I sanguinosi fatti di Parigi apparivano da subito destinati a produrre effetti su larga scala e di lungo periodo sul piano politico e sociale. Non è la prima volta che il terrore semina morte nel cuore della vecchia Europa. Nel marzo del 2004 fu colpita la Spagna con una serie di bombe su binari e su treni regionali che causarono 191 morti.
Nel luglio 2005 toccò a Londra con 52 pendolari uccisi nella metropolitana da 4 attentati suicidi. Eppure i tentativi dei governi di sfruttare l’indignazione, la rabbia e l’onda emotiva popolare non si erano mai spinti fino a invocare ed ottenere, per la prima volta nella storia della NATO, l’applicazione dell’articolo 5 del trattato atlantico che prevede l’aiuto e l’assistenza ad un paese attaccato da parte degli altri paesi membri. Stato di eccezione anche per il consiglio di difesa della Ue che con la Mogherini annuncia l’attivazione, per la prima volta, dell’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona, la cosiddetta “Clausola di difesa collettiva”. Clausola che prevede l’obbligo di assistenza degli altri paesi membri ad un paese che subisce un’aggressione armata sul suo territorio. Sul fronte interno il presidente socialista Hollande chiede che si adatti la costituzione allo stato di emergenza permanente in modo che sia possibile affidare prerogative eccezionali alle autorità amministrative in termini di poteri di polizia riguardanti la circolazione di persone e di veicoli, il soggiorno di persone, la chiusura di luoghi pubblici, le perquisizioni a domicilio di giorno e di notte, il divieto di riunioni di natura tali da comportare disordini, nonché il sequestro di armi. Le ragioni che spingono le classi dominanti a questa drammatica escalation non sono quindi la conseguenza della particolare efferatezza dell’attacco quanto invece soprattutto segno della particolare fase storica che attraversiamo. In primo luogo la crisi sistemica di un capitalismo, soprattutto dentro l’area Euro, che non è più in grado di garantire una vita dignitosa a gran parte della popolazione. Ogni nuova generazione ha la certezza che sarà più precaria di quella che l’ha preceduta. I paesi dell’Europa decrescono in maniera infelice cancellando uno alla volta, in un processo che sembra inarrestabile, ogni elemento di quello che viene definito modello sociale europeo. Salari, pensioni, diritti sociali, tutto è compresso sull’altare della crisi, del debito pubblico, della competizione globale delle merci. In tal modo si genera e si alimenta un odio generalizzato e inconsapevole pronto a riversarsi sul diverso, sul migrante, sul sovversivo, su tutto ciò che appare portatore di bisogni, posti in competizione diretta per lo stesso piccolo e angusto spazio. La guerra militare è, da questo punto di vista, l’altro volto della guerra civile per la sopravvivenza a cui il capitalismo ha costretto un’umanità che ha smarrito la capacità di riconoscere il vero nemico nelle politiche di predominio dei pochi sui molti. Si è creato così il necessario consenso sociale alla guerra sul fronte interno ed esterno. Per lo discreditato ceto politico europeo che presiede alle politiche d’austerità, il terrore è anche il pretesto con il quale imporre la militarizzazione della società, la riduzione degli spazi di democrazia e partecipazione, la corporativizzazione totale delle relazioni tra capitale e lavoro in nome del presunto bene supremo della patria e dell’impresa. Ed è anche la possibilità di recuperare consenso elettorale e sociale dalle grinfie dell’estrema destra. Lo avevamo detto sin dal 2008 che la guerra su larga scala, in assenza di un nuovo profondo rivolgimento sociale, rischiava di divenire una possibile via d’uscita per il capitale. Fatto non nuovo, come ci insegna peraltro quanto successo con la grande crisi del 1929. Se tutto ciò può tuttavia accadere è anche perché la sinistra politica e sociale è lontanissima dal poter giocare un ruolo sulla scena politica ed anzi rischia di arruolarsi anch’essa in parte nella nuova guerra civile globale e locale. Lo testimoniano l’imbarazzante silenzio e la complicità delle principali centrali sindacali e il clima di grande coalizione che attraversa l’Unione Europea e non solo. Da tre giorni si è scatenata l’aviazione di Hollande con i bombardamenti sulla città di Raqqa, “autorizzati” ad una rappresaglia che ben pochi danni farà a Daesh, evidentemente attrezzata a subire la prevedibile reazione militare francese, e molti ne farà alla incolpevole popolazione di una città che i media mainstream hanno rimosso colpevolmente. Russia e Usa hanno ricomposto le loro apparentemente insanabili divergenze spartendosi per il momento sfere di influenze e interessi sostanziali , la guerra è pur sempre guerra per il predominio territoriale, per l’accaparramento delle risorse… Si prepara quindi una nuova pesantissima estensione di un conflitto con conseguenze imprevedibili. Il livello di ipocrisia che la propaganda di guerra ha messo in campo per arruolare tutti noi nello sforzo bellico è impressionante. Un’ipocrisia che diventa intollerabile quando soppesa i morti e li divide tra quelli di valore e quelli che non fanno né notizia né indignazione. Quanti palestinesi, siriani,afghani, nigeriani è necessario uccidere o semplicemente vedere morire affogati nel mediterraneo per suscitare la stessa commozione che suscita l’uccisione di un bianco occidentale? La verità è che i responsabili della barbarie che pretendono di imporci sono gli stessi che hanno disegnato confini di altri paesi con la forza dei loro eserciti, che hanno torturato i partigiani algerini che lottavano contro l’oppressione francese, sono gli stessi che hanno cercato di esportare la “democrazia” delle multinazionali in Iraq e Afghanistan, che hanno bombardato e smembrato la Jugoslavia. Daesh oggi, come Al Qaeda ieri, sono i figli delle loro folli avventure militari, della loro violenza. La verità è che la guerra è direttamente contro gli interessi delle classi popolari, contro cioè chi pagherà per intero il prezzo dello stato d’emergenza permanente e dello sforzo bellico. La guerra è la loro quindi, ma i morti sono solo nostri. Per queste ragioni non abbiamo alcuna intenzione di unirci al coro di coloro che invocano leggi speciali e che pretendono di mettere a ferro e fuoco intere regioni del pianeta. La folle violenza del terrore si combatte ripristinando la libertà e la sovranità dei popoli, anche quando è di un colore che non ci piace. E si combatte mettendo al centro delle politiche la giustizia, l’eguaglianza e la fraternità come fondamenti di una convivenza civile. Noi non ci arruoliamo e lavoreremo da subito a organizzare la diserzione di massa alla loro guerra.