo siriano e affermare una propria politica di potenza nella regione.
Una presenza a 360° gradi, che coinvolge anche il governo iracheno: russi, siriani e iraniani sono infatti parte del centro di coordinamento delle operazioni irachene contro Isis, permettendo in questo modo un consolidamento di un’alleanza sempre più centrale nella regione.
Niente di meno di una forma di imperialismo militare, una politica di potenza in un’area dall’equilibrio sempre instabile e allo stesso tempo con una forte continuità delle strutture di potere.
Una presenza riconosciuta e tutto sommato apprezzata dallo stesso governo israeliano, che ha deciso di coordinarsi con i comandi militari russi riguardo l’intervento in Siria – al quale fornisce anche collaborazione in materia di intelligence rispetto i movimenti dei gruppi armati anti-Assad.
L’intervento russo ha rimescolato le carte del conflitto siriano: da una parte aumentano le operazioni congiunte dell’esercito di Assad insieme a miliziani di Hezbollah e iraniani, con la copertura russa. Operazioni che – non senza difficoltà e con diverse perdite di mezzi e uomini – sembrano permettere al regime di riconquistare settori importanti, in particolare sull’asse Latakia-Hama/Homs-Damasco.
In secondo luogo, apparentemente in modo paradossale, i bombardamenti russi stanno permettendo ad Isis di conquistare nuovo territorio a discapito di gruppi armati dell’opposizione siriana (legati al Fsa o alla galassia islamista). Dicevamo paradosso solo apparente, perché è chiaro da due anni che Isis è il “miglior nemico” per Assad (che non ha mai fatto nulla per combatterlo, quando non l’ha favorito) e che i vari scontri armati sul territorio siriano Isis li ha avuto con la resistenza curda del Ypg/Ypj e con i gruppi dell’opposizione siriana.
In terzo luogo la guerra russa sembra aver provocato un – almeno provvisorio – compattamento di vari gruppi della resistenza armata siriana, che in un loro comunicato hanno dichiarato la loro opposizione all’aggressione russa, il rifiuto di qualsiasi ruolo futuro per Assad, il rigetto delle iniziative dell’Onu di “raffreddamento” del conflitto e il rilancio di una soluzione politica che permetta il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione (democrazia, giustizia, libertà) e non una soluzione “yemenita” come vorrebbero Usa e alleati europei.
Non si può dire cosa produrrà questa nuova unità, e se sul campo avrà la forza di resistere alla tenaglia rappresentata da Isis da una parte e Assad e alleati militari dall’altra.
Quello che è interessante, e generalmente taciuto, è il protagonismo che ancora esprime la società civile siriana – malgrado i milioni di donne e uomini che sono stati costretti o hanno deciso di fuggire dalla guerra (interessante a proposito il sondaggio fatto in Germania in base al quale l’80% dei rifugiati intervistata dichiara che Assad è stata la causa della loro fuga, non Isis)
In diverse città ci sono state manifestazioni popolari contro Isis, contro l’intervento russo ma anche contro l’autoritarismo dei gruppi islamisti che controllano alcune parti del territorio.
Allo stesso tempo in diverse città “liberate” cerca di affermarsi un’amministrazione civile – a volte con l’accordo dei gruppi armati (come nel caso del Southern Front) – con un ruolo delle associazioni professionali e dei Comitati locali di coordinamento. Una dimostrazione che quanto succede in Siria non sia possibile raffigurarlo in maniera riduttiva come un conflitto di tutti contro tutti e/o una palestra per le scorribande delle diverse potenze esterne (reali o potenziali) – come ad esempio si vede in questo video della BBC.
Questo protagonismo dovrebbe essere l’obiettivo degli “aiuti” che si vorrebbero dare alla Siria, così come questi dovrebbero essere i settori da privilegiare in qualsiasi “soluzione negoziale”. E’ infatti evidente che non sia possibile alcuna soluzione basata su un accordo in cui abbiano un ruolo anche di “transizione” il presidente siriano o i suoi principali collaboratori (criminali di guerra e di pace).
Un conto è garantire una transizione che non azzeri immediatamente le strutture dello stato siriano (stato modellato sul regime familiare e predatorio, peraltro) – che è la vera paura dei paesi occidentali, dopo l’esperienza irachena – e che sostenga un percorso pacifico di fine della dittatura e conquista di una reale democrazia e giustizia (che permetta, ad esempio, la ricostruzione del paese e il rientro dei rifugiati che vogliano farlo). Altro pensare che dopo quasi 5 anni di guerra civile e di comportamenti criminali nei confronti della popolazione (in primo luogo con i bombardamenti sulle città) da parte delle forze armate di Assad insieme ai mercenari iraniani e di Hezbollah possa funzionare un colpo di spugna che riaffermi un ruolo a Bashar el Assad.
Questo scenario non rende particolarmente ottimista lo sguardo sul prossimo futuro, che sarà ancora caratterizzato da scontri e morti, fino ad un armistizio che lascerà divisa la società siriana e inappagato il desiderio di pace e giustizia per cui è nata la rivoluzione siriana, oltre che ancora dominanti le diverse potenze regionali e globali che si spartiranno il territorio – magari in nome della guerra al terrorismo.
In tutto questo non potevano mancare i soliti (e le solite) amanti della guerra “sola igiene del mondo” anche nel nostro paese.
Le dichiarazioni della piazzista d’armi e rappresentante di commercio di Finmeccanica Roberta Pinotti (ora ministro della difesa, dopo tanti anni in una seconda di grande potere) vanno nella direzione di un maggiore impegno italiano in Iraq, con l’utilizzo di cacciabombardieri italiani a fianco di quelli dell’alleanza contro il terrorismo.
E’ la solita tendenza italica ad avare qualche merito (e qualche morto, magari) per potersi sedere al tavolo delle decisioni su spartizioni, governo del mondo, alleanze.
Una tentazione che in questo momento non ha ancora convinto il presidente del consiglio Renzi, più orientato ad un ruolo a fianco dell’Ue tedesca e meno guerreggiato.
In ogni caso l’Italia non ha mai davvero abbandonato il teatro iracheno, sia attraverso l’addestramento dell’esercito iracheno che attraverso il sostegno agli alleati della Nato.
L’occasione dell’alleanza contro Isis rappresenta una tentazione troppo forte, però, per chi vuole allacciare legami ancora più stretti con l’alleato statunitense e rilanciare spese militari e ruolo delle forze armate sulla scena internazionale.
L’intervento italiano in Iraq sarebbe tutto sommato poco utile all’alleanza e limitato ma darebbe un nuovo “prestigio” al nostro paese in vista magari di una nuova operazione di “peacekeeping” in Libia (un amore che mai si scorda…) e permetterebbe di ricalibrare il bilancio militare che ha avuto qualche contrazione negli scorsi anni.
Questo scenario è decisamente complicato, e non permette un approccio da tifosi o uno sguardo manicheo.
Questo non toglie che abbiamo ben chiaro da che parte ci schieriamo e contro chi manifestiamo la nostra opposizione: contro qualsiasi soluzione voluta dalle diverse potenze imperiali sulla pelle dei siriani e in continuità con le politiche del passato; contro qualsiasi intervento militare italiano, perché riteniamo allo stesso tempo inutile (nel senso che si dava prima) e dannoso questo intervento, mentre siamo convinti che si debba dare una svolta netta, che porti ad un ritiro totale dei militari italiani dai diversi scenari di guerra (Afghanistan in primo luogo) e un’alternativa alle politiche militari (e alle spese militari, che creano già danni sociali in quanto sottraggono risorse alle politiche sociali.
Siamo a fianco dei gruppi – non armati o che resistono anche con le armi – che si battono per l’autodeterminazione, la giustizia, la democrazia – a Kobane come ad Aleppo, a Istanbul come a Damasco, a Gerusalemme come a Mosul.
Ancora una volta in basso a sinistra, contro le ragioni della geopolitica e degli imperialismi.
Grazie a Fabio Ruggiero per aver completato la parte sulla Turchia