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abagdadDifficilmente una data precisa può rappresentare uno spartiacque storico, una cesura secca tra due periodizzazioni storiche. A volte però ci sono date che possono diventare simbolo di tale cesura, di un passaggio storico e politico significativo per l’intera umanità. Il 17 gennaio 1991 è una di queste date.

Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio di quell’anno cominciarono a cadere le prime bombe della grande coalizione mondiale guidata dagli Stati Uniti su Baghdad e sull’Iraq.

Bombe chirurgiche, si diceva; bombe intelligenti, si raccontava. Non ci volle molto per vedere le migliaia di morti sotto quelle bombe, definiti allora “effetti collaterali” di una guerra non solo necessaria, ma giusta.
O meglio, di una “operazione di polizia internazionale”, come venne definita nel Parlamento italiano che votò in grande maggioranza la partecipazione ad una guerra in spregio alla Costituzione e al suo articolo 11 (naturalmente, nel nome della Costituzione e dello stesso articolo 11….).
Una data simbolica che segnò con evidenza che si stava entrando in una nuova epoca della politica internazionale – alla faccia dei “dividendi della pace” di cui si dibatteva dopo la caduta del Muro di Berlino.
Negli anni successivi l’avremmo definita “guerra globale permanente”, perché dal 1991 prenderanno avvio sia una serie di conflitti “locali” (con la partecipazione diretta e indiretta di diverse potenze regionali o mondiali) che un interventismo spinto da parte degli Usa e dei suoi alleati – interventismo teorizzato, organizzato, praticato.
In quegli anni si modificarono le strategia militari dei principali paesi occidentali e della Nato e in Italia venne elaborato il “Nuovo modello di difesa” che portò successivamente all’abolizione del servizio di leva e alla costituzione di forze armate professionali e interventiste, oltre che ad un progressivo riarmo.
Si disse che dopo quella data nulla fu più come prima, e sicuramente questi 25 anni lo hanno confermato.
In questi giorni qualcuno ha sostenuto che la guerra in corso (in medioriente, soprattutto) è quella stessa di 25 anni fa, pianificata, organizzata e messa in atto – pur in un contesto differente – dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati.
Questa affermazione è decisamente parziale e insufficiente, e quindi sbagliata: la situazione internazionale oggi è profondamente diversa, e l’imperialismo Usa – che nel 1991 cercava di frenare una possibile perdita di egemonia con un rinnovato interventismo e un allargamento della propria presenza globale (in particolare con nuove basi militari) – deve fare i conti, oltre che con le proprie sconfitte e debolezze, con la concorrenza di altre potenze militari che applicano gli stessi metodi imperiali e sfidano un’egemonia globale Usa ormai tramontata (si veda anche la lunga analisi di Corey Oakley su questo stesso sito).
E “la” guerra oggi è fatta di tante guerra che si intrecciano, ed è qualcosa di molto diverso da quella che colpiva Baghdad allora.
Anche se gli Stati uniti rimangono la principale potenze militare globale, ci sono almeno tre avvenimenti che hanno cambiato radicalmente il quadro geopolitico e quindi anche le caratteristiche politiche delle guerre di oggi.
In primo luogo la sconfitta statunitense in Iraq. Ovviamente non una sconfitta militare e nemmeno la cacciata dal paese mediorientale come fu dal Vietnam nel 1975.
Una forte sconfitta politica, però, perché per poter stabilizzare in qualche modo l’Iraq e uscirne senza troppi danni,mantenendo comunque una presenza importante nella regione, gli Usa hanno dovuto scendere a patti con l’Iran e con diversi soggetti regionali.
Forse non c’è una “sindrome Iraq” come ci fu una “sindrome Vietnam”, ma certamente dopo quell’esperienza (e il parallelo impantanamento in Afghanistan) è molto difficile per un presidente Usa iniziare nuove avventure militari che potrebbero finire male.
Oltretutto la gestione della guerra e del dopo guerra in Iraq ha creato diverse fratture con gli stessi alleati nella regione (in primo luogo l’Arabia saudita) che si vedono con chiarezza proprio in questi mesi.
In secondo luogo la crisi economica che ha preso avvio nel 2007, che da una parte ha reso più stringenti le rigidità di bilancio (anche per le spese militari) e dall’altra sta rimettendo in discussione le relazioni tra le principali potenze economiche.
Anche in questo caso gli Usa sembrano riusciti a superare la fase più difficile della crisi, ma al prezzo di uno squilibrio internazionale di cui non si vedono ancora le possibili uscite e che sta mettendo in discussione i rapporti tra i differenti sistemi economici. Una crisi che ha reso persino più intrecciate le diverse economie che si fanno la concorrenza a livello internazionale, in una dinamica di competizione/collaborazione che rende impossibili avventure unilaterali agli Usa.
Una competizione che avviene anche sul piano militare con diversi punti di frizione (in particolare in Asia, in Ucraina, in Siria e medioriente) ma che viene condotta sempre con l’obiettivo di un accordo successivo, con il tentativo di avere maggior ruolo nella stabilizzazione delle regioni in gioco.
Questo si vede in particolare in Siria, dove la “guerra al terrorismo” è lo scenario di accordo tra Usa e Russia già da almeno 3 anni e dove gli interventi di queste due potenze – che provocano comunque morti e distruzioni – sono uno strumento anche competitivo per poter avere maggior forza nel “dopoguerra globale permanente”
Il terzo avvenimento che ha cambiato profondamente lo scenario sono stati i tentativi rivoluzionari nella regione araba.
Noi che il 17 gennaio eravamo nelle strade delle città italiane a manifestare contro la guerra, in nessun momento pensavamo di difendere Saddam Hussein e il suo regime, ma non avevamo una soggettività democratico- rivoluzionaria di massa (in Iraq e nell’insieme della regione) con cui cercare di creare relazioni, fronte comune.
Ci opponevamo ad una strategia e alle sue conseguenze materiali e politiche.
Le rivoluzioni arabe hanno invece reso evidente la frattura tra le popolazioni della regione – che si mobilitavano per cambiamenti radicali nei loro paesi e contro le loro classi dominanti – e i dirigenti reazionari (fossero alleati o meno degli Usa) e hanno fatto paura a quelle stesse classi dominanti, che hanno messo in atto una reazione spesso sanguinosa – in particolare in Egitto, Bahrein e Siria.
Schierarsi contro “la guerra” oggi significa definire anche da parte stare – e un movimento davvero contro la guerra non può che essere un movimento che sta al fianco di tutte le esperienze delle rivolte e rivoluzioni arabe, tanto più se in questa fase sono sulla difensiva o schiacciate dalla repressione e dal ruolo reazionario di diverse potenze globali e regionali.
Il grande movimento contro la guerra degli anni tra il 2001 e il 2006, almeno a livello europeo, non ha resistito a tre sollecitazioni esterne: la forza dell’avversario (che ha potuto comunque dispiegare il suo potenziale mortifero in questi anni); il ruolo vergognoso e criminale dei settori della “sinistra di guerra” (da noi ben rappresentata da Massimo D’Alema ) con cui comunque si doveva “dialogare” secondo alcuni settori del movimento (per fortuna oggi silenziosi…); l’incapacità di riconoscere nelle rivoluzioni nella regione araba un riferimento politico, sociale e di valori che finalmente poteva far uscire una sinistra internazionalista degna di questo nome dalle secche di un’analisi delle relazioni internazionale tutta geopolitica e rappresentata come dinamica dei rapporti tra gli stati. Per poter invece abbracciare chi spezzava il gioco della geopolitica e avrebbe avuto bisogno anche di quella sinistra. Che invece non esisteva più.
25 anni sono passati da quelle bombe. Oggi altre bombe ammazzano uomini, donne, bambine e bambini. Bombe di diversa provenienza; bombe che uniscono le loro distruzioni a quelle dell’esilio, della miseria, della reazione terroristica di gruppi politici che mimano il terrore dei signori della guerra globale.
Continuiamo ad essere contro tutte queste bombe, e continuiamo a metterci al fianco di quelle donne e uomini che hanno provato un assalto al cielo arabo. E che ancora non sono sconfitte/i. Dobbiamo essere in grado di guardare ai loro sforzi per mantenere aperta la porta ad una pace dignitosa e nella giustizia, senza nessun dittatore o padrino politico-militare che ci racconti la favola della guerra giusta e della “difesa della sovranità” a base di stragi e repressione.
Ancora una volta, scegliamo da che parte stare.