In questi anni di crisi economica sono riapparse controversie dal sapore geopolitico che implicitamente smentiscono la tesi sulla scomparsa degli Stati-nazione. Una tesi sviluppatasi frettolosamente sulla scia dell’affermarsi della globalizzazione. L’ipotesi era che l’economia avrebbe sbaragliato le altre sfere, a partire dalla politica e dal suo istituto per eccellenza: lo Stato. Ipotesi che non vedeva, invece, come permanesse, e sul fronte finanziario addirittura aumentasse, la complementarità tra economia e politica.
La prima dettando l’agenda alla seconda ne rivelava la dipendenza, come nel ruolo crescente della moneta o nel sostegno pubblico al debito privato. Le difficoltà economiche e finanziarie internazionali che emergono oggi, che fanno temere l’esplosione di una nuova crisi, dovrebbero impedire di scivolare nella tesi opposta, cioè quella che nega vi siano stati processi strutturali di diffusione dell’economia di mercato a livello globale dal carattere profondamente interconnesso. Tutto ruota prevalentemente intorno a ciò che sta accadendo negli Usa. L’economia americana è cresciuta ininterrottamente dal 2010, ma con ritmi inferiori alle attese, soprattutto se paragonati alla mole di denaro immesso nel sistema dalla Fed. La disoccupazione è diminuita, seppur il tasso di occupati non sia mai stato così basso (poco superiore al 60%), l’inflazione è aumentata un poco, e dunque la Banca centrale ha ritenuto a dicembre di iniziare il percorso per far risalire il costo del denaro. La scelta, dettata da ragioni interne, non ha però lasciato indifferenti i restanti attori dell’economia mondiale. I paesi emergenti, che hanno fatto rapidamente della crescita a debito un modello della loro economia reale più che finanziaria, hanno visto aggravare le loro difficoltà in ragione di un indebitamento dell’impresa sempre più pesante. L’aumento del dollaro poi determina l’accentuazione del ribasso del petrolio, indebolendo diversi paesi produttori come Russia, Venezuela e Stati del Golfo. Ma i problemi ricadono anche su paesi di vecchia industrializzazione come Europa e Giappone. In questi anni di allentamento quantitativo il dollaro si era alzato a tutto vantaggio dell’euro e dello yen, concedendo una boccata d’ossigeno a paesi costretti a misurarsi con imponenti debiti pubblici e deflazione. Ma tale scelta alla lunga ha fatto soffrire proprio l’economia statunitense, lasciandola galleggiare intorno a segnali positivi instabili. Si teme una bolla nelle dot.com, il manufatturiero è in recessione. Ragion per cui ora potrebbe decelerare il ritmo di crescita dei tassi, riducendo nuovamente il valore del dollaro. La sola possibilità che ciò accada ha già consentito al dollaro di recuperare lo svantaggio con le altre monete. Compreso lo yen, nonostante a fine gennaio la banca centrale nipponica abbia approvato tassi negativi e annunciato nuovi interventi monetari espansivi. Sembra in corso una guerra valutaria a mezzo delle scelte delle banche centrali. Una guerra che rischia di non produrre vantaggi per nessuno, dato che il gioco risulta a somma zero.
Esiste insomma una tensione permanente tra la sfera locale e quella sovranazionale che dà il senso dell’articolazione con cui si è andato costituendo il sistema economico globale, delle trasformazioni negli equilibri geo-economici. Una interdipendenza il cui sostrato è quella classe cosmopolita di capitalisti monetari, la quale dipende sempre meno dalle quote di profitto realizzate nelle produzioni locali. Ma al contempo periodicamente l’economia reale riporta allo scontro interessi territorializzati, mettendo i bastoni tra le ruote ai capitali finanziari e alla loro necessità di libertà assoluta. Politica, banche centrali, attori e organismi globali inseguono costantemente questo vortice il cui unico effetto certo per ora è la creazione di sempre minore crescita, maggiore inquinamento e diseguaglianza.