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aRSI testo vert RGBLa RSI non si smentisce. Quanto successo nelle ultime settimane, con l’attuazione (nei brutali modi denunciati e ammessi dalla stessa direzione) di una serie di soppressioni di posti di lavoro (che, tra licenziamenti e prepensionamenti hanno coinvolto una settantina di dipendenti), conferma il clima e il modo di procedere di questa azienda, “pubblica” nella sua natura (natura della quale ama spesso compiacersi), ma privata (e come) nel modo in cui ha sviluppato e sviluppa le sue attività produttive.

Non è un mistero per nessuno, ad esempio, che la RSI in questi ultimi anni sia stata un vero e proprio modello di implementazione (come si ama dire nel gergo manageriale) di una serie di modelli produttivi tipici del lavoro flessibilizzato del capitalismo degli ultimi tre decenni.
La flessibilità e i rapporti di lavoro interinali (così come altre forme di lavoro precario e flessibile) si sono sviluppati in forma sempre più evidente e importante all’interno dell’azienda; lo stesso si può dire per forme di dumping salariale (facenti leva soprattutto sul fatto che diversi neo-assunti non potessero far valere le loro qualifiche professionali) delle quali si è ampiamente parlato negli anni scorsi. La stessa unificazione (fisica e aziendale) delle redazioni e delle attività a Comano ha creato non pochi problemi, in particolare legati alla qualità dell’ambiente di lavoro (gli spazi) e alle dinamiche stesse della produzione televisiva. A tal punto che, se siamo ben informati, avevano suscitato anche richieste di un intervento dell’ispettorato del lavoro.
A tal punto che, come hanno confermato i risultati di un’inchiesta sindacale di pochi mesi fa, l’insoddisfazione tra i dipendenti si trova a livelli altissimi e mai raggiunti.
Infine, la regolamentazione delle condizioni di lavoro del personale sono state oggetto, in questi ultimi anni, di parecchi peggioramenti, cristallizzatisi nei continui risultati sostanzialmente negativi dei diversi rinnovi contrattuali.
Il processo di ristrutturazione in atto (proveniente dalla più classica decisione di risparmio e delle conseguenti misure di austerità varate dall’azienda) avviene quindi in un clima di lavoro già da tempo teso e difficile: una condizione ideale per attuare dei licenziamenti, in particolare puntando su fenomeni di divisione e di tensione che rendono spesso difficile l’organizzazione di forme di resistenza collettiva, solidale, in grado di superare l’individualismo presente in ogni forma di organizzazione del lavoro.
Non ha certo aiutato l’evoluzione sempre più problematica delle organizzazioni sindacali maggiori presenti all’interno dell’azienda, a cominciare dall’SSM. Queste hanno oscillato sistematicamente, malgrado questo nuovo deteriorato contesto, tra la denuncia (perlomeno a livello verbale) delle derive aziendali in materia di condizioni di lavoro e di salario e un atteggiamento sostanzialmente concertativo e integrativo all’interno della stessa struttura aziendale, in uno spirito teso ad immedesimarsi costantemente con l’azienda, sulla base di un malcompreso concetto di servizio pubblico.
Abbiamo potuto vedere questo titubante atteggiamento anche nei momenti caldi di questa vicenda, attraverso alcune contraddittorie prese di posizione dello stesso sindacato SSM, il quale da un lato denunciava come inaccettabile l’atteggiamento dei vertici aziendali, dall’altro continuava e continua a mostrare la propria fiducia in questi stessi organismi (siano essi regionali e nazionali).
Questa ambivalenza ha portato ad una chiara mancanza di strategia e di orientamento, sia dal punto di vista della denuncia di quanto stava accadendo sia dal punto di vista delle rivendicazioni e della elaborazione di una strategia sindacale.
Da questo ultimo punto di vista è stata abbandonata abbastanza in fretta la prospettiva di una contestazione di fondo dei licenziamenti (ed in particolare della soppressione di posti di lavoro in un’azienda che resta uno dei principali datori di lavoro del cantone) e della logica ad essa sottesa (cioè la politica di austerità di bilancio dell’azienda, suggerita dalle autorità politiche); una logica che è la stessa che anima tutte le aziende (pubbliche, private o parapubbliche) che imboccano la via della concorrenza capitalistica neoliberale.
La RSI è un’azienda che dovrebbe essere animata da una logica di servizio pubblico? Certo! E allora un servizio pubblico lo si difende (soprattutto di fronte all’offensiva sempre più intensa del settore privato) con una politica che punti al rafforzamento delle sue strutture, delle sue finanze, del suo personale. E non ci si venga a dire che questo rafforzamento lo si comincia sottraendo a questo servizio decine di milioni di risorse finanziarie!
Così, per finire, la posizione sindacale si è risolta una contestazione delle forme e una di fatto accettazione della sostanza. La sostanza (cioè i licenziamenti) per finire è stata avallata (mettendo anzi in rilievo il contenuto del piano sociale), limitandosi a denunciare le forme con le quali sono stati notificati ed effettuati i licenziamenti.
Le reazioni pubbliche, l’imbarazzo della direzione, il coraggio che qualcuno, all’interno dell’azienda e quindi in una posizione difficile, ha comunque mostrato denunciando pubblicamente quanto stava succedendo: sono tutti elementi che avrebbero forse permesso di tentare una mobilitazione interna a difesa dei posti di lavoro, contro il piano di ristrutturazione voluto dalla SSR e in difesa dei diritti e della dignità dei salariati. Oggi è, forse, un po’ più difficile; ma una coraggiosa strategia sindacale potrebbe rivalutare ed utilizzare in modo appropriato gli elementi positivi ai quali abbiamo qui sopra accennato.