È stato veramente un piacere vedere migliaia di lavoratori edili protestare per le strade di Bellinzona contro la politica padronale nelle trattative per il rinnovo del contratto nazionale mantello dell’edilizia. Una dimostrazione di forza che deve suscitare almeno tre riflessioni.
La prima è che la classe lavoratrice ( i salariati) come soggetto sociale è tutt’altro che sparita. Il Ticino in questi anni l’ha vista protagonista di proteste, lotte, azioni a più riprese: dalle numerose azioni dei lavoratori edili (quella di oggi è stata preceduta, negli ultimi due decenni, da altre manifestazioni e scioperi simili), da quelle di lavoratori di altri settori scesi in lotta per difendere salari e occupazione (da quelli delle Officine a quella della Exten). I lavoratori e le lavoratrici quindi ci sono, sono disponibili alla lotta e rispondono alle sollecitazioni delle loro organizzazioni.
Una seconda fondamentale ragione di soddisfazione è la risposta che questa giornata di sciopero dà alla velenosa propaganda di tutti coloro che mettono al centro dei problemi di questo cantone, la presenza dei lavoratori stranieri. I lavoratori edili, in grandissima parte frontalieri, hanno dimostrato ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, che sono pronti a lottare con tutti gli altri qualsiasi sia il loro statuto (svizzeri, domiciliati, etc. ) per difendere le condizioni di lavoro e di salario di tutti. La stragrande maggioranza di coloro che hanno scioperato e dimostrato per le strade di Bellinzona sono lavoratori che la propaganda leghista e UDC (e non solo quella) presenta come dei “privilegiati”, gente che – con salari dai 4’000 franchi in su – avrebbe una posizione di grande privilegio materiale vivendo in Italia. Ebbene, costoro – che avrebbero quindi tutto da perdere – hanno deciso di battersi, per difendere certo i loro interessi, ma per dire basta con la politica del padronato che tende a smantellare salari e condizioni di lavoro, per dire no al dumping salariale e sociale che investe tutti i lavoratori e le lavoratrici attive sul terreno cantonale: hanno lottato per loro, ma anche per tutti noi. Hanno illustrato con chiarezza cosa sia la solidarietà operaia.
Infine questa giornata mostra tutta l’assurdità di posizioni, interne al sindacato stesso, che insistono sulla necessità di bloccare la libera circolazione dei frontalieri, di sospenderne l’afflusso con l’idea che, così facendo, sarebbe più facile costruire delle mobilitazioni e difendere condizioni di lavoro e salari.
La giornata del 9 novembre ha mostrato che l’unica via per rispondere al dumping salariale e sociale passa attraverso l’unità e la lotta dei salariati, partendo dalle rivendicazioni quotidiane e concrete e dando alle stesse una risposta solidale e di classe. Tutto il resto sono solo scorciatoie che non fanno che favorire le posizioni xenofobe nel fronte dei salariati.
Come andrà a finire adesso? Certo una giornata di sciopero, seppur massiccio ed importante, non basterà; soprattutto se l’epicentro della contestazione operaia si manifesta con più forza (come è stato in questi giorni) in un cantone come il Ticino, tutto sommato marginale e secondario nel quadro della influenze complessive sulle vicende contrattuali nazionali.
Qui le organizzazioni sindacali, e UNIA in particolare, pagano ritardi accumulati in passato nel lavoro e nell’azione sindacale, oltre ad un orientamento (soprattutto nelle decisive roccaforti della Svizzera tedesca) ancora legato ai meccanismi tradizionali della pace del lavoro, seppur “aggiornati” e “modernizzati” da un dinamismo propagandistico. Un dinamismo che, tuttavia, non riesce a trasformarsi in capacità di organizzare i lavoratori sui luoghi di lavoro e trasformare un’azione di pura propaganda in movimento sociale, quale dovrebbe essere (per definizione) un sindacalismo degno di tal nome.
A questo si affianca quella che appare come la mancanza di una strategia (nazionale) e di una direzione sindacale in grado di costruire una tale strategia vincente.