Jonah Birch: Alla Festa del NPA-Parigi (giugno 2015) hai sostenuto che la politica francese, in quel momento, era chiusa con il catenaccio. Vorrei sapere cosa intendevi con quell’espressione e quali sono a tuo avviso le dinamiche in Francia…
Olivier Besancenot: Diciamo che, dal punto di vista della radicalità e della contestazione, la Francia è in ultima fila in Europa. Prendiamo gli inizi del decennio 2000; ci sono stati importanti avvenimenti politici: la vittoria del NO da sinistra al Trattato sulla Costituzione Europea TCE), l’anno successivo la vittoria della mobilitazione sociale contro una misura, il CPE (Contratto di primo impiego), riguardante la precarietà giovanile. Vanno anche ricordate le ribellioni dei quartieri popolari nel 2005.
In certo qual modo, si era un po’ l’epicentro della contestazione, ma non c’è stato sbocco, né sociale né politico, e un capitolo sociale si è chiuso con la grande sconfitta nel 2010 sulla riforma delle pensioni, dopo l’importante movimento basato, del resto, più su manifestazioni sociali che su scioperi, e tuttavia con manifestazioni di un’ampiezza sconosciuta in Francia dopo il Maggio ’68. Per noi, si è trattato di qualcosa come il movimento degli “Indignati” in anticipo, tranne che non ci sono stati – o quasi – auto-organizzazione, movimenti dal basso, e non c’è stata l’insistenza sui temi democratici, mentre per questo c’erano tutti gli ingredienti nella società francese; un movimento assunto dalle vecchie organizzazioni del movimento operaio, che ha subito la sconfitta. Chiaramente, è stato duro dal punto di vista delle combattività e, politicamente, non c’è stato sbocco per le battaglie vinte, neanche per il NO da sinistra al TCE, che aveva creato non poche aspettative quanto alla possibilità di costruire una nuova rappresentanza politica, nell’accezione generale del termine.
Sono quindi quasi 25 anni che in Francia si è alla ricerca, in un modo o nell’altro, di una nuova federazione delle forze anticapitaliste, con speranze che travalicano le cerchie militanti. Una speranza che ha potuto incarnare Lutte Ouvrière (LO), un’organizzazione di estrema sinistra che ha avuto grandi successi elettorali negli anni Novanta, che ha incarnato in un determinato momento il NPA, o anche il Fronte di Sinistra [di Mélenchon], sia pure in modo diverso. Con parametri che non sono mai gli stessi, con speranze che non sono formulate allo stesso modo, e orientamenti differenti, c’è un medesimo spazio che viene puntualmente occupato e che ogni volta non riesce a trovare sbocchi. C’è dunque un problema più sostanziale, e adesso in Francia abbiamo ormai più problemi che risposte.
Per quanto ci riguarda, quando nella LCR, con Daniel Bensaid che aveva formulato la proposta, è emersa l’idea di provare a disporre di un nuovo strumento politico – perché se si dice nuovo programma si dice nuovo strumento per farlo vivere, quindi nuovo partito – sapevamo che occorreva un punto di equilibrio tra, da un lato, il vecchio, cioè tutto quel che può venire dalle “vecchie” organizzazioni sociali, sindacali e politiche, gli elementi di ricomposizione e, dall’altro lato, il nuovo, vale a dire le nuove forme di lotta, di radicalizzazione e di appropriazione della politica. Ma la saldatura, malgrado occasioni in cui avrebbe potuto avvenire, non c’è stata. Penso soprattutto al movimento sociale, dove non si è avuta saldatura tra il movimento dei “sans” [“senza”: senza casa, senza documenti….], il movimento sindacale e quello “altermondialista”.
Ed ora ci troviamo in una situazione che, pur se non definitivamente “chiusa col catenaccio”, sembra bloccata. In Francia, dunque, siamo in una situazione politica piuttosto nauseabonda, contrassegnata da una grande radicalizzazione a destra, in cui tutti rincorrono la destra e in cui, alla fine, è l’estrema destra a tirar fuori le castagne dal fuoco.
Appunto: a tuo parere, come mai è l’estrema destra ad essere stata negli ultimi due anni la principale beneficiaria della situazione politica, segnata dalla svolta a destra del Partito socialista, dalle politiche di austerità, ecc.?
Innanzitutto, va precisato che si tratta di un dato non solo francese. Se si guarda con un po’ di onestà intellettuale ai rapporti di forza a livello europeo, anche a livello globale si sono aperti un varco movimenti populisti, movimenti di estrema destra, quando non neofascisti. Di qui l’interesse ad essere solidali, senza essere acritici, con le esperienze spagnole e greche, perché hanno costituito le prime due contro-dimostrazioni di come le crisi del capitalismo potessero potenzialmente avvantaggiare degli anticapitalisti anziché l’estrema destra.
Ritornando alla Francia, devo dire che io non credo nei vasi comunicanti. In altri termini, non basta che i partiti tradizionali vadano a destra perché ne nasca qualcosa di politico a sinistra. Evidentemente, la cosa lascia uno spazio, ma arrivati a quel punto sopraggiunge un problema strategico che divide la sinistra radicale, in Francia ma anche in Europa: visto che la politica ha orrore del vuoto, e che la sinistra non è quel che era, alcuni nella sinistra radicale sono tentati di rifare la sinistra di prima, una sinistra riformista più o meno radicale, quella esistente prima di trasformarsi in sinistra liberista. Si tratta di una versione istituzionale micidiale, perché si sa che è votata al fallimento e che non corrisponde neanche a quel che potrebbe emergere dalle nuove generazioni, da nuove forme di lotta, ecc. Questo, quindi, è un primo problema.
E l’altro problema è che, anche quando esistono forme embrionali di lotte, non producono autonomamente la propria politica. Ci sono due contro-prove, ma segnate da storie specifiche, e sono la Grecia e la Spagna, che non sono nate solo dal nuovo. Si tratta, come al solito, di una visione molto mediatica. Ci sono in Syriza e soprattutto in Podemos molti elementi di novità, ed entrambi i raggruppamenti sono sicuramente molto più nuovi di altre organizzazioni europee; ma al loro interno ci sono militanti sperimentati e varie tendenze politiche precedenti, la cui peculiarità è che hanno avuto la volontà di stare sistematicamente a contatto con i nuovi movimenti sociali, in un reciproco apprendistato. Sono questioni che restano aperte, e vediamo infatti quanto siano complicate le cose sia in Grecia sia in Spagna.
[…] Aggiungerei un’ultima cosa: c’è un problema molto tipicamente francese, quello del giacobinismo: una certa incapacità di proiettarsi oltre i propri confini, specie trattandosi della periferia dell’Europa; nel qual caso, o c’è una visione strumentale, oppure c’è quella di chi intende dare lezioni. Per quelli che sono interessati – perché soprattutto ci sono quelli che non lo sono davvero per nulla: – o si cerca di dire che cosa occorre fare in Francia, ma in realtà per fare vecchie combinazioni elettoralistiche, com’è purtroppo un po’ la tentazione del Fronte di Sinistra; oppure si è interessati, ma per dare lezioni, come fanno certi professori rossi spiegando a distanza che cosa devono fare le forze politiche, aspettandole al varco e denunciando in anticipo i tradimenti futuri.
Obiettivamente, se l’esperienza greca approda a una sconfitta definitiva, dopo l’accettazione di Tsipras del III Memorandum, sappiamo quale potenziale pericolo rappresenti Alba Dorata, una tendenza neonazista dichiarata che aspetta il suo momento e che potrebbe raccogliere la collera popolare. Di qui la sfida che, dopo la scissione di Syriza e la formazione di Unità Popolare, possano federarsi tutte le forze anticapitaliste in Grecia, siano esse entrate in Syriza o rimaste fuori. E vale lo stesso per la Spagna. Ma quel che abbiamo oggi, in termini di solidarietà concreta, è di una debolezza allucinante. Non è che la faccenda non interessi: il largo pubblico intorno a noi, la gente in genere discute, ma questo non approda a granché in termini di solidarietà effettiva.
Vorrei ritornare al problema dei rapporti con le organizzazioni riformiste e il resto della sinistra, però prima vorrei chiederti che cosa pensi dei risultati della giornata di scioperi e di manifestazioni del 9 aprile [2015]. Secondo me, ho trovato molto impressionante questo: si erano mobiliate 400.000 persone, secondo i sindacati, e c’era una CGT visibilissima. L’impatto sul governo, tuttavia, è stato pressoché nullo. Si tratta forse di un rivelatore di quanto dicevi, e cioè dell’abisso tra mobilitazioni e politica?
Direi che quel che manca attualmente in Francia, al di là del problema della forma che questo deve assumere (scioperi, manifestazioni, occupazioni…), è l’irruzione sul davanti della scena della questione sociale. In Francia ci sono manifestazioni, mobilitazioni, e possono anche riuscire. Ma sono molto incasellate, molto classiche…Non è un giudizio del tutto negativo, ma in questo gioco così vasto, le lotte locali e settoriali esistenti è innegabile che non riescano a generalizzarsi e a unificarsi. Questo va oltre la sola questione dei rapporti di forza con il governo, perché anche giornate di scioperi generali riusciti non sono bastate in Grecia, all’epoca, a far cadere il governo o a imporre il ritiro dei piani d’austerità, anche se in Portogallo è successo una volta, malgrado tutto, nel 2012.
Quest’irruzione oggi manca drammaticamente in Francia, ma in un modo o nell’altro arriverà. La sfida è prepararsi a questo, rendersi disponibili per i futuri sviluppi. Non avviene per decreto la lotta che incarnerà questa irruzione. Ma gli ingredienti per questa ci sono, quindi lì sta il problema: per il momento, anche nelle forme di contestazione, ci ritroviamo in tutto quel che c’è di più classico, di più ripetitivo. E più è compresso, represso, più è contenuto, più quando esploderà lo farà in tutte le direzioni, ed è probabile che non riuscirà a padroneggiare le forme. In ottobre, l’invasione dei lavoratori di Air France nel Consiglio centrale aziendale per protestare contro la soppressione di varie migliaia di posti di lavoro, che si è risolta nell’immagine che ha fatto il giro del mondo di un dirigente che si lasciava strappare la camicia, è intervenuta a ricordare a tutti fino a che punto la situazione sia esplosiva.
Tu sei un militante politico, ma militi anche sul tuo luogo di lavoro, alla Posta. Hai visto un calo dell’attività militante alla Posta dal 2015?
No, alla Posta ci sono un buon numero di mobilitazioni, ci sono anche molti scioperi locali: scioperi prolungati, duri, minoritari o maggioritari, anche se non esiste un movimento nazionale. Penso che una delle poste in gioco, in tutte le piste che dobbiamo esplorare in Francia, sia quella di cercare di valorizzare i casi che fanno scuola, come ad esempio in Portogallo le marce bianche, le marce verdi, grandi movimenti nell’istruzione e nella sanità, vale a dire fortissime mobilitazioni settoriali, oppure sul problema della casa. In Francia, ad esempio, le lotte all’Air France non sono mai insignificanti nella storia sociale. Nel 1988 o nel 1993 avevano costituito i segnali precursori di mobilitazioni più complessive. Anche la classe dirigente se ne ricorda, di qui quindi la sua preoccupazione e la repressione in risposta. Tanto più che l’idea di vedere dirigenti denudati dai lavoratori le è particolarmente intollerabile. Non è escluso che possa succedere nella sanità, con quel che sta accadendo in questo momento negli ospedali parigini; non è da escludere che emerga un movimento settoriale che sfugga alla forma tradizionale.
Vi sono anche massicce mobilitazioni intorno alle sfide ecologiche. Vedremo che impatto avrà la mobilitazione sul vertice climatico, però è vero che in questo momento, le mobilitazioni più in vista, sia per la loro radicalità, sia nella loro unità e, quindi, con la possibilità di effettuare appunto la saldatura tra il vecchio e il nuovo, sono quelle contro le Grandi opere inutili: Notre-Dame-des-Landes, la diga di Sivens, o quello che sta facendo la Confederazione dei contadini sulla fattoria delle mille vacche. Tenendo varie riunioni pubbliche, non ce ne è una in cui non si tratti di questo tipo di lotte. Ero a Grenoble, di recente e c’era la mobilitazione contro un progetto di Center Park in un’area protetta, e dei militanti libertari venivano per la prima volta alla riunione pubblica di un’organizzazione e discutevano con noi delle prospettive. E li t’accorgi che si tratta di una generazione molto variegata, in cui ritrovi un po’ tutto e il contrario di tutto, ma non è escluso che su grandi temi, grandi settori, emergano mobilitazioni che irrompono. Comunque, sono tanti i colpi che si prendono….
Si può criticare una concezione elettoralistica della politica, ma ci sono problemi che si porranno in vicinanza delle presidenziali del 2017. Mélenchon dovrebbe ripresentarsi. Ci sarà la ricerca di unità…
Il problema si riproporrà nelle prossime scadenze elettorali, si tratti delle regionali [tenutesi nel dicembre 2015] o del 2017, ma il problema è che la situazione è bloccata per tutti. Si sarebbe potuto immaginare un effetto Podemos sulla sinistra radicale francese, anche per le regionali. Per parecchi motivi, la cosa non è andata in porto. Anzi, le liste Fronte di Sinistra, se si presentano unite lo fanno contro la sinistra governativa al primo turno per poi ricollegarsi al governo nel secondo turno per co-dirigere la regione.
Da parte sua, il NPA esiste sul terreno militante e attrae un po’ più gente alle proprie riunioni, ma non ha i mezzi finanziari per presentarsi. Alcuni tenderebbero quasi anche a ripiegarsi un po’su se stessi, con qualche stanchezza per tutti i tentativi unitari abortiti in partenza che possono farci perdere tempo. L. O., quanto a lei, non vuole neanche sentir parlare di unità. E sul versante del movimento sociale, non vi sono per il momento personaggi rappresentativi disposti a lanciarsi in un nuovo tipo di battaglia politica. Potenzialmente, potrebbero esservene, basterebbero poche cose. Se avessi una decina di figure del movimento sociale un po’ significative, che venissero fuori dai ranghi e “Bene, sentite, adesso basta con le fesserie”, magari si potrebbe uscire dalla situazione attuale. Per ora, però, non ci sono. Nel 2017 Mélenchon si ripresenterà, con o senza il PCF, probabilmente con, perché ha “appuntamento con la Francia”. Se, tuttavia, utilizzi scadenze elettorali, è in nome di un progetto più generale. Se cominci ad occupare la scena elettorale soltanto per esistere, indipendentemente dal tuo progetto, non fai altro che alimentare la crisi politica stessa. Non ci si presenta per presentarsi. Si dovrebbe andare controcorrente rispetto a questo atteggiamento.
Il tempo elettorale è onnipresente in Francia, è soffocante e non prevale politicamente solo per pochi mesi prima delle elezioni, ma per l’intero anno prima, tutti i giorni. La situazione politica francese è bloccata dal problema elettorale. Sempre, soprattutto attraverso i sondaggi. Se quindi si riflette in termini di progetto di emancipazione, il problema è come uscire da questo tipo di tempo, come creare un altro spazio, un altro tempo, un altro calendario, il che non significa che boicotti per forza di cose, ma se riesci a creare un movimento di massa con altri ambiti, che prenda le sue distanze da questo, lo aggredisci di traverso, allora puoi riflettere sul fatto di ripresentarti in nome di un progetto più generale.
Per il 2017 occorrerebbe fare un’altra campagna, “l’altra campagna”, come avevano fatto gli zapatisti, una campagna sulla non-presidenza, perché in Francia c’è la V Repubblica e la questione elettorale viene a sua volta fagocitata dalla centralità, nel sistema istituzionale francese, del Presidente della Repubblica.
Per questo stai scrivendo un libro sul costo del capitale [uscito poi a settembre 2015, con il titolo: Il vero costo del capitale], per legarti maggiormente al movimento sociale?
A titolo personale, è vero che io tendo ad essere più assillato da quel che accade nel movimento sociale, perché continuo a pensare che sia il crogiolo più fecondo di nuove forme potenziali di espressione politica. Probabilmente è un difetto, perché questo induce talvolta a sottovalutare il ruolo delle mediazioni politiche. Ho già commesso per questo errori di valutazione. Ad esempio, non ho saputo apprezzare la comparsa del Fronte di Sinistra, non per settarismo, ma perché credo che non appartenga alla mia specifica personalità guardare dal lato delle coalizioni politiche.
Comunque, questo mio difetto diventa ossessivo in me in questo momento perché, pur restando un militante di partito, che è la mia storia e ne sono fiero, resto convinto che il movimento sociale stia covando dentro di sé una nuova rappresentanza politica. Sarei angosciato se noi fossimo al di fuori del movimento reale. Spetta a noi starci dentro, senza riprodurre i rapporti gerarchici tra partito e movimento sociale. Si tratta di una visione complementare.
Quando vedo i compagni spagnoli, è un’ossessione anche per loro. Questo si lega a una storia di militanza. Credo che i greci e gli spagnoli siano andati più avanti di noi durante il movimento altermondialista: in numerosi paesi è comparsa una nuova generazione, ma non in Francia realmente. Pur essendoci state in Francia mobilitazioni altermondialiste, avevamo già il problema. Mi ricordo che, quando si preparavano convogli per vertici come quelli di Nizza o di Genova nel 2000 o nel 2001, tutte le volte che si faceva un elenco, ricordo le cifre: 1.000 italiani, 1.500 spagnoli, 800 greci, per la Francia solo 40. Si è assistito all’emergere nei campus universitari, soprattutto in quei paesi, di una nuova generazione politica assillata dal rapporto con il movimento sociale nel proprio modo di militare, un rapporto con questo che non era lo stesso che avevamo noi, ed è stato producente.
Se non diventiamo ultra-volontaristi sul fatto di essere disponibili e imparare nell’apprendistato e non nella sostituzione (“io parlo in nome di…”), non ci si riuscirà mai.
Eppure c’è stato, nel creare il NPA, l’impegno per organizzare e rappresentare generazioni radicalizzate, per reimpostare i problemi…
Sì, c’è stato quell’impegno. Al contrario di altri, credo che si siano effettivamente aperte le porte. Questo però ha posto un problema, si è avuto paura. Quando apri le porte, hai ad esempio sindacalisti che vengono con la loro cultura, militanti di quartieri popolari che arrivano con la loro, ecc. E questo è il proletariato così com’è, non come lo si immagina nei libri, ma come è oggi in Francia, cioè scoppiato, esploso, diverso, ma segnato dal comune sigillo dello sfruttamento e dell’oppressione.
Quel che dirò è sicuramente polemico, ma penso che il caso della candidatura di Ilham, al momento delle elezioni regionali del 2010, sintetizzi il problema, al di là delle questioni sull’islamofobia. Tuttavia, al di là di quel che questo simboleggia è un problema molto concreto: tu ti rivolgi all’esterno, fai un meeting, c’è gente che viene, tanto meglio! Non metti buttafuori, e quindi le persone vengono e vengono così come sono, proletari bianchi, Neri, Arabi, quindi anche donne musulmane con il foulard. Vengono, ascoltano ciò che si dice alla tribuna, non me soltanto ma diversi oratori, e si ritrovano globalmente allo stesso titolo di altri in quel che si dice, quindi chiedono di aderire. Entrano, militano, incollano manifesti, distribuiscono volantini e il problema arriva quando si tratta di rappresentare il partito stesso. Se non puoi parlare per il partito allo stesso titolo degli altri, allora abbiamo un problema.
E dietro questo, al di là del problema coloniale, della lotta contro l’islamofobia, c’è un problema di rapporto con il proletariato così com’è. Per essere più chiari, se apri le tue porte e cerchi tu stesso di partecipare, di dare la sua propria espressione politica a un soggetto sociale, allora prendi il soggetto sociale così com’è, senza demagogia. Questo non significa che non hai cose da dire, se non altro in un lavoro di coscientizzazione collettiva su problemi in cui si cerca di progredire insieme, soprattutto sui pregiudizi che abbiamo tutti perché, in quanto proletari non si è, tagliati fuori dal resto della società. Per me, questo è qualcosa di importante, perché se ti proietti nel futuro, molte sono le cose da rivedere su cosa non ha funzionato nella creazione del NPA, e su questo non ho risposte, perché bisogna conservare il coraggio di farlo, non ci si deve spaventare del proletariato così com’è, del soggetto di emancipazione così com’è nel XXI secolo.
Per i sindacati, credo sia la stessa cosa, fatte le debite proporzioni. È sbagliato credere che tutto si possa ridurre a problemi di funzionamento che, pure, sono importanti. Ad esempio: come fai a far sì che tutti intervengano nel partito, non solo quelli che sono abituati a farlo? In altri termini: come fai a non riprodurre la separazione che c’è nella società tra quelli che parlano e quelli che non parlano? Ad esempio, i sindacalisti avevano poco la parola, li vedevi raramente ai congressi del partito, li vedevi di rado alle università estive del NPA, li vedevi nelle riunioni nazionali pubblico-privato [riunioni specifiche relative all’intervento sui luoghi di lavoro], cioè nel loro “ambito”, se si vuole. Ma poco al di là, cioè nella campagne portate avanti dal partito.
E là c’è un problema, perché nell’espressione politica di certi sindacalisti a volte sono presenti mediazioni politiche. È l’espressione di una certa rabbia sociale, la voglia di arrivare a uno sbocco propria del loro modo di procedere, che a volte quindi può essere brusca e rapida. Ad esempio, per alcuni militanti sindacali del Nord, in certi bastioni sindacali, eravamo il nuovo partito della classe operaia, era questo il loro modo di procedere. Non si può avere questa pretesa quando ci sono altre organizzazioni, ma nella loro logica era ciò che significava un nuovo partito, e non siamo stati capaci di esprimerlo.
Come superare queste difficoltà?
Onestamente, non lo so.
Credo ci siano cicli di lotte…
Sì, certamente. Io parlo del nostro specifico bilancio, della critica che ci riguarda in particolare. Al di là, in tutta sincerità, hanno giocato contro di noi molti elementi oggettivi. Sono state aperte le porte nel momento in cui incominciava il riflusso sociale e politico. Alcuni pensavano che sarebbe stato necessario costruire prima un nuovo partito, ma era difficile prevedere questo riflusso. Io parlo della critica che ci permette di sapere che cosa dobbiamo evitare di rispondere, ed è molto complicato.
Vorrei affrontare la questione dell’islamofobia e del razzismo all’interno della sinistra francese. Dove stanno i problemi? Che prospettive dare su queste questioni?
È un fortissimo indicatore della situazione francese e della sinistra radicale, ma quel che importa è sciogliere quel che attualmente rimane un punto di blocco. Se lo snodi esclusivamente sulla base di dibattiti, di concezioni e di idee, limitandoti a dire che tutto questo dipende dal passato coloniale della Francia, riprendi i dibattiti partendo dal passato. In una direzione come nell’altra. Se prendi l’esempio di una ragazza col velo e guardi quel che ha in testa o come un’offesa alla laicità, o come portabandiera della lotta contro l’islamofobia, credo che non risolvi il problema, che aggiri la realtà sociale dei quartieri così come sono […]. Nei quartieri c’è di tutto: ragazze col velo, ragazze senza, persone favorevoli, altre contrarie, persone di tutte le obbedienze politiche, ma ci sono forme di impegno che superano queste differenze partendo dall’esperienza di un quotidiano comune e concreto, senza parlare di ieri ma di quel che è in ballo oggi.
Noi non siamo ancora capaci di fare questo, perché non siamo dotati del software adeguato, non noi soltanto ma anche molti altri. È un marcatore molto forte della situazione e che continuerà stabilmente a tormentare la sinistra radicale. […] Anche nella parte della sinistra più sensibile al problema della lotta contro l’islamofobia c’è a volte la tendenza involontaria a riprodurre rapporti paternalistici con gli ambienti degli immigrati, o dei loro discendenti. Pensare che si debba per forza passare per il caso religione per avere accesso a queste frange del proletariato non mi sembra una buona strategia, e questo non corrisponde alla realtà dei quartieri popolari, anche quando le persone interessate sono credenti. Io penso si possa discutere direttamente di politica con tutta la gente che vive nei quartieri popolari. D’altronde, parte della comunità musulmana se l’è presa con noi rispetto ad Ilham. Si sospettava, anche in quegli ambienti, che avessimo cercato di strumentalizzare la questione. Non era evidentemente così, perché su centinaia di candidati è capitato ci fosse una donna con il velo. La stampa se ne è impossessata e ha creato un tornado mediatico: un articolo, un comunicato, le radio, le televisioni, e al-Jazeera piomba subito a casa di Ilham, e questo diventa delirante! Nei quartieri ci dicevano che non si doveva strumentalizzare. Il problema che ci pone la gente nei quartieri è quella di quali azioni possiamo fare insieme, senza necessariamente passare per forza per questo “criterio” religioso.
[…] Nessuno ha preso apertamente la nostra difesa in quel momento, sia nel mondo politico, sia in quello intellettuale, associativo, culturale. Anzi, molti ci hanno attaccato perché questo problema è un indicatore della società francese in generale, è sia il prolungamento dell’arabofobia e del passato coloniale della Francia ed è al tempo stesso il migliore alibi della classe dirigente per fungere da parafulmmine su tutte le questioni che toccano l’urgenza sociale. Ed è un parafulmine che funziona a meraviglia perché si basa sulla paura. Hanno trovato una maniera efficace di dividere il proletariato, nell’accezione ampia del termine. Il problema è sapere come contrastare questo. Occorre condurre campagne specifiche, certo, ma questo non risolve il problema. Una pista per uscire da questo dilemma potrebbe essere, infatti, la creazione di alleanze non con coloro che si ritiene siano esponenti di un corpo culturale e religioso prestabilito, ma con i protagonisti stessi, così come sono nei quartieri popolari. Bisogna valorizzare le convergenze e avanzare su un piede di parità con i movimenti di militanti di quartiere. E nei quartieri di politica ce n’è. I quartieri non sono assolutamente deserti militanti.
Del resto, si può anche parlare di immigrazione; io vivo ad esempio nel 18° distretto, un quartiere storicamente contrassegnato dall’immigrazione. Qui, insieme ad altri che non erano membri del NPA, abbiamo ad esempio utilizzato una scadenza elettorale per fare una campagna originale, la “lista dei senza voce”, presentando una lista che includeva numerose persone d’origine straniera, che non hanno il diritto di votare o di candidarsi. Era un tentativo embrionale, su scala di un quartiere, e le discussioni riguardavano l’urgenza della situazione, così come la sentono le persone che si sono messe in moto insieme. La lista è stata invalidata in prefettura e noi abbiamo piazzato urne per strada per organizzare la votazione. Molti abitanti sono venuti a votare, mentre nei veri seggi elettorali non c’era poi tanta gente. Abbiamo fatto una campagna comune con gli invisibili del proletariato.
Credi che i sindacati possano invertire l’attuale tendenza? Soprattutto nel quadro degli scandali relativi al Segretario generale della CGT [Thierry Lepaon, che si è dovuto dimettere dall’incarico lo scorso gennaio 2015, sostituito da Philippe Martinez]…
Un potenziale sindacale forte è presente in Francia, soprattutto perché ci sono molti gruppi sindacale “lotta di classe”. Più di quanto non si immagini, sicuramente decine di migliaia di persone. Il problema è che in Francia si è avuto un periodo piuttosto prolungato segnato dalla speranza di una ricomposizione sindacale intorno a un polo più combattivo composto dalla FSU, dalla CGT e da Solidaires. Questo periodo sembra ormai chiuso e si assiste, sulla scena politica, alla radicalizzazione e alla svolta a destra del movimento sindacale. Il problema è sempre quello della mancanza dell’evento fondante, che scateni una nuova fase nel mondi politico e sindacale. C’era stata questa possibilità di ricomposizione sindacale dopo il movimento del 1995 contro la riforma della previdenza e assistenza sociale lanciata da Juppé [l’allora Primo ministro di Chirac], con uno sciopero generale vincente che aveva rimesso in moto e dato vita a raggruppamenti sindacali. Se quel tipo di avvenimento riuscisse a riverificarsi, nel movimento sindacale vi sono gruppi disponibili che possono far emergere qualcosa di nuovo, anche se in questo momento è difficile prevederne le basi.
Il resto dei movimenti sociali sono in grado, su questioni quali l’ecologia, il razzismo o l’Europa, di invertire gli attuali rapporti di forza?
Per il momento, nella società francese esiste una pressione sorda, ma non viene fuori nulla, perché ora tutto è bloccato, incasellato. Dal basso, esistono parecchie attività, interessanti sviluppi in settori come l’antirazzismo, la casa, il sindacalismo, ma niente di sufficientemente maturo da invertire i rapporti di forza. Anche in questi settori si è interiorizzata l’idea che la società evolva a destra. Sembra quindi non emergere alcun settore in gradi di dire: STOP.
È deprimente!
No, perché è una situazione che non può rimanere così in eterno. Tutto ciò che ti ho descritto dall’inizio, sono elementi di una società non irrigidita, al contrario: è destinata a cambiare. La posta in gioco cruciale è che dei militanti abbiano il coraggio di stare a contatto con tutto ciò che può muoversi in una situazione del genere. È a me questo sembra interessante e perfino entusiasmante. Oggi si seguono le tracce e si battono queste possibili radure. L’intelligenza politica, all’occorrenza, consisterebbe appunto nel ripensare tutto un insieme di cose, senza pretendere di avere le soluzioni in anticipo, ma prendendo atto di dover inventare via via nuove risposte programmatiche, organizzative, adeguate a una situazione che può muoversi improvvisamente, volendo costruire alleanze adeguate.
Sul problema della rappresentanza politica, credo, ad esempio, che occorra rilanciare una discussione strategica sulla forma partito, senza scorciatoie e demagogia “post-moderniste”. Oggi c’è bisogno di una nuova forma di rappresentanza politica che mutui dalla forma “partito” la fermezza sui problemi programmatici e strategici, ma che eviti lo scoglio dell'”esternità” e del sostituzionismo inerenti a parecchie organizzazioni. Non è un dato evidente di per sé. È probabile che per trovare la soluzione e riflettere su questo progetto dobbiamo prestare attenzione, più che mai, ai nuovi elementi che emergono altrove sulla questione della rappresentanza politica. (Settembre 2015)