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adaesh-oil«Gli Arabi, come mercenari o ausiliari, costituivano l’indispensabile supporto dei grandi imperi. Se ne comperava la collaborazione, si temevano le loro rivolte, ci si serviva delle loro tribù le une contro le altre. Perché non utilizzarne il coraggio a proprio vantaggio? Sarebbe servito, allo scopo, uno Stato potente che unificasse l’Arabia. Avrebbe potuto così garantire la protezione delle ricchezze acquisite e del commercio, stornare all’esterno l’avidità dei Beduini meno forniti perché non ostacolasse l’attività commerciale degli Arabi stessi.

Gli Stati dell’Arabia del Sud, troppo colonizzatori nei confronti dei nomadi, troppo distanti dai Beduini malgrado la loro remota parentela, avevano fallito in questa missione. Uno Stato arabo guidato da un’ideologia araba, adeguato alle nuove condizioni e tuttavia ancora prossimo all’ambiente beduino che doveva inquadrare, costituiva una ptenza rispettata alla pari dei grandi imperi, era questa la principale esigenza dell’epoca. Erano aperte le vie per l’uomo di genio che fosse riuscito a darle una risposta. Quell’uomo sarebbe nato».
Maxime Rodinson, Maometto, Einaudi, Torino, 2008.

La nascita di uno Stato non è né frequente né emozionante. E quello prematuro, il proto-Stato, benché fragilissimo, è già nocivo.
Con l’attuale ristrutturazione del Vicino Oriente, assistiamo al costituirsi di nuove entità, le più note delle quali sono lo Stato islamico (SI) e il Rojava (Kurdistan occidentale). Quest’ultimo, modello di democrazia e di femminismo, costituirebbe un baluardo contro la barbarie del primo. Infatti lo Stato islamico è un mostro, e lo provano le immagini, lo prova tutto. Si dovrebbe, d’altro canto, chiamarlo Daesh, perché non meriterebbe la “nobile” denominazione di Stato, né avrebbe “niente a che vedere” con l’islam. La spiegazione dovrebbe bastare, eppure è insufficiente a capire perché e come, da mesi, da 8 a 10 milioni di persone vivano in un territorio in guerra contro il resto del pianeta. I giorni del Califfato sono sicuramente contati, ma rimarrà invece l’interrogativo: perché funziona?
Lo Stato islamico attira gli sguardi di tutti, ma la sua immagine è confusa. Il riflesso che ci perviene attraverso i media è quello di una belva di cui si mettono accuratamente in scena l’atrocità o episodi bellici selezionati in funzione di oscuri interessi politico-militari: ad esempio, la battaglia di Kobane. Tuttavia, fra i gruppi “ribelli” emersi nel corso del conflitto iracheno-siriano, lo Stato islamico è il solo che cerchi di mettere in piedi una struttura di tipo statuale e che si basi su un progetto politico strutturato e ambizioso: la reinstaurazione del Califfato scomparso nel 1258, cosa che implica una critica del mondo, del suo andamento, dell’Occidente, della democrazia, del nazionalismo, ecc. Vuol forse dire una critica del capitalismo? No di certo, piuttosto quella di alcuni dei suoi mali ed eccessi, quelli che impedirebbero il libero e armonioso funzionamento della agognata società califfale… soprattutto della sua economia.

Sullo Stato
Non torneremo sulle origini e l’artificiosità degli Stati e confini dell’area, né sugli avvenimenti del 2011 che, in Siria e in Iraq, hanno lasciato posto alla guerra civile e poi, rapidamente, a uno scontro militare a più bande che contrapponevano diversi protagonisti locali e internazionali dalle strategie e coalizioni fluttuanti.
La geografia dello SI, all’origine il ramo iracheno di al-Qaida resosi autonomo, è anch’essa fra le più complicate, ma destava la preoccupazione di pochi prima che le sue truppe riportassero una serie di sorprendenti vittorie nel corso dell’estate del 2014.

Il problema militare
In origine lo SI era soltanto uno dei gruppi di resistenza armata all’occupazione americana in Iraq (per cui, un gruppo terrorista); ma, a partire dal 2009, beneficiava dell’ingresso nelle sue file di migliaia di miliziani sunniti e di centinaia di ex ufficiali dell’esercito iracheno.
Molto efficace militarmente, lo SI è stato visto da buona parte della popolazione irachena sunnita come un “esercito di liberazione”, perciò accolto come tale, e molti capi-tribù hanno scelto di aderirvi. Questo spiega come mai tante località siano cadute nelle sue mani così facilmente (ad esempio Mosul) e come mai le truppe di Bagdad (sciite) abbiano resistito solo blandamente nelle loro zone.
Lo SI si è così impossessato di un rilevante arsenale, che gli sarebbe servito per avanzare in Siria a partire dal 2013; in questo paese varie località vengono conquistate dopo violenti combattimenti con altri gruppi islamisti, oppure grazie all’adesione di questi. Nel caos dominante tutt’intorno, le capacità logistiche e le prerogative regali dello SI gli valgono una certa popolarità tra la popolazione. È in un secondo tempo che lancerà offensive contro il Rojava e il regime di Damasco.
Si noti come lo SI sembri molto attento alla sopravvivenza dei propri combattenti, non esitando ad abbandonare posizioni pur tanto necessarie (la questione degli attacchi suicidi è di diverso ordine). Quest’esercito raccoglierebbe, stando alle stime, tra i 30.000 e i 100.000 uomini: molti ex miliziani iracheni, degli arabi, dei kurdi e almeno 20.000 volontari stranieri. Poiché sono tutti regolarmente stipendiati, questo limita saccheggi, furti, sequestri, abituali tra numerosi altri gruppi ribelli.
La fama sanguinaria e spietata di queste truppe è volutamente alimentata: non essendo firmatario della Convenzione di Ginevra, lo SI non rispetta nessuna “regola” della guerra, soprattutto contro coloro che ritiene infedeli o apostati. I suoi avversari, indipendentemente dai loro comportamenti, si ritrovano avvolti da una vernice di rispettabilità.

Amministrare un territorio
La reinstaurazione del Califfato, sotto la denominazione di Stato Islamico, è stata proclamata il 29 giugno 2014 nella Grande moschea di al-Nurri, a Mosul. Il dibattito sul termine “Stato” non è mai cessato da allora.
Se la parola sta ad indicare un territorio delimitato al cui interno un’autorità sovrana fa regnare le sue leggi su una popolazione stabile, dispone di un esercito, di una moneta e di un’economia, lo SI somiglia ben più a uno Stato che non a certe entità oggi (più o meno) riconosciute internazionalmente (Liberia, Somalia, Yemen, Vaticano, Lussemburgo, Libia, Sud Sudan, ecc.) e ben poco a un gruppo terrorista.
Solo l’instabilità dei suoi confini contrasta con il modello statuale occidentale, ma non è in questione solo la guerra:
«Forse la parola araba “Dawla”, generalmente impiegata in arabo per dire “Stato” e che serve all’acronimo “Daesh” si può tradurre esattamente con “Stato”? Nella storia del mondo arabo e di quello musulmano il termine contraddistingue in effetti forme di governo che non hanno molti nessi con la storia occidentale della parola Stato, la quale rinvia all’idea di “statica”, di territorialità, di confine, di sovranità, di distinzione tra politico e sociale, in breve a ben altra cosa rispetto a quel che ha lastricato la storia del mondo musulmano» (Bernard Badie).
Sulla questione della forma, lo SI ha già risposto:
«Quanto a coloro che vogliono passaporti, confini, ambasciate e diplomazia non hanno capito che i seguaci della religione di Ibrâhîm [al-Baghdadi] non credono in questi idoli pagani e sono ostili ad essi […] Noi vogliamo ristabilire lo Stato Profetico e quello dei quattro Califfi ben guidati; non lo Stato Nazione di Robespierre, di Napoleone o di Ernest Renan» (Dar al-Islam).
Lo SI gestisce un territorio di 300.000 km2, con una popolazione di 8-10 milioni di abitanti. Non ha tardato a installare (o a trasformare) le istituzioni del territorio che controlla. Queste sono strutturate intorno a un’amministrazione centrale ristretta (7 ministri intorno al Califfo), con un Consiglio di guerra e 7 governatori di province, ognuno assistito da una shura [consiglio di consulenti]. Le due grandi zone (Siria e Iraq) dispongono di un’assemblea consultiva composta da imam, predicatori, notabili delle citta e capi-tribù, in cui tutte le voci non hanno lo stesso peso, pur ricercando il consenso. La democrazia, invenzione occidentale e “idolatra”, è rigettata e si ritiene inutile il potere legislativo: basta la sharia [letteralmente, “via”: il complesso di norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica]. Raqqa (200.000 abitanti) è di fatto la capitale amministrativa, Mosul (2,5 milioni) la capitale religiosa.
Quando si impossessa di un territorio, lo SI restituisce il potere a protagonisti locali (o li si conservano al loro posto se ci si fida di loro): capi tribali, di clan, leader di quartiere, purché facciano atto di obbedienza esclusiva allo SI, non inalberino altro vessillo che il suo e rispettino le sue ingiunzioni in materia di costumi. Quanto al fatto che l’amministrazione del Califfato si imponga freddamente con la violenza e l’arbitrio, non è certo una ragione per privarla del nome di Stato, al contrario.

Una repressione straordinaria… e ordinaria
Lo SI è uno dei regimi più repressivi di una regione piuttosto ben fornita in materia, ma è soprattutto l’unico che faccia una simile ostentazione di “atrocità”. Per società occidentali che hanno conosciuto una “de-brutalizzazione” questo non può che essere opera di “barbari”, di chi cioè non parla la “nostra” lingua.
Eppure, nelle zone che controlla, lo SI ristabilisce una forma di Stato di diritto, rispondendo così «alle aspirazione di protagonisti locali». In Iraq ha cacciato le truppe sciite, considerate dalla popolazione un’abominevole arma d’occupazione, una “check point army” la cui presenza comportava soltanto esazioni, violenze, furti, sequestri, corruzione generalizzata e insicurezza. In una città come Mosul, dove regnavano tangenti e clientelismo, e una miseria massiccia accanto a inesplicabili sacche di prosperità, la prime misure del nuovo regime, altamente simboliche, poco onerose e molto mediatizzate, sono la destituzione e l’esecuzione pubblica dei corrotti. Gli abitanti lo constatano: «è incontestabilmente qualcosa di meglio rispetto alla precedente situazione, diventata invivibile».
Se l’ordine regna a Mosul, è anche perché la repressione è spietata. Tuttavia, lungi dall’essere dettata da una micidiale follia incontrollata, risponde a fredde logiche statuali e amministrative, e trova una legittimazione in un’interpretazione letterale del Corano e molto rigorista degli Hadith (atti e parole del Profeta). L’abominevole repressione, ultramediatica, dipende infatti da tre diversi registri:
1. Politico-mediatico – Si tratta dell’esecuzione di ostaggi messi in scena dai media del Califfato per spaventare gli occidentali.
2. “Crimini di guerra” – Si tratta di massacri, anche qui molto mediatizzati, commessi dallo SI nelle ore e nei giorni successivi alla conquista di una città o di nuovi territori. Oltre alle esecuzioni di seguaci o sbirri di altri regimi, o anche di militanti democratici scampati a tutti i gruppi precedenti, la nuova amministrazione califfale non può ignorare le minoranze religiose ancora presenti: a) le genti del Libro (i cristiani) si vedono proporre tre possibilità: conversione, statuto di dhimmitudine [termine di recente conio, da “dhimmi”, “protetto”] (cittadini di serie B, ma protetti), o esilio. Molti hanno scelto l’ultima soluzione anche prima dell’avvento dello SI; b) i “pagani” (ad esempio gli Yazidi) non sono neanche considerati esseri umani e non hanno perciò alcun diritto. Vanno uccisi o ridotti in schiavitù; c) gli apostati (atei o convertiti) meritano semplicemente la morte. Lo SI fa un uso frequente del takfir, procedimento che consente di togliere la qualifica di musulmano a un avversario e di trasformarlo in apostata (è il caso degli sciiti, ma anche di quasi tutti i sunniti che si oppongono allo SI).
Benché lo SI si assegni lo scopo di applicare rigorosamente quel che a suo avviso riguarda le prescrizioni coraniche, si tratta solo di teoria. Nella pratica, in occasione dei combattimenti, l’inquadramento e la disciplina non è ancora del livello più alto e sono frequenti “sbavature” ed “esazioni”.
Quanto al ripristino della schiavitù, è una conseguenza delle vittorie militari. Donne e bambini catturati (“miscredenti”) sono considerati parte del bottino, che va equamente distribuito (o perlomeno il ricavato della loro vendita). Le vittime vengono quindi trasformate in domestiche e/o “concubine” (alcune sarebbero state acquistate da mezzani turchi). Anche qui, lo SI è convinto di osservare alla lettera le indicazioni del Corano che inquadrano questa pratica.
1. giustizia ordinaria – Per molti commentatori, la giustizia quotidiana e correzionale è il servizio che funziona nel modo più efficace nel Califfato. Giudici religiosi, i qadi, sono stati nominati su tutto il territorio e si sono insediati nei Palazzi di Giustizia.
Le pene inflitte variano: ammenda, confisca, flagellazione pubblica o meno (ad esempio, per aver fumato una sigaretta), prigione, amputazione (per un ladro), esecuzione secondo varie tecniche (per adulterio, omosessualità, stupro, corruzione, ecc.). Essendo l’effetto ricercato dissuasivo ed esemplare, le esecuzioni sono pubbliche, e i cadaveri vengono esposti. Il calo della delinquenza e della criminalità sarebbe notevole. Si ritrovano aspetti di queste pratiche in certi paesi musulmani, in particolare l’Arabia Saudita.
Agli occhi della popolazione, la giustizia godrebbe della “fama di imparzialità”. I media dello SI propongono evidentemente degli esempi che mostrano come i jihadisti non godano di favoritismi: qui un colpevole crocifisso per corruzione, là un combattente giustiziato per furto.
I qadi dispongono di una polizia incaricata di applicarne le decisioni. Un’altra unità, i muhtasibîn [sorta di “ispettori”], fa rispettare la hisbah (“verifica” di quel che è conveniente o meno, secondo il Corano). Questa polizia dei costumi, resa famosa dalla presenza al suo interno di donne jihadiste europee, sorveglia anche i mercati.
Senza dimenticare la polizia politica segreta, l’Anni, e il divieto di manifestare. Il controllo e la sorveglianza della popolazione sembra particolarmente temibile e alcuni esperti vi vedono anche la “zampa” di ufficiali iracheni addestrati alle tecniche dell’ex Blocco dell’Est. Gli oppositori stanati vengono giustiziati in maniera esemplare e, ormai è chiaro, “se rispettate le loro regole senza protestare, nessuno se la prenderà con voi”. Eppure, per efficace che sia, una politica repressiva non basta a garantire la perennità di un regime.
Le informazioni disponibili sono frammentarie, speso aneddotiche e riguardanti il più delle volte Raqqa o Mosul. La realtà è sicuramente ben diversa nelle campagne o da una città all’altra, in funzione dell’anzianità dell’avvento dello SI, del grado di appoggio o di resistenza delle tribù e delle popolazioni, della distanza dal fronte o della sua vicinanza. Le nuove regolamentazioni possono applicarsi, ad esempio, in maniera progressiva. Per le vie, quel che colpisce è sicuramente il nero delle donne. Le nuove regole legate ai costumi, alla religione (divieto del tabacco, dell’alcool e della droga), ma soprattutto quelle concernenti la condizione femminile, sono quelle che si conoscono meglio.
La situazione delle donne, infatti, è progressivamente peggiorata in Iraq dopo il primo embargo del 1990 e soprattutto dopo il 2003. Sicuramente lo stesso accade in Siria dal 2011, dove la maggior parte delle zone “liberate” da Assad sono nelle mani di gruppi armati islamisti.
Otre a un rigidissimo codice sull’abbigliamento imposto fin dalla più tenera età (velo obbligatorio per le bimbe a partire dal terzo anno di scuola), le donne non possono circolare nelle città del Califfato senza la presenza di un tutore maschio. Le uniche impiegate donne autorizzate a spostarsi fuori casa sembrano legate al settore della sanità e dell’istruzione. Va notato cha, al contrario dell’Arabia Saudita, le donne sono autorizzate a guidare. Anche agli uomini è richiesto uno sforzo nel vestire, in particolare evitando le tenute giudicate troppo occidentali o alcuni abiti di marca.
Le vie delle grandi città dove la polizia scruta gli abiti appaiono comunque brulicanti e rumorose, le bancarelle e i negozi sono pieni di clienti, l’attività commerciale procede a pieno ritmo. Non è il business quello che vuole sconvolgere lo SI, piuttosto l’apparenza e la superfice per rimetterla in ordine con l’autorità divina. Le giornate sono così scandite (perturbate secondo alcuni commercianti) dalle cinque preghiere quotidiane, e poi ci sono agenti che regolano il traffico agli incroci, nuove targhe metalliche, un calendario lunare, ecc.
Lo SI presta inoltre particolare attenzione alla sicurezza e al miglioramento dell’approvvigionamento, come pure al ribasso dei prezzi delle derrate alimentari: di qui il controllo di mulini e panifici, un tempo pubblici in Siria. Mentre un’Autorità di protezione dei consumatori, nata da poco, vigila sull’igiene e la qualità dei prodotti, i muhtasibîn sorvegliano i prezzi nelle strade e nei supermercati: si può essere perseguiti anche per “speculazione e accaparramento”.
Se viene conquistata una città, come ogni esercito di occupazione conseguente, lo SI ha fra le sue priorità quella di ristabilire il funzionamento dei servizi pubblici. Gli impiegati delle aziende pubbliche e i funzionari sono stimolati a rimanere nel loro posto di lavoro e viene assicurato loro il versamento degli stipendi all’occorrenza (e con maggior regolarità che non sotto il regno di Nuri al-Maliki). Lo stato civile riprende a funzionare, appena il tempo di tener conto delle modifiche legali (ad esempio, l’autorizzazione al matrimonio per le ragazze di nove anni).
Lo Stato islamico cerca di ricostruire le infrastrutture danneggiate dalla guerra, ma lancia anche nuovi progetti che vengono valorizzati nella sua stampa: riparazione di ponti e circuiti elettrici, creazione di linee di trasporti pubblici a prezzi ridotti, servizi postali restaurati, ecc. Al momento della presa di Palmira, appena concluse le esecuzioni, lo SI ha spostato sul posto tecnici per riallacciare la rete elettrica e le connessioni Internet. I funzionari della città hanno avuto in anticipo i loro stipendi ed è stato installato nuovo materiale medico nell’ospedale. A Raqqa, realizzazione emblematica, il palazzo del governo è stato trasformato in ospedale. In alcune zone periferiche a volte abbandonate dai precedenti regimi, lo SI è riuscito a «beneficiare di significativi effetti di contrasto nel suo rapporto con la popolazione» finanziando una campagna di vaccinazione, la costruzione di dispensari, di pozzi e di scuole.
L’istruzione è un’altra delle priorità ostentate. Il regime insiste sulla necessità di riaprire scuole e università, specie nei rami scientifici e tecnici. Ha creato una facoltà di medicina a Raqqa, dove alle donne è riservata un’università scientifica. Quanto ai programmi scolastici, hanno subito una brusca riforma ispirata al modello saudita.
Quanto alle immagini che circolano, di bambini e giovani adolescenti che ricevono una formazione militare di cui si ignora il contesto: completo abbandono scolastico o (più verosimilmente) corso settimanale?
La propaganda del regime, tuttavia, mostra anche jihadisti che portano al mare bambini sorridenti che giocano insieme, ragazzini al volante su auto-scontri o che giocano su gonfiabili giganti nei parchi. Si sa inoltre che a Mosul si è organizzata una «giornata del divertimento» con distribuzione di palloni (sic) e gare di recitazione del Corano…

 

Un programma sociale
I video di esecuzioni sono solo una parte della propaganda dello SI veicolata da Internet: esiste anche un risvolto sociale e caritativo.
È un classico per i movimenti islamisti (di opposizione) mettere in piedi programmi di aiuto ai meno favoriti. Quello dello SI è di grande ampiezza e le misure annunciate sono varie: sussidi per le famiglie più povere (a Raqqa, città abbandonata da Damasco, 10 dollari per ogni bambino, oltre a 250 dollari all’inizio dell’inverno), apertura di mense, distribuzione di cibo, controllo o riduzione dei prezzi dei generi di prima necessità, un tetto massimo per gli affitti, assegni familiari, premio al matrimonio e ad ogni nascita, sussidi alle famiglie di soldati morti in combattimento, ecc.
Lo SI si procura così la pace sociale e il sostegno della popolazione, ma questo rientra anche nel suo disegno politico. I jihadisti incaricati dell’amministrazione di un territorio, pur crocifiggendo gli oppositori, hanno anche il dovere di vegliare sulla stragrande maggioranza della popolazione, che rispetta la loro interpretazione della sharia e che, in certa misura, può beneficiare anch’essa delle conquiste militari.
C’è per forza di cose un divario tra un programma e la sua realizzazione. Tanto più che lo SI, per la sua stessa legittimazione religiosa, non può sconvolgere l’ordine stabilito (da Dio) prendendosela con le differenze di reddito, di classe, con le gerarchie (a volte tribali), le alleanze, ecc. Si può solo fissare l’obiettivo di limitare gli eccessi e gli abusi più clamorosi, senza con ciò soccombere a propria volta alla corruzione, e non è semplice.

L’economia califfale
Le informazioni in questo campo sono in genere frammentarie e inverificabili (si sa ad esempio che l’industria del cemento rappresenterebbe il 10% degli introiti dello SI, senza altre precisazioni); parecchi dati sono avanzati ma sono pochi i dettagli sul funzionamento delle imprese.
Lo SI disporrebbe di un patrimonio di 2.260 miliardi di dollari, il suo famoso “tesoro di guerra”; ma questa cifra copre di fatto il valore delle installazioni di petrolio e gas, delle miniere di fosfati, dei terreni agricoli e dei siti culturali presenti sul suo territorio (tra cui centinaia di milioni di dollari trovati nelle casseforti della Banca centrale di Mosul). È un dato in rialzo rispetto al 2014. Nel 2015 il bilancio statale, dell’ordine di 2,5 miliardi di euro, sarebbe diminuito, soprattutto a causa degli introiti del petrolio (calo dei corsi e aumento dei bombardamenti), anche se aumentano quelli provenienti da tasse e confische.
Abbiamo a che fare, innanzitutto, con un’economia di guerra, in zone a volte devastate dai combattimenti e svuotate in larga parte della loro popolazione. È soprattutto il caso della Siria dove, su 22 milioni di abitanti, 4 milioni sono fuggiti all’estero e 8-10 milioni hanno dovuto abbandonare le loro case; se certe città sono passate intatte allo SI, altre sono state devastate da lunghi combattimenti. Numerose fabbriche si sono trasferite in altre zone, o in Turchia.
È diverso nella parte irachena del Califfato dove economia e popolazione si sono da tempo adattate a questo tipo di situazione.
È attraverso la Turchia (e in minor misura la Giordania) che l’economia dello SI è collegata al resto del mondo; ma il suo ingresso in guerra nell’estate 2015 nonché le offensive kurde minacciano questo accesso.
Nel quadro di un’economia di guerra, lo SI sembra dar prova di pragmatismo allo scopo di rilanciare al più presto le unità produttive indispensabili per il suo sforzo militare e all’approvvigionamento delle popolazioni di cui si prende carico (poi la riscossione delle tasse), in funzione dell’urgenza, del tipo di proprietà (compagnie di Stato, che sono numerose, o private), del tipo d’azienda, delle particolarità locali. La capacità di adattamento è facilitata dall’ampia autonomia di cui godono le autorità locali.
È questo realismo, e non una volontà di liberismo economico, che spiegherebbe la privatizzazione di determinate imprese statali (senza escludere il vantaggio finanziario) o il lancio di un programma di sostegno alle piccole imprese e all’economia locale. Fabbriche abbandonate dai proprietari sono sicuramente state rimesse in funzione dallo SI. Ad esempio, la gestione di certi sfruttamenti petroliferi è stata lasciata per un periodo alle imprese locali, poi in altre fasi affidata a tribù locali.
In ogni caso, lo SI sembra produrre più programmi, opuscoli, decreti, fatwa, ecc. sulle questioni di costumi che non sull’economia.

Imposte e fiscalità
Si è messo in piedi un nuovo sistema fiscale basato su regolari prelevi e procedure e tariffe formalizzate, per garantire il funzionamento dello Stato. Queste imposte, definite dai media occidentali “estorsioni” o “racket”, costituiscono almeno un terzo delle risorse dello SI. Esse comprendono la Zakât, un’elemosina legale e terzo pilastro dell’islam, con forme diverse, a volte pagata in natura dai contadini; la Sadaqa, dono volontario ai bisognosi, e la Jizya, l’imposta dei dhimmi [i non-musulmani], pesante ma progressiva in base al reddito (si parla di un’imposta dai 60 ai 250 dollari mensili a Mosul).
Numerosissimi tasse esistono (alcune riguardanti la Zakât), ad esempio su: le imprese, il reddito delle imprese di nuova creazione, le telecomunicazioni, la protezione dei commerci, i vari trattamenti pensionistici, i salari (5% per la protezione sociale), i tributi versati da Damasco o Bagdad (50%), i prodotti alle frontiere, i cammelli, i pedaggi, ecc. Questa fiscalità sostituisce quella dei precedenti regimi, ma anche le “mance” sottobanco, prima obbligatorie.
Le “estorsioni” comprendono numerosi casi di confisca: di denaro per mancato rispetto delle regolamentazioni (sull’alcool o sulle sigarette) e di case, terre, macchine o bestiame in seguito all’abbandono da parte dei proprietari.
L’aumento degli introiti fiscali nel 2015 ha due cause: le difficoltà del regime costretto ad aumentare le tasse esistenti e un miglioramento dell’amministrazione e della riscossione.

Risorse straordinarie e “criminali”
Si tratta di somme versate da donatori privati del Golfo (in questo hanno un ruolo rilevante i legami tribali), riscatti di ostaggi, vendita/riscatto di schiavi, e del commercio di materiale archeologico (o meglio dell’inquadramento di questo traffico). Spesso legate a conquiste militari, queste risorse tendono ad esaurirsi.
Circolano molteplici voci su vari traffici (sigarette, droga, organi) e attività mafiose in contrasto con l’ideologia ostentata dal regime. La cosa più certa sembra la tassazione di alcune filiere preesistenti (ad esempio quella del Captagon [la cosiddetta “droga del “jihad”]).

Banche
Lo SI è dotato di una banca di Stato e di una moneta ufficiale: dinaro, dihrams e fulus califfali sotto forma di pezzi in oro, argento e rame (il valore di un pezzo sarebbe quello del valore intrinseco del metallo di cui è composta). Non si sa nulla sul suo impiego reale, se non che è poco probabile.
Lo SI controlla sul proprio territorio varie decine di istituti bancari, alcuni dei quali continuano a effettuare operazioni commerciali, incluso transazioni internazionali. Le banche di Mosul, succursali di istituti con basi nel Golfo o a Bagdad, hanno continuato (e forse continuano ancora) a funzionare normalmente.
In ogni caso, il regine si scontra con alcune difficoltà di cambio: se i suoi redditi vengono incassati in dollari, euro, lire turche o siriane, salda in dollari le proprie fatture.

Agricoltura
Rappresenta tra il 7 e il 20% degli introiti del Califfato, che controlla le fertili vallate del Tigri e dell’Eufrate, dove si producevano il 50% del grano siriano, un terzo di quello dell’Iraq (l’ottavo produttore mondiale) e circa il 40% dell’orzo iracheno.
Anche qui, la guerra è un fattore importante nelle regioni fortemente agricole (nel governatorato di Raqqa, il 50% della popolazione lavora in questo settore). Molti contadini sono fuggiti (soprattutto cristiani o kurdi) abbandonando fattoria e terre. Lo SI se ne è impossessato, ma alcuni campi restano incolti. Il controllo della produzione agricola è vitale perché permette al regime di stabilire i prezzi della farina e quindi del pane, base dell’alimentazione.
Lo SI controlla anche larga parte dei campi di cotone siriani, la cui vendita costituirebbe l1% delle sue riscossioni. L’esportazione di questa fibra è meno facile di quella del petrolio, ma la principale destinazione è la stessa: infatti, il 6% delle importazioni turche avrebbe origine nei campi del Califfato. Di che produrre un quinto delle magliette made in Turkey (vale a dire l’1,2% di quelle vendute in Francia).

Varie
Ancorché lo SI si sia impossessato della maggioranza delle miniere di fosfato (indispensabile per la fabbricazione di fertilizzanti), non dispone di mezzi per rilanciare l’insieme della produzione e gli è difficile venderla. Questo comunque rappresenterebbe il 10% dei suoi introiti. Controlla anche siti di estrazione di zolfo in Siria e in Iraq, nonché numerosi cementifici.

Idrocarburi
Se nel 2003 le compagnie americane hanno soppresso tutti i contratti iracheni, hanno poi dovuto affrontare la concorrenza di BP, Lukoil e soprattutto della Cina che, dal 2008, ha investito decine di miliardi nel petrolio iracheno, diventando il primo cliente e il primo investitore nel paese. Attualmente, il 50% della produzione è esportato in Cina (una cifra che dovrebbe raggiungere l’80% nel 2035), e si progetta di costruire due oleodotti fra i due paesi. Oltre 10.000 lavoratori cinesi erano presenti sul posto prima dell’irruzione dello SI.
Mentre gli Stati Uniti cercavano di disimpegnarsi militarmente dalla regione, l’accentuazione del caos iracheno colpiva soprattutto gli investimenti cinesi (già cacciati dalla Siria per la guerra). Solo nell’agosto 2014, quando lo SI ha minacciato le zone petrolifere sotto contratto con compagnie americane (Kurdistan e Sud dell’Iraq) e Bagdad (il cui crollo sarebbe stato catastrofico per tutta la regione) l’US Air Force è stata costretta a intervenire.
Lo SI controlla il 60% del petrolio siriano e dal 10 al 15% di quello dell’Iraq (questo ultimo dato è certamente sceso dopo il ripiegamento delle truppe dello SI nell’autunno 2015). La produzione del 2015 si stima tra 20.000 e 50.000 barili di petrolio al giorno, di contro almeno ai 70.000 dell’anno precedente: è una goccia d’acqua rispetto alla produzione regionale (la Siria produceva 385.000 barili al giorno nel 2010). Il petrolio, venduto al 50-60% in meno rispetto al prezzo di mercato, rende tra 1 e 1,5 milioni di dollari al giorno, ossia tra 350 e 600 milioni di dollari l’anno. È la principale risorsa dello SI (stando alle fonti, tra il 25 e il 40% ), ma si riduce per il calo del prezzo di mercato e dei bombardamenti occidentali.
Del resto, Daesh recluta pagandolo caro personale competente (tecnici, ingegneri, operatori finanziari…) in Siria e in Iraq, ma anche all’estero, per migliorare la produttività dei suoi siti che vanno invecchiando. Lo Stato Islamico si è dato l’obiettivo di arrivare al doppio dei rendimenti ottenuti in campo petrolifero prima che se ne impossessasse.
Lo SI si occupa quasi esclusivamente del petrolio grezzo, venduto direttamente ai pozzi a commercianti autonomi, a contrabbandieri, o a semplici proprietari di camion, che portano via petrolio per la raffinazione, il consumo locale (60-70%), o l’esportazione. In ottobre e novembre 2015, i bombardamenti americani avrebbero distrutto centinaia di questi camion. Del pari, essendo stati distrutti dalla coalizione i grandi impianti di raffinazione, come molte delle raffinerie artigianali (mobili), lo SI si rivolge a raffinerie private, di cui tassa la produzione. In Siria, tramite il pagamento di tasse, alcune compagnie petrolifere private sono riuscite a continuare a lavorare in zone controllate dallo SI. L’esportazione, di contrabbando, avviene verso la Giordania, la Turchia, o verso zone occupate da gruppi nemici, attraverso una miriade di camion, a volte a dorso d’asino o di cavallo, oppure utilizzando mini-oleodotti artigianali. In Iraq il traffico di petrolio è una pratica che risale all’epoca dell’embargo, se non ancora più in là.
In Siria, il controllo dell’estrazione dà luogo a numerosi conflitti tra gruppi ribelli per la spartizione di questa importante fonte di proventi. Lo stesse vale per gli sfruttamenti di gas, che consentono la fornitura di questo idrocarburo e di elettricità alle popolazioni.
Questo lascia anche campo libero a traffici sorprendenti. Il petrolio estratto sul territorio dello SI può essere venduto ai suoi nemici: ad altri gruppi, al regime di Damasco o al Rojava: La presa di una centrale elettrica nei pressi di Palmira ha costretto Raqqa e Damasco a mercanteggiamenti, poiché nessuno controlla l’intera filiera dalla produzione alla distribuzione. Nella zona di Dair ez-Zor, lo SI ha affidato l’estrazione di petrolio e di gas alle tribù locali, che recuperano parte dei profitti, ma vendono parte della produzione al regime di Assad per premunirsi dalle rappresaglie aeree. Attenti al sabotaggio degli oleodotti da parte di tribù tagliate fuori dal gioco!

Nient’altro che uno Stato?
Costruire uno Stato mentre si sta facendo la guerra a quasi tutte le potenze del pianeta è tutt’altro che facile. Quello che abbiamo appena descritto è meno un quadro economico-sociale dello Stato islamico in un momento dato che non l’abbozzo di un processo che, grosso modo, va dall’estate del 2014 a quella del 2015. È in questo periodo – che sarà forse considerato un giorno come quello dell'”apogeo” del Califfato, quello della sua massima espansione – che lo SI lancia la costruzione di un suo Stato, della sua amministrazione, cercando di rilanciare l’economia e garantendo al tempo stesso un livello di vita sopportabile alla propria popolazione.
Questo periodo si è probabilmente concluso e il processo è passato ormai a n’involuzione. Tranne sorprese eclatanti, la progressiva implicazione della Turchia nel conflitto, l’intervento militare russo (ottobre 2015) e quello in crescita degli Occidentali (estate-autunno 2015) dovrebbero entro qualche mese regolare la questione dell’esistenza territoriale dello SI in Iraq e in Siria. Ormai tutti gli indicatori stanno passando al rosso e i dati delle tabelle di produzioni e statistiche sopra citate saranno scesi di molto alla fine del 2016.
Ci chiedevamo all’inizio “Perché funziona”? E abbiamo visto che la sopravvivenza e l’espansione di questo regime non si spiegano solo con le sue capacità militari e poliziesche. Alcuni parlano anche di “Stato provvidenza”.
Tuttavia, il fatto è che il Califfato non è solo e banalmente uno Stato. Non contento di amministrare, pretende di trasformare il mondo, instaurare una nuova era o prepararne l’avvento… Un’era in cui per lo SI non si tratterebbe, evidentemente, di abolire il lavoro salariato o la società mercantile, ma semplicemente di rimodellarli a suo modo. «Perché tutto resti come prima occorre che tutto cambi» (qui, il «come prima» ha rilevanza): la superfice, i costumi, le abitudini, ecc. Certamente. Ma oggi, per migliaia di abitanti dell’Iraq e della Siria, e ben oltre, la speranza si chiama Califfato. E decine di migliaia di giovani, soprattutto molti giovani proletari, attraversano il pianeta per andarci a vivere o a morire, e molti altri ne vagheggiano. Non è forse una speranza disperante?

Postilla Antonio Moscato. Questa è solo la prima parte di un saggio molto lungo di un compagno francese libertario. Ho tagliato la seconda parte sia per la lunghezza, sia perché meno interessante perché costruito su ipotesi sul futuro assetto dell’area che su dati concreti. È comunque leggibile su http://ddt21.noblogs.org/files/2015/12/Califat-et-Barbarie.Deuxi%C3%A8me-partie-Copie-2.pdf