È uscito un numero di “Limes” particolarmente utile di questi tempi[i]. È dedicato a La strategia della paura e attacca senza reticenze la reazione, capeggiata da Hollande e seguita da molti altri capi di Stato, alle stragi del 13 novembre. “Limes” aveva già dedicato in poco più di un anno ben quattro numeri all’argomento: «Le maschere del califfo» (n. 9/2014), «Dopo Parigi. Che guerra fa» (n. 1/2015) , «La radice quadrata del caos» (n. 5/2015), «Le guerre islamiche.»(n. 9/2015), in cui aveva già smontato molte delle enfatizzazioni del pericolo rappresentato dallo Stato Islamico.
Questa volta la tesi sostenuta è netta: il terrorismo “porge al nemico la corda con cui impiccarsi”: Sono diversi gli articoli interessanti, ma mi soffermo solo sul lungo editoriale I guerrieri del nulla (come sempre non firmato), che sostiene giustamente che “«terrorismo» è termine inflazionato. […] È opportuno ricordare a noi stessi che il terrorismo è una tecnica di combattimento. Non una specialità islamica o di qualunque altro credo, visto che a usarla lungo l’intero corso della storia umana sono stati i soggetti più diversi, noi europei non esclusi.”
Per questo, “per capirne il senso non serve compulsare il Corano. Meglio riprendere in mano i nostri classici. Ripartendo dalla definizione clausewitziana della guerra come «atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà». Dunque a fare ciò che noi vogliamo faccia. Non occorre disporre di particolari doti decrittatorie per stabilire che il primo obiettivo di coloro che hanno colpito a Parigi, come prima a New York e a Washington, a Londra e a Madrid, è quello di spingere l’Occidente alla crociata, vero nome della guerra al terrorismo. Così legittimando se stessi nelle proprie comunità e regioni di origine – lì dove giocano le decisive partite di potere – come guerrieri di Dio”.
“Limes” ricorda che “il terrorismo è di norma l’arma dei deboli. La risposta asimmetrica alla prevalenza di chi disponendo di risorse militari, tecnologiche ed economiche superiori cerca la battaglia simmetrica.” È quindi sbagliato evocare «l’esercito terrorista di Daesh […] come ha fatto Hollande subito dopo gli attacchi del 13 novembre, quasi a convenzionalizzare lo scontro. I terroristi non sono un’armata”. “Chi ne dubitasse ha solo da paragonare l’aspetto di un soldato occidentale, dotato di un’impalcatura tecnologica che lo rende simile a un astronauta, a quello di un attentatore suicida cresciuto nelle banlieues parigine o brusselesi e addestrato nei deserti arabi.”
L’editoriale afferma categoricamente che “i terroristi che fanno strage in Europa non sono religiosi. Hanno una conoscenza superficiale, selettiva ed estremamente manipolata del Corano e delle tradizioni islamiche. Talvolta nemmeno questa. Lo pseudo-islam decostruito e riadattato da chi li guida nel processo di radicalizzazione volto a trasformarli in automi sterminatori è un breviario di somministrazione della violenza. […] Lo schema, elementare quanto magnetico, è il seguente: siamo vicini alla fine dei tempi; nel giorno del giudizio conviene farsi trovare sulla sponda dei seguaci del vero Dio, il nostro; perché noi siamo i soli detentori della Verità, tutti gli altri esprimono diverse gradazioni dell’errore, del cedimento alle seduzioni diaboliche. Chi fa strage di civili nelle metropoli europee si considera in stato di legittima difesa contro noi «cani arrabbiati» che vorremmo indurlo alla perdizione. Si intitola quindi il rango di eletto destinato a redimere l’umanità”.
In ogni caso non si può dimenticare che “una buona quota di quei giovani killer sono passati attraverso i meandri della piccola criminalità e hanno vissuto l’esperienza del carcere, classico ambiente di formazione e associazione al delitto”. E spesso è proprio lì che sono stati reclutati.
Dall’esame dei tratti specifici del jihadista emerge che per capire questo nemico occorre scavare nelle nostre società almeno quanto nel suo ambiente culturale e geopolitico di riferimento. In particolare per quanto riguarda le sue motivazioni ideologiche, l’idea di sé e di noi – mondi incomunicabili, da separare per sfuggire alla contaminazione del nostro stile di vita. L’ossessione per l’apocalisse- tema tipico di sette para-religiose lontanissime dall’islam, incluse alcune variazioni sul cristianesimo assai diffuse nelle Americhe – spiega perché l’irradiamento dello Stato Islamico superi le barriere confessionali e di classe. E perché il «califfato», che dell’apocalisse imminente fa il cuore della sua propaganda, sia un cult anche per chi non parrebbe contiguo al jihadismo, tanto che nell’agosto del 2014 un francese su sei simpatizzava per lo Stato Islamico.
C’è infine un’interpretazione opportunistica del fenomeno: i terroristi che hanno colpito a Parigi sono dei nichilisti per i quali il salafismo rozzo e violento è copertura di comodo della loro ribellione individuale o di piccolo gruppo. Spiega Olivier Roy, studioso dell’islam: «In breve, questa non è la “rivolta dell ‘islam” o dei “musulmani “, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità».[ii] Il «califfato» attinge a questo pozzo. Nel momento in cui sparisse, quei giovani in rivolta cercherebbero un altro marchio per giustificare a se stessi e al mondo la propria irriducibile quanto confusa dissidenza.
La rivista affronta naturalmente anche le caratteristiche della formazione dello Stato Islamico nella vasta area tribale arabo-sunnita a cavallo dell’ormai cancellata frontiera fra Siria e Iraq, che fornisce ai jihadisti “un riferimento ideale, al di là della sua (in)consistenza geopolitica”, e rappresenta un “marchio di successo perché territorializza un sogno”.
Ma così “lo Stato Islamico ha i suoi martiri ma anche le sue ceralacche e i suoi timbri, i suoi combattenti come le sue burocrazie, autoreferenziali quanto le nostre. E i «conti pubblici» da tenere in ordine grazie alle tasse e ai traffici di merci varie – petrolio, reperti archeologici, esseri umani”… E che non dipendono più esclusivamente dai finanziatori iniziali, tra cui in primo luogo ovviamente l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie del Golfo.
“Limes” sostiene che non basta domandarci chi siano coloro che ci hanno colpito, ma dovremmo anche chiederci chi siamo o chi stiamo diventando noi. Dopo quindici anni di attentati jihadisti e di guerra al terrorismo, dalle Torri Gemelle al Bataclan, il clima nelle società europee è cambiato. Se l’obiettivo degli stragisti di Parigi era sconvolgere il nostro modo di vivere, come assicura Hollande, dobbiamo ammettere che stanno vincendo. Le immagini di Bruxelles, «capitale d’Europa», ridotta per lunghi giorni a città fantasma pattugliata da poliziotti e militari in assetto di guerra, sono evocative del futuro che ci attende se non sapremo riequilibrare il nostro approccio al terrorismo.
Ma la domanda più inquietante di “Limes” è se ha ancora senso usare la prima persona plurale riferendoci agli europei. “La morte di fatto del sistema Schengen, i blocchi alle frontiere, i muri anti-migrante, il festival dei nazionalismi e dei particolarismi, il crollo dei flussi interbancari nello spazio comunitario – questo e molto altro svela che l’Unione Europea è nuda. E malgrado l’invocazione francese dell’articolo 42 comma 7 del Trattato di Lisbona, a evocare il fantasma della solidarietà europea nella guerra al terrorismo, ciascuno la interpreta – o la nega- a suo modo.
Il primo effetto concreto dell’emergenza terrorismo è la messa in mora del patto di stabilità sul fronte delle politiche di sicurezza e difesa, dopo averlo già incrinato su quello migratorio. Fra tanta retorica militarista, ciò che davvero resterà dei bellicosi proclami di Hollande è una piccola frase: «Il patto di sicurezza prevale sul patto di stabilità».
La decostruzione dell’Unione Europea precede di molto gli attentati del 13 novembre, certo. Ma alla prova del terrorismo jihadista, che mette in questione la ragione prima dell’esistenza di qualsiasi Stato – la protezione dei suoi cittadini – i Ventotto hanno confermato che il processo di disintegrazione europea sta accelerando il ritmo. La valanga della paura, incentivata dai cinismi elettorali di chi pensa di trarne beneficio, prevale sulla ragionevole necessità di affrontare insieme crisi ed emergenze. Vale per ciò che resta della casa comunitaria, ma anche per le singole società che vi convivono. A partire dalla Francia, che deve constatare la crescente polarizzazione fra i suoi musulmani e la popolazione «di ceppo».
Le elezioni regionali di domenica sono rivelatrici: dirigenti politici e media mainstreamhanno inseguito e spesso scavalcato le tirate islamofobiche della destra nazionalista: i repubblicani di Sarkozy inseguono il Front National, mentre i socialisti inseguono e imitano i repubblicani, col risultato che una parte dell’elettorato rifiuta il gioco e non vota, ma un’altra finisce per preferire l’originale all’imitazione. Traspare nel discorso pubblico la tesi di una «razza» francese la cui «purezza» sarebbe messa in pericolo dagli immigrati. Specialità di alcuni ideologi del Fronte nazionale. ripresa senza ritegno da esponenti dell’establishment, come Nadine Morano (del partito di Sarkozy): «Noi siamo un paese giudaico-cristiano – lo diceva il generale de Gaulle – di razza bianca, che accoglie persone straniere. Voglio che la Francia resti la Francia. Non voglio che la Francia diventi musulmana».[iii]
Ma anche lo stesso presidente Hollande, proclamato lo stato d’emergenza, ha proposto di revocare la cittadinanza ai francesi colpevoli di «attentato all’interesse nazionale». E ha enunciato l’urgenza di fare evolvere la costituzione per meglio affrontare «il terrorismo di guerra». Chi avrebbe immaginato che un manipolo di jihadisti avrebbe spinto il potere a rivedere la Carta della Quinta Repubblica? Il rischio è di scivolare così lungo un piano inclinato, verso regole sempre più restrittive, contribuendo ad accentuare la segregazione nei ghetti musulmani. Lo scenario ideale del nemico. Se questa è la logica di guerra di Hollande, la Francia ha perso in partenza.
“Limes” è severissima poi contro “l’avventurismo turco”. Ankara è infatti il massimo sponsor dello Stato Islamico, strumento da scatenare prima contro al-Asad, poi contro le milizie curde siriane (Ypg) e anatoliche (Pkk) per impedire loro di materializzare, nella lotta contro il «califfato», il miraggio del Kurdistan. La Turchia vorrebbe coinvolgere la Nato in un’operazione di terra nel Nord della Siria, formalmente diretta contro l’Is, di fatto contro il Pkk. A Erdogan non difetta la spregiudicatezza, inclusa la vocazione a manipolare i terroristi.
L’abbattimento il 24 novembre scorso di un caccia russo, colpevole secondo Ankara di avere sconfinato nel proprio spazio aereo è segno della determinazione con cui Erdogan persegue l’obiettivo di coinvolgere risorse atlantiche (cioè statunitensi) a protezione dei propri interessi, poggiando sulle clausole di solidarietà del Trattato di Washington. “Forse è il momento per noi altri atlantici di chiederci quale senso abbia tollerare che uno dei partner principali del comune patto militare non solo protegga il nemico, ma se ne serva per coinvolgerci nei suoi deliri di grandezza”.
Quanto alle ipotesi di un’escalation militare, su cui punta la Francia, “Limes” sottolinea che non tiene conto che “la coperta è corta”, dato che è già impegnata direttamente in parecchi Stati africani. Quanto alle risorse di altri europei, al massimo sarebbero di contorno. Gli unici a poter rapidamente vincere la guerra allo Stato Islamico, sarebbero gli Stati Uniti d’America. Ma a Washington siamo ormai in regime di sede vacante. In questo clima, l’ipotesi della guerra vera al «califfo» è da scartare.
Resta lo scenario della «mezza guerra», ovvero del rafforzamento dell’impegno aeronavale occidentale per rispondere alla pressione di opinioni pubbliche accecate dal terrore jihadista. L’ennesima guerra senza strategia, in cui combattiamo le nostre paure, rischiando di stravolgere il nostro stile di vita e le già precarie istituzioni. Così non liquidiamo il nemico. Ne serviamo i disegni.
La dimensione geopolitica – ovvero potenza e limiti del «califfato» – riguarda i conflitti di potere settari nel campo arabo e musulmano. La capacità occidentale di incidere su di essi è limitata. Peggio: ogni volta che abbiamo provato a mettere più di un dito in dispute tanto caotiche ne siamo usciti con le ossa rotte.
Inoltre tendiamo a dimenticare che quanto più la banda del «califfo» si fa Stato, tanto meno credibile è il suo millenarismo. E tanto più palese ne appare la radice criminale, votata al controllo di lucrosi traffici.
Conviene quindi ingaggiare una partita sottile il cui obiettivo non sia l’improbabile liquidazione militare dell’Is ma la sterilizzazione del suo irradiamento nella regione e soprattutto in casa nostra. È immaginabile venire un giorno a patti con uno Stato islamico depotenziato, ricondotto alla sua dimensione tribal-sunnita, nel quadro di una ristrutturazione geopolitica dell’area. Ha ventilato questa ipotesi perfino il Dalai Lama… Non è consentito invece cedere un millimetro sul fronte del contrasto alla sua pseudoreligione criminale e alle sue derivazioni terroristiche.
In questa logica occorre concentrarsi su tre fronti. Su quello militare, possiamo ridimensionare e contenere lo Stato Islamico con le risorse disponibili, anche attraverso operazioni coperte e senza eccedere in proclami bellicosi. È imperativo definire gli schieramenti e costringere presunti alleati (Turchia) e partner (Arabia Saudita più satelliti) a scegliere il campo nel quale battersi. O a sgombrarlo. Così riportando il «califfo» alle sue dimensioni banali e minandone l’aura vittoriosa, decisiva nel reclutamento degli adepti.
Su quello regionale, la chiave è disinnescare le guerre nel «Siraq», quelle sì vere, devastanti e sanguinosissime. Questo è compito prioritario della diplomazia, da svolgersi in sintonia con le iniziative militari. Obiettivo non utopico, al quale giungeremo quando tutte le parti in causa stabiliranno di avere più da perdere che da guadagnare dal proseguimento dei conflitti.
Su quello domestico, una delle priorità riguarda la politica e l’opinione pubblica: è ora che i nostri media si rendano conto di essere primario obiettivo e involontario strumento del nemico jihadista. Non si richiedono censure né abiure. Riportare i dati di fatto nella loro realtà, profondità e problematicità, ascoltando ogni voce ed escludendo qualsiasi deriva razzista e islamofoba, è il vaccino più efficace contro la strategia della paura.
“Alla fine, l’obiettivo di ogni terrorismo è istupidirci. E come ricordava il compianto storico Carlo Cipolla, lo stupido è la persona più pericolosa che esista. Proviamo dunque a non farci del male”.
[i] Non succede sempre a una rivista che ha ritmi abbastanza stretti ed è aperta a collaboratori di diversi orientamenti, che assicurano un certo livello di pluralismo ma non sempre una qualità ineccepibile. Ad esempio nell’ultimo fascicolo dedicato a Israele e il libro, c’era un numero sproporzionato di scritti apologetici, compreso uno veramente scandaloso di un Wolfgang Schwanitz che riproponeva le grottesche tesi di Netanyahu sul Gran Muftì ispiratore di Hitler, ignorando perfino il libro fondamentale di Renzo De Felice (Renzo De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, il Mulino, Bologna, 1988)che riconduceva la vicenda di Ami’n al-Husaini alla storia delle lotte contro il colonialismo, che videro molti leader di movimenti di liberazione illudersi di potersi giovare dell’aiuto dei nemici del proprio nemico.
[ii]O. ROY, “Le djìhadisme est une révolte nihiliste”, Le Monde, 25/117″015.
[iii]Nadine Morano évoque la ‘race bianche’ de la France”, Le Monde, 27/9/2015.