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apollutionIn un articolo a caldo sui risultati della COP21, mi interrogavo sul seguente paradosso: mentre la pericolosità del cambiamento climatico si concretizza più velocemente di quanto prospettato nei modelli, l’anno in cui gli specialisti stimano che le emissioni mondiali di gas serra dovrebbero cominciare a diminuire per restare al di sotto dei 2°C di riscaldamento sembra arretrare, dando l’impressione che il rischio è stato sovrastimato, che tutte le soluzioni per evitare una catastrofe restano aperte e resteranno tali ancora per un certo tempo.

 

Il paradosso del picco

Ecco le componenti di questo paradosso del picco. Per non superare 2°C di riscaldamento rispetto al 18° secolo, il quarto rapporto del GIEC/IPCC (2007) considerava che il picco delle emissioni doveva prodursi al più tardi tra il 2000 e il 2015. Il 5° rapporto (2013,GT3), dà indicazioni un po’ diverse, per regioni: 2010 nei paesi dell’OCSE, 2014 nei paesi dell’ex blocco dell’Est, 2015 in America Latina, 2020 in Africa, in Asia e nel Medio Oriente. Soprattutto, questo 5° rapporto sembra dare al picco meno importanza di quello precedente. La stessa impressione si ricava alla lettura della nota di sintesi sui piani climatici dei governi del pianeta (gli INDC Intended Nationally Determined Contributions), che un gruppo di esperti, messo assieme al vertice di Durban (2011), ha elaborato per i negoziatori della COP21: questo documento cita la possibilità di restare sotto i 2°C anche se le emissioni mondiali culminassero solo nel 2020, 2025, o persino nel 2030. (vedi UNFCCC, Durban Platform for Enhanced Action, “Synthesis report on the aggregate effect of the intended nationally determined contributions” – in inglese)

La spiegazione del paradosso è la seguente: le proiezioni (in particolare sull’anno del picco) si fanno con l’aiuto di scenari che si introducono nei modelli climatici. Tali scenari conmprendono diverse ipotesi socioeconomiche ma anche tecnologiche: riforestazione, sviluppo delle rinnovabili, del nucleare, della cattura-sequestro del carbonio, ecc. Ora, tra il 4° e il 5° rapporto dell’IPCC, le squadre di ricerca che elaborano gli scenari hanno per la maggior parte deciso di aggiungere una novità: le «tecnologie a emissioni negative» (TEN), in altri termini dei sistemi in grado di ritirare CO2 dall’atmosfera. Sulla carta, questo permetterebbe di superare il «bilancio del carbonio a 2°C» per i prossimi 20-30 anni, puntando sul fatto che tale superamento sarà compensato in seguito, tra il 2050 e il 2100. (Si chiama «bilancio del carbonio X°C» la quantità di gas serra che si può ancora inviare nell’atmosfera con una probabilità data di restare sotto X°C di riscaldamento. Per il periodo 2011-2100 e una probabilità del 66%, l’IPCC la stima a 1000Gt peer 2°C. Al ritmo attuale delle emissioni, questo bilancio sarà esaurito in un quindicina d’anni) Di conseguenza, l’anno del picco può andare indietro.

Richiamo sull’ampiezza della sfida

Se si bruciano combustibili fossili si libera CO2. Se si bruciano dei fossili ma si cattura la CO2 e la si inietta sotto terra per immagazzinarla negli strati profondi, si può sperare di ridurre più o meno fortemente le emissioni (ma non le si può sopprimere totalmente: da una parte ci sono delle fughe – circa il 10% – d’altra parte l’iniezione consuma una bel po’ di energia, e quella impiegata oggi è fossile per oltre l’80%). Se si sostituiscono i fossili con energia eolica o solare (o con il nucleare) non ci sono (quasi) più emissioni nella fase dei convertitori, ma bisogna tenere conto dei fossili bruciati in altre fasi, e di quello che si chiama il «ciclo di vita» dei prodotti. Nel caso del nucleare, in particolare, l’estrazione del combustibile, la raffinazione, la costruzione delle centrali, il loro smantellamento, ecc. sono operazioni energivore, forti emettitrici di CO2.

Ci si può proiettare nel futuro, immaginare un mondo in cui l’energia sarà al 100% di origine rinnovabile – compresa l’energia necessaria alla produzione di eoliche e di pannelli solari – e concludere che in quel mondo le emissioni «antropiche»di gas serra potrebbero essere (quasi) nulle. Ma è aggirare l’ostacolo. Concretamente, vale a dire tenendo conto del fatto che la transizione all’inizio si fa dal sistema energetico esistente, che è in larghissima misura dominato dai fossili, raggiungere l’obiettivo «zero emissioni» (si dice anche «la neutralità in carbonio») molto prima della fine del secolo rappresenta una sfida enorme. Ma è possibile che tale obiettivo non sia sufficiente: il quarto rapporto dell’IPCC diceva già che per restare sotto i 2°C di riscaldamento potrebbe esigere emissioni negative verso la fine del secolo, vale a dire una situazione nella quale le attività umane assorbono più CO2 di quanto ne emettano. La probabilità di dover giungere a questo è ancora più grande oggi, soprattutto se si vuole non superare 1,5°C in rapporto all’era preindustriale.

L’ipotesi ecosocialista …

Ne «L’impossibile capitalismo verde», ho sostenuto l’idea che se si pensa concretamente la transizione, la sfida climatica non può essere affrontata senza mettere in discussione la crescita materiale, in particolare la crescita molto energivora nella trasformazione e nel trasporto di materie. Ricordo brevemente il ragionamento:

  • poiché bisogna sostituire completamente e a breve termine (prima dell’obsolescenza tecnica) il sistema energetico esistente con un sistema completamente nuovo, basato sulle rinnovabili, le cui caratteristiche sono molto differenti;
  • poiché la produzione degli elementi tecnici di questo nuovo sistema consuma più energia del funzionamento «business as usual»[normale] del sistema esistente;
  • e poiché questa energia, all’inizio della transizione, è fossile per più dell’80%;
  • ne risulta necessariamente che la transizione in quanto tale esige un sovrappiù di energia che implica un sovrappiù di emissioni e che questo deve essere compensato da qualche parte, se no la riduzione assoluta delle emissioni globali non è possibile.

La compensazione si può fare con un aumento della riduzione delle emissioni prodotte dalla combustione dei fossili e/o con l’aumento degli assorbimenti di gas serra su scala degli ecosistemi. La prima pista esige di sopprimere produzioni inutili o nocive, di sopprimere i trasporti inutili, di aumentare radicalmente la durata dei prodotti e l’efficienza dei processi (rifiutando la dittatura del profitto). La seconda implica di abbandonare rapidamente l’agroindustria a profitto di un’agroecologia contadina più intensiva in manodopera, che distribuisce i suoi prodotti su reti di distribuzione corte e utilizza i terreni razionalmente, favorendo la massima incorporazione di carbonio. Tale razionalità implica in particolare la restituzione dei rifiuti organici ai terreni, che avrà come effetto collaterale positivo il «phasing out»[eliminazione] dei fertilizzanti di sintesi, la cui produzione consuma molta energia e che sono fonte di gas serra.

Le difficoltà tecniche sono considerevoli, ma il problema è prima di tutto socioeconomico, dunque politico: come rendere la transizione desiderabile per la maggioranza della popolazione? È possibile, a mio parere, solo ricorrendo a un insieme di misure anticapitaliste: la riduzione radicale del tempo di lavoro senza perdita di salario, la riconversione collettiva dei settori condannati, con mantenimento delle conquiste sociali de/lle/i loro lavorat/rici/ori, una profonda ridistribuzione delle ricchezze, l’estensione del settore pubblico e la sua gestione democratica sotto controllo degli addetti e degli utilizzatori, l’esproprio senza indennizzo né riacquisto dei settori dell’energia e della finanza, l’abolizione del regime dei brevetti, ecc. Queste misure sono indispensabili affinché la riduzione della produzione materiale non sia sinonimo di disoccupazione e di degrado delle condizioni di esistenza, ma al contrario di un loro miglioramento e di una condivisione del lavoro. Tutto ciò implica un rovesciamento dei valori, una profonda ridefinizione della ricchezza umana, dunque una rivoluzione sociale nel senso vero del temine.

… e l’alternativa della tecnostruttura capitalista

Dire che questa strategia di uscita dalla crisi climatica oggi non incontra una grande eco presso la comunità scientifica è dire poco. … D’altra parte, dato che l’urgenza è quella che è, perché perdere tempo in discussioni ideologiche che rendono impossibile il consenso e paralizzano l’azione indispensabile? È quello che si sente dire quando si solleva la questione. Per la grande maggioranza dei ricercatori che lavorano sugli scenari di stabilizzazione del clima, immaginare tecnologie che ritirano la CO2 dall’atmosfera è più semplice, più concreto, più immediato e meno utopistico che immaginare cambiamenti di paradigma economico. Le TEN sembrano anche più «ragionevoli» e durevoli di altre soluzioni di geoingegneria come l’iniezione nell’atmosfera di particelle di zolfo per raffreddare il clima riflettendo i raggi del sole… (Questa «soluzione», non è quasi più evocata, poiché le particelle di zolfo ricascherebbero al suolo dopo un certo tempo sotto forma di piogge acide)

Di fatto, il «vantaggio » delle tecnologie a emissioni negative è di dare la parvenza di soluzione strutturale pur iscrivendosi interamente nella tendenza alla crescita della tecnostruttura capitalista. Grazie alle emissioni negative, il delicato problema evocato qui sopra, quello della compensazione del sovrappiù di emissioni dovuto alla transizione, è rimandato. Una cosa sembra sicura: ritirare CO2 dall’atmosfera permette di ammorbidire gli obblighi di riduzione delle emissioni e guadagnare tempo. L’obbligo sarebbe meno forte e potrebbe tanto più diluirsi nel tempo quanto più le TEN fossero efficaci. Di conseguenza, nessun bisogno di sopprimere qualsiasi produzione, di attaccare l’agroindustria, di contestare la visione capitalista del mondo, e altri sogni romantici … In breve, le TEN sono come l’uovo di Colombo, bastava pensarci …

Giro d’orizzonte parziale delle TEN

Tutta una serie di ricercatori si è quindi attivata allo studio delle TEN. Il settore delle energie fossili e i settori associati ( ad esempio l’auto) si interessano a queste ricerche e contribuiscono a finanziarle, poiché questo gli permetterebbe di bruciare più combustibili fossili. Ecco un rapido giro d’orizzonte dei principali progetti. Molti di questi sono altamente speculativi, e la maggior parte ricorre alla cattura-sequestro geologico della CO2 (una tecnologia la cui fattibilità e affidabilità a lungo temine sono anch’esse largamente speculative). Qui mi baso principalmente su un seminario internazionale sulle TEN, organizzato qualche tempo fa dalla Università di Stanford, e su una nota di lavoro dell’Imperial College britannico. Si vedrà che gli scienziati che escludono le soluzioni anticapitaliste per «realismo» sono probabilmente … piuttosto irrealisti.

Gli alberi artificiali. Sono chiamati così perché catturano la CO2 dell’aria, e senza dubbio anche per dare di loro un’immagine «verde.» Tale immagine non corrisponde alla realtà poiché la CO2, catturata su una resina speciale, non è trasformata in materia organica, come fanno le piante verdi; una volta saturata, la resina deve essere lavata con acqua per «staccare» la CO2. Questa viene in seguito compressa e iniettata in strati geologici ( bisogna quindi che gli «alberi» siano collegati da una rete di canalizzazioni). La resina può essere riutilizzata, ma il suo lavaggio richiede grandi quantità di acqua e lo stoccaggio consuma grandi quantità di energia. Ritirare in questo modo 1ppmv di CO2 dall’atmosfera (cioè 7,8 Gt) richiederebbe di installare 21,7 milioni di apparecchi (di una superficie di captaggio di 500m2 ciascuno) che consumerebbero circa il 2% della produzione energetica mondiale.

La reazione calce-soda. L’idea è la stessa degli alberi artificiali, ma qui la CO2 è catturata per reazione con soda caustica in torri di lavaggio, poi isolata con una successione di altre reazioni chimiche che fanno intervenire la calce. Il processo produce carbonato di calcio la cui calcinazione da un lato dà soda caustica (che ritorna nella torre di lavaggio), dall’altro [dà] CO2 da comprimere e stoccare geologicamente. Il consumo di energia è importante, non solo per lo stoccaggio, ma anche per la calcinazione, che si fa a 900 gradi. Occorrerebbero 1.300 torri di lavaggio di 110 metri di diametro e 120 metri di altezza (!) per ritirare annualmente 0,36Gt di CO2 dall’atmosfera (un centesimo delle emissioni mondiali). Sarebbero necessarie 2000 torri per ridurre del 10% le emissioni della Gran Bretagna.

La calcinazione degli oceani. La CO2 si scioglie spontaneamente nell’acqua, che acidifica. L’idea qui è di disperdere la calce negli oceani: questa dovrebbe reagire con la CO2 disciolta per formare del carbonato di calcio (composto principale del calcare) che precipiterebbe sui fondali oceanici. Di conseguenza, con la diminuzione dell’acidità, una quantità equivalente di CO2 atmosferica potrebbe disciogliersi nell’oceano. La tecnica si basa in parte sulle stesse reazioni chimiche di quella precedente, ma qui il carbonato di calcio non deve essere calcinato per separare la CO2 e il gas non deve essere compresso per essere stoccato. D’altro lato, bisogna produrre la calce e trasportarla in mare aperto. In teoria il potenziale sarebbe importante, ma nessuno ha la minima idea dell’impatto sugli ecosistemi marini. Altro piccolo problema: per avere un effetto significativo su scala mondiale, bisognerebbe produrre ingenti quantità di calce e raddoppiare il numero delle navi disponibili per essere in grado di disperderla in mezzo all’oceano.

La produzione di biochar [carbone vegetale] Quando si brucia biomassa in un’atmosfera povera di ossigeno (pirolisi) si ottengono da un lato un liquido e un gas che possono essere utilizzati come combustibili, e dall’altro un prodotto solido che si chiama biochar e che contiene molto carbonio. L’idea è di utilizzare il biochar per arricchire i terreni, magari anche di seppellirlo nella speranza che il carbonio non sarà liberato, ma ci sono forti incertezze ai due livelli. Malgrado le proiezioni entusiastiche di alcuni suoi sostenitori, questa tecnologia non sembra abbia un grande potenziale di emissioni negative. In più, questa può tutt’al più essere praticata localmente, su una scala relativamente modesta, cosa che la rende relativamente poco interessante dal punto di vista capitalista.

La bioenergia con cattura-sequestro del carbonio (BECCS): invece di bruciare combustibili fossili, si utilizza la biomassa, si capta la CO2 all’uscita delle installazioni e la si stocca geologicamente. Per evitare ogni interruzione di fornitura, bisogna garantire una produzione continua di biomassa. Poiché le piante verdi crescono captando la CO2 dell’aria, si può sperare di arrivare nel corso del tempo a diminuire la concentrazione atmosferica di questo gas. Dal punto di vista capitalista, il vantaggio rispetto alle altre tecnologie è che qui viene prodotta una merce: corrente elettrica da vendere sulle reti. Rispetto al biochar il vantaggio è la messa in opera su grande scala. Sul breve termine, per gli adepti delle emissioni negative, la BECCS è la soluzione per eccellenza. Il potenziale tecnico mondiale si aggirerebbe attorno a 10Gt di carbonio all’anno da ora al 2050, con un potenziale economico di 3Gt/anno. Dato che le emissioni mondiali sono un po’ superiori a 35Gt/anno e dovrebbero essere ridotte del 50% entro il 2050, il contributo della BECCS potrebbe essere non trascurabile, tanto più che gli specialisti puntano su uno sviluppo della tecnologia nel tempo (si cita la cifra di 40Gt/anno nel 2100) …

Strano «realismo»!

Ritorniamo ora agli scenari introdotti nei modelli climatici. È Kevin Anderson che svela il segreto. Il direttore del Tyndall Center on Climate Change Research rivela che il 95% degli scenari che compongono la base dati dell’IPCC puntano su un dispiegamento massiccio delle tecnologie a emissioni negative, in particolare della BECCS. Sei scenari soltanto non integrano questa ipotesi, e secondo questi il picco delle emissioni doveva effettuarsi al più tardi entro il … 2010. Ecco dunque la spiegazione del paradosso menzionato all’inizio di questo articolo. Precisiamo che, oltre alla BECCS, la maggior parte di questi scenari punta anche sul nucleare e sulla cattura-sequestro della CO2 proveniente dalla combustione dei combustibili fossili. Queste tecnologie da apprendisti stregoni disegnano anche il vero volto del «capitalismo verde». CO2 CO2

Per prendere tutta la misura del cosiddetto «realismo» che rende le ricerche sulle TEN più attraenti che la riflessione sulle alternative di società, bisogna dire una parola sulla possibile pericolosità della BECCS. La minaccia principale riguarda la concorrenza nell’uso dei terreni e delle risorse di acqua. Secondo un recente studio, ritirare dall’atmosfera 3Gt di carbonio all’anno, richiederebbe impiantare piantagioni industriali su grandi superfici, equivalenti al 7-25% della superficie agricola totale (25 al 46% della superficie coltivata in permanenza). Il progetto comporterebbe anche di aumentare del 3% i prelievi di acqua. Se le piantagioni fossero impiantate su terreni non irrigati, bisognerebbe aumentare le superfici del 40% per raggiungere l’obiettivo delle 3Gt all’anno (vedi Pete Smith e altri, “Biophysical and Economic Limits to Negative CO2 Emissions”, Nature Climate Change, Review on line, 7 dec. 2015 – in inglese).

La BECCS illustra di nuovo la propensione del capitalismo a rimandare i problemi ambientali alle generazioni future. I rischi sono enormi a più livelli: per la biodiversità, (le piantagioni industriali non sono «foreste», ma deserti verdi; per i popoli indigeni e le comunità rurali in generale, minacciate di nuovi espropri; per i salariati e i poveri, poiché la concorrenza tra colture energetiche e colture alimentari farà salire i prezzi delle seconde; per le donne, che garantiscono circa l’80% della produzione alimentare … Il fatto di utilizzare i rifiuti forestali e domestici come risorsa non è una soluzione poiché accresce la dipendenza dei terreni dai concimi chimici. In verità,uno sviluppo veramente sostenibile richiede che i rifiuti ritornino ai terreni che li hanno prodotti, come Barry Commoner raccomandava già molti decenni fa, e Liebig (seguito da Marx) 150 anni fa.

Niente panico, però

Ci sarebbero molti commenti da fare a partire da questa situazione delle TEN: a proposito della «neutralità» della ricerca scientifica, dell’affidabilità dell’IPCC, dei non detti dell’accordo di Parigi, dell’enorme capacità di nuocere delle lobby energetiche e del cinismo dei governi, in particolare. Ci ritornerò in altri contributi. Per concludere questo articolo voglio proporre un commento e una riflessione strategica relativi al rapido esaurimento del bilancio del carbonio a 2°C (e al superamento, effettivo già ora, del bilancio del carbonio a 1,5°C).

La ricerca scientifica sulla «mitigazione» del cambiamento climatico è distorta dalle ipotesi incluse negli scenari, dunque a partire da quanto le squadre di ricercatori, a partire da scelte ideologiche, considerano come fattibile o no. Kevin Anderson lo spiega chiaramente nel testo già citato: le TEN sono «altamente speculative», è necessario un cambiamento di paradigma socioeconomico, la sfida del cambiamento climatico non può essere affrontata nel quadro del sistema attuale, è necessaria una rottura di tipo «rivoluzionario». Tuttavia, per quanto ne so, nessun ricercatore ha ancora avuto la buona idea di basarsi su questa importante osservazione di metodo per elaborare uno (o più) scenario(ri) alternativo(i), che includano tutti o una parte degli elementi di rottura anticapitalista citati sopra. Chissà: forse questa constatazione darà delle idee a qualcuno?

Comunque sia, non dobbiamo cedere al panico, allo scoraggiamento o al cinismo. Il fatto che gli attuali modelli climatici dicano che non è possibile rimanere sotto i 2°C (tanto più 1,5°C) di riscaldamento senza il nucleare, senza cattura-sequestro e senza spiegamento massiccio delle TEN non vuol dire … che è impossibile. Vuol dire che è impossibile nel quadro dei modelli climatici attuali. Ora, questi sono tutti basati sul paradigma capitalista, dunque sulla crescita, la concorrenza, il profitto, ecc. Come dice il rapporto dell’IPCC: «I modelli prendono l’economia (sic) come base per la presa delle decisioni. (…) In questo senso, tendono a descrizioni del futuro che sono normative e focalizzate sull’economia (sic). I modelli suppongono tipicamente dei mercati che funzionano pienamente e un comportamento di mercato concorrenziale».

Fuori della lotta non c’è salvezza

Si può solo dire con certezza la cosa seguente: nel quadro del capitalismo, il bilancio del carbonio per non superare 1,5°C di aumento della temperatura è già superato, e anche il bilancio 2°C (salvo forse se si ricorre massicciamente alle TEN). Si può anche dire, con altrettanta certezza, che il modo in cui i dirigenti capitalisti prospettano di gestire la situazione sarà fonte di nuove distruzioni sociali ed ambientali, e che la barbarie minaccia. Rimane, più che mai, un campo di lotte. La lotta contro i grandi lavori di infrastrutture al servizio dei fossili. La lotta contro i progetti estrattivisti delle compagnie dei fossili e contro lo sviluppo dell’energia nucleare. La lotta contro i progetti BECCS e i meccanismi di «compensazione forestale» come i REDD+, ecc. La lotta contro la disoccupazione, con l’estensione del settore pubblico al servizio della causa climatica. La lotta per un’agricoltura contadina organica di prossimità, che ritira la CO2 dall’aria mentre produce alimenti di qualità per tutte e tutti. Senza dimenticare la lotta per la pace, che le grandi associazioni ecologiste non menzionano mai, mentre la produzione di armi e il loro utilizzo sono una fonte importante di emissioni dirette e indirette di gas serra.

Non voglio dire che ci resta del tempo e che sarà facile. Ci resta pochissimo tempo, e il vero realismo impone ahimè, di constatare che la rivoluzione ecosocialista mondiale non sta per scoppiare, cosicché tutto è incredibilmente difficile. Ma la difficoltà può essere superata solo con l’azione collettiva, con i dibattiti, le convergenze, le tensioni e gli scontri che tale azione susciterà, compreso nel «campo» dell/e/i sfruttat/e/i e oppress/e/i.

Never give up, never surrender. [Mai mollare, mai arrendersi]

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