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auniaorariI media cantonali si affollano a chiarire e a spiegare nel dettaglio la grande rilevanza dell’accordo (dello scambio) sul quale è stato costruito il consenso finale per la nuova legge sugli orari di apertura dei negozi. Si tratta della famosa clausola (art. 23) che prevede che la legge “entrerà in vigore soltanto dopo che nel settore della vendita assoggettato alla legge stessa sarà entrato in vigore un contratto collettivo di lavoro (CCL) decretato di obbligatorietà generale da parte del Consiglio di Stato”.

Una clausola suggerita dall’ex-deputato democristiano Guidicelli e contro la quale (a nostro avviso con poche possibilità di successo) sono già stati annunciati ricorsi che invaliderebbero tutta la legge.

Ma le questioni che si devono porre ci paiono altre. Può bastare la stipulazione di un CCL a giustificare peggioramenti nelle condizioni di lavoro del personale? E la stipulazione di un CCL è, in quanto tale, un miglioramento delle condizioni di lavoro del personale, un “progresso”? Interrogativi che avrebbero permesso, assieme ad altri che solleviamo in un altro articolo che appare su questo stesso numero del giornale, di orientare la campagna in altro modo e, forse, di ottenere un risultato diverso da quello che, verosimilmente, uscirà dalle urne.

 

Clausola di scambio: una novità?

L’idea di uno scambio tra “peggioramento” degli orari di apertura e stipulazione di un CCL non è certo nuova. Proprio il Ticino, in occasione del tentativo di nuova legge del 1998, venne proposto questo scambio, pure allora accettato dall’OCST, ma rifiutato dal Sindacato Edilizia e Industria (SEI, dai cui nascerà, attraverso la fusione con la FLMO, l’attuale UNIA). Il SEI lanciò allora un referendum vittorioso contro la modifica della legge. Da notare che, allora, il CCL era già stato negoziato ed era praticamente pronto per entrare in vigore, una situazione ben diversa da quella attuale. Ma, allora – così come dovrebbe essere anche oggi – fu il giudizio di merito sul contenuto del CCL ad essere posto in evidenza e non solo il principio della sua stipulazione.
Vi furono poi altri accordi simili a livello nazionale, in diversi casi cassati dalle autorità giudiziarie. In particolare venne messa in discussione l’dea che i vantaggi in materia di orari di apertura potessero essere appannaggio solo di quelle aziende che sottoscrivevano un CCL.
La proposta approvata dal Gran Consiglio in realtà è diversa da queste ultime (e per questo , come abbiamo accennato qui sopra) difficilmente potrà essere oggetto di un ricorso vittorioso. Infatti il Parlamento è sovrano nel valutare a quali condizioni e quando una legge entra in vigore. E può benissimo fissare i termini previsti: cioè l’entrata in vigore solo dopo che sarà entrato in vigore un CCL di settore decretato di obbligatorietà generale. Ed evita l’errore, almeno dal punto di vista giuridico, di introdurre differenze tra i vari negozi al momento della sua validità: la legge entrerà in vigore per tutti o non entrerà in vigore (perché mancherà il requisito della stipulazione di un CCL).
Il problema della stipulazione di un CCL resta, evidentemente, ancora tutto sul tappeto. In particolare quello relativo ai suoi contenuti e al fatto che coloro che lo sottoscriveranno siano effettivamente organizzazioni rappresentative dei lavoratori e delle lavoratrici del settore. Infatti, affinché un CCL possa essere decretato di obbligatorietà generale è necessario che esso sia rappresentativo dei lavoratori e dei datori di lavoro del settore di competenza. L’art. 2 cpv. 3 della Legge federale concernente il conferimento del carattere obbligatorio generale al contratto collettivo di lavoro precisa che “i datori di lavoro e i lavoratori già vincolati dal contratto collettivo devono poter formare la maggioranza dei datori di lavoro e dei lavoratori che sarebbero vincolati dal contratto quando ad esso fosse conferita l’obbligatorietà generale”. Ed anche nel caso di deroghe a questo presupposto, sempre nello stesso articolo si precisa che esse si possono applicare solo alla maggioranza dei lavoratori occupati. In altre parole questo vorrebbe dire che un futuro CCL firmato, ad esempio, da Federcommercio e OCST, potrebbe essere decretato di obbligatorietà generale (e quindi permettere alla legge di entrate in vigore) solo se fosse firmato dalla maggioranza dei datori di lavoro attivi in Ticino nel settore della vendita. Un obiettivo assai difficile, per non dire quasi impossibile.
La possibilità di un resistenza giuridica ci pare quindi assai elevata ed è su questa strada che, tra gli altri, dovrebbero concentrarsi gli sforzi dell’opposizione sindacale qualora il prossimo 28 febbraio il Si dovesse spuntarla.

 

CCL, parola magica…

Ma il tema di fondo (e non dei minori: anzi un tema centrale anche alla luce dell’ampia discussione svoltasi negli anni scorsi in legame con la questione dei bilaterali e delle cosiddette misure di accompagnamento) è quello del “valore” di un CCL.
Il ragionamento che in questi anni si è affermato, complice anche l’atteggiamento delle direzioni sindacali, è che un CCL, la sua esistenza sia, di per sé, un valore positivo per i lavoratori e le lavoratrici. In realtà le cose stanno assai diversamente.
Storicamente e in linea generale, soprattutto in un contesto in cui i lavoratori avevano pochi diritti e poco o per nulla erano regolamentate dal punto di vista legislativo le condizioni di lavoro, i CCL sono stati sicuramente uno strumento importante di progresso sociale e materiale.
In Svizzera lo sviluppo dei CCL ha però sofferto, fin dall’inizio, di un limite fondamentale: il CCL, oltre a garantire qualche progresso materiale per i salariati, ha rappresentato anche lo strumento attraverso il quale, complice la politica delle direzioni sindacali, si è impedito ai salariati di esercitare la propria forza nei confronti del padronato. Era questa la logica sottesa alla pace del lavoro, elemento sul quale si è articolata, a partire dalla metà degli anni ’30, la politica contrattuale in Svizzera.
Una politica che, grazie anche all’eccezionale sviluppo economico del dopoguerra, ha potuto svilupparsi fino alla fine degli anni ’80, permettendo che una parte importante dei salariati di questo paese godesse di alcuni vantaggi materiali e sociali. Lo sviluppo economico aveva fatto sì che i CCL in realtà si limitassero ad “inquadrare” i lavoratori, a garantire il contenimento di eventuali forme di contestazione sociale; i progressi materiali erano il frutto più delle avanzate congiunturale che di una vera e propria forza contrattuale.
Questo tipo di sviluppo della politica contrattuale ha fatto sì che le organizzazioni sindacali trascurassero elementi fondamentali della loro azione contrattuale, a cominciare da quelli, decisivi, dei diritti d’azione e di rappresentanza sindacale autonoma sui luoghi di lavoro.
È a partire dagli anni ’90, in queste condizioni di debolezza strutturale del sistema contrattuale, che parte l’offensiva padronale che ha come obiettivo quello di svuotare di quel poco di contenuto ancora rimasto i CCL. A volte il loro “rafforzamento” corrisponde di fatto ad un indebolimento dei salariati. Pensiamo, ad esempio, a tutte le ex-regie federali: il passaggio dallo statuto di funzionario al CCL, ha rappresentato, per dipendenti di FFS,Poste e telecomunicazioni, l’inizio di una decadenza dal punto di vista delle loro garanzie salariali, occupazionali e sociali, nonché dei loro diritti.
Altre volte i CCL sono serviti e servono semplicemente a “regolamentare” un settore, alle condizioni minime possibili, e sono il risultato di un processo nel quale i lavoratori e le lavoratrici sottoposti/e non hanno nulla da dire. Pensiamo, ad esempio, al più grande CCL esistente a livello nazionale, quello dei lavoratori collocati dalle agenzie di lavoro interinale, con salari (per il Ticino) ben al di sotto del 4’000 franchi (con orari di lavoro in aumento).
Infine, come questo giornale ha denunciato, negli ultimi anni, sono apparsi nuove forme di contrattazione (i cosiddetti contratti normali di lavoro – attuati nell’ambito delle cosiddette misure di accompagnamento) che hanno di fatto contribuito non certo a combattere il dumping, ma ad istituzionalizzarlo, rendendo legali livelli salariali assolutamente inaccettabili. Questo dumping di stato, come lo abbiamo chiamato, si è particolarmente distinto in Ticino dove ha legalizzato, in diversi settori, salari mensili attorno ai 3’000 franchi.
In sostanza i CCL oggi sono tutto meno che uno strumento che, in quanto tale, rappresenta uno strumento di difesa delle condizioni salariali e sociali dei lavoratori. Applaudire ad una legge solo perché questa entrerà in vigore una volta concluso un CCL non ha alcun senso se questo CCL non solo non lo si conosce, ma attualmente non esiste nemmeno.
A noi sembra invece evidente che il CCL che verrà concluso rischia di essere al di sotto dei livelli di alcuni CCL esistenti in questo settore. Pensiamo, ad esempio, a quello di COOP o di Migros. Il padronato sa benissimo che questa funzione feticcio che il CCL ha assunto per le organizzazioni sindacali (in particolare per un sindacato come l’OCST che sulla stipulazione di CCL bidone, in grado soprattutto di farle incassare decine di migliaia di franchi di contributi professionali, ci è campata per anni) alla fine porterà i sindacati ad accettare qualsiasi accordo, anche al ribasso, pur di poter avere un CCL e, attraverso questo, di vedere riconosciuta dal padronato una rappresentanza che presso i lavoratori e le lavoratrici possono vantare sempre di meno.

 

Orari di apertura dei negozi: in gioco solo 30 minuti?
Finora il dibattito relativo alla legge sugli orari di apertura dei negozi si è concentrato sull’aumento di mezz’ora previsto tutti i giorni: sia alla grande distribuzione che al governo fa comodo attirare l’attenzione su questo aspetto: certo importante, ma che è facile sminuire nella discussione e nella propaganda. Dopo tutto, ci dicono i cartelloni della grande distribuzione, si tratta di solo 30 minuti…
In questo modo resta in ombra non solo l’importante prolungamento degli orari del sabato (nella stagione invernale addirittura un’ora e mezzo), ma, soprattutto, la profonda liberalizzazione in una serie di attività commerciali e in particolari tipi di negozi, a cominciare dai cosiddetti “negozi annessi alle stazioni di benzina i cui prodotti rispondono principalmente ai bisogni specifici dei viaggiatori e con una superficie di vendita inferiore ai 120 mq”.
Questi negozi (la cui situazione di fatto viene sanata con la nuova legge: agiscono da anni nella più completa illegalità, tollerati, come accade sempre più spesso in questo cantone: FoxTown docet!) sono in realtà dei veri e propri supermercati. Tanto per cominciare la loro proprietà è ormai largamente dominata dalle grandi catene di distribuzione: in primis COOP e Migros (Migrolino) che fanno la parte del leone; ma anche la loro dimensione non è uno scherzo: 120 mq sono una bella superficie la cui offerta merceologica non è inferiore a quelle della maggior parte dei negozi delle case-madri. Risibile poi il fatto che vengano definiti come negozi che “rispondono principalmente ai bisogni specifici dei viaggiatori”: in realtà vi si trovano gli stessi identici prodotti degli altri normali supermercati dove si va a far la spesa tutti i giorni e che poco o nulla hanno a che vedere con i bisogni dei viaggiatori. Se poi si pensa che in questi negozi si possono vendere alcolici, si capisce quanto poco abbiano a che fare con i bisogni dei viaggiatori. A meno che i viaggiatori non abbiano bisogno di bere alcolici…
Ebbene, questi supermercati (chiamiamoli con il loro nome) potranno tenere aperto tutti i giorni dalle 6 di mattina alle 22.30 di sera, sette giorni su sette. Altro che 30 minuti in più rispetto ai tradizionali orari di apertura! E non si tratta evidentemente di pochi casi isolati: potranno beneficiare di questo regime tutti i negozi annessi alle stazioni di benzina che si trovano sulle strade cantonali di grande comunicazione: praticamente quasi tutti, come ci indica l’elenco degli assi di comunicazione implicati pubblicato sul messaggio governativo.
È questo il punto centrale del processo di liberalizzazione contenuto nelle nuova legge e che prefigura una visione della società che non ci pare molto promettente. Come in altri casi gli orari di apertura dei negozi hanno profonde implicazioni sociali: sul traffico, sui modi di vita, sull’ambiente. Gli abitanti del Mendrisiotto, ad esempio, se ne sono accorti con il FoxTown: conseguenze sul traffico, sull’ambiente, sulle casse pubbliche che hanno dovuto costruire nuovi svincoli autostradali, nuove fermati dei treni, etc. Con poca riconoscenza della grande distribuzione, visto che, chiamati alla cassa con la modesta tassa di collegamento, hanno deciso di dichiararle guerra lanciando un referendum bugiardo.
Proprio sugli aspetti sociali legati agli orari di apertura vorrei aggiungere qualche osservazione finale.
È risaputo che vi è un rapporto stretto tra la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi e l’aumento del consumo di alcolici. Una tendenza in atto soprattutto tra i giovani e che numerose inchieste (alcune pubblicate proprio nei giorni scorsi) hanno confermato.
Uno studio condotto nel 2014 (su incarico del l’Ufficio federale della Sanità Pubblica) spiegava che “sono soprattutto i “negozi delle stazioni di servizio, delle stazioni e i chioschi” (+6,7%), e “altri punti vendita”, come per esempio i negozietti a conduzione familiare (+6,3%), che presentano l’aumento maggiore” e che “Se si considerano gli acquisti effettuati al di fuori degli orari normali di apertura dei negozi emerge che la percentuale degli svizzeri che nei dodici mesi precedenti il sondaggio hanno acquistato alcolici al di fuori degli orari classici di apertura è salita dal 25,9% (nel 2011) al 31,7% (nel 2014)”.
E sono soprattutto i giovani ad approfittare degli acquisti serali di alcol: “Rispetto alla media di 22,9 acquisti di alcolici all’anno, registrata tra la popolazione generale, i giovani tra i 15 e i 24 anni, con 37,7 acquisti (e l’aumento più marcato dal 2011), presentano la frequenza d’acquisto più alta. Inoltre, una maggioranza di questo gruppo (il 56,4%) ha acquistato alcolici anche al di fuori dei normali orari di apertura dei negozi, in particolare quando escono la sera”. Una tendenza che non potrà certo essere bloccata dal fatto che in questi negozi non si potranno vendere alcolici dopo le 21: basta organizzarsi…
Per concludere. Non stiamo discutendo di 30 minuti, come vorrebbe farci credere la grande distribuzione, ma di questioni che hanno profonde implicazioni sociali, non da ultimo sui modi di vita dei giovani. Ricordiamocelo ed agiamo di conseguenza con un forte NO alla nuova legge sugli orari di apertura dei negozi.