Tempo di lettura: 2 minuti

asinistraLa disillusione che pervade ciò che resta della variegata sinistra italiana ha le sue spiegazioni. Paradossalmente, fatte le debite differenze, il nostro Paese ha vissuto in anticipo l’esperienza di Syriza in Grecia e a quella di Podemos in Spagna. Cos’era Rifondazione Comunista, negli anni ruggenti del suo costituirsi come organizzazione, se non la potenziale volontà di riunificare tutta la sinistra antiliberista e anticapitalista?

Una potenzialità appunto, la cui messa in atto pratica, attraverso una continua alleanza elettorale e governativa con il Partito Democratico, ha lentamente sgretolato, facendole perdere credibilità in termini di alternativa allo status quo neoliberista. Consumata la possibile Syriza italiana, le convulsioni del sistema politico, provocavano il superamento del berlusconismo mediante l’alleanza governativa con esso in nome dell’emergenza, vecchio refrain della storia politica italiana, assieme ad un concetto ancor più vecchio: il trasformismo del ceto politico. Poiché nulla accade invano era data potenzialmente la possibilità del sorgere di movimenti sociali e politici simili a Podemos spagnolo, e infatti questo vuoto politico a modo suo è stato riempito dal successo elettorale del Movimento Cinque Stelle nel 2013. In questo senso l’Italia è un laboratorio nel quale si sono sperimentate più che innovazioni, arretramenti. Tra i vari populismi presenti oggi sulla scena politica occorre includere quello governativo-istituzionale, impersonato dal “nuovo modo di far politica” del giovane rottamatore Matteo Renzi. Se Berlusconi al tempo che fu era “sceso in campo” (termine calcistico) per salvare l’Italia, l’ascesa al potere di Matteo Renzi è una “scalata”, termine mutuato dall’ambito finanziario e borsistico col quale si indica l’acquisizione del pacchetto azionario di controllo di una società per azioni. Berlusconi non aveva un partito, dovette costruirne uno a sua immagine e somiglianza. Renzi un partito già lo aveva, doveva solo scalarlo dall’interno per trasformarlo a sua immagine e somiglianza. Da lì iniziò la sua scalata. Conquistato il partito con le primarie del 2013, lo “asfaltò”, termine caro al nostro, promuovendo e assecondando gli appetiti di una nuova (anagraficamente) leva di quadri medi e medio alti, desiderosi di rimpiazzare le figure del vecchio apparato. Col partito in pugno impose al compagno di partito Enrico Letta di abbandonare la carica di capo del governo, per far posto a lui. Detto, votato, fatto: il 25 febbraio 2014 il suo governo otteneva a fiducia dal Parlamento. Era l’inizio della rappresentazione renziana della politica, a colpi certo di slogan immaginifici e di promesse generiche, da non sottovalutare però riducendo il tutto a “comica”, poiché non di sole battute da avanspettacolo si tratta ma di “riforme” pesanti e dannose, che riguardano l’impianto costituzionale, la legge elettorale, il mondo del lavoro, i servizi, il pubblico impiego e la scuola.
Cosa resta della sinistra oggi? Tanto e poco. Tanto come patrimonio di lotte e di conquiste, poco come possibilità immediata di tornare a essere quel che non è più. Per ricostruire occorre mettersi brechtianamente “dalla parte del torto”, perché troppi sono quelli che hanno occupato e vogliono occupare i posti a sedere dalla parte della ragion politica liberista, postmoderna e chiacchierona. Cominciare dalla parte del torto, non pretendere di entrare nel mondo della loro ragione come ospiti del potere, è la consapevolezza primaria da cui partire per ritessere intelligenze, movimenti sociali e politici antiliberisti capaci di organizzare resistenze durature e lunghe all’attuale democrazia emozionale, diffusa dai mass media e ben impersonata dal “nostro” narratore al governo.

 

*Storico, autore di numerosi contributi sulla storia del movimento operaio. Da questo numero di Solidarietà animerà questa rubrica sull’Italia.