La BCE ha dunque deciso di abbassare il suo principale tasso direttore, il tasso di rifinanziamento, che passa dallo 0.05% allo 0% dal 16 marzo. È una novità: questo significa che le banche e gli assimilati potranno ottenere denaro gratuitamente presso l’istituzione monetaria. Il tasso di sconto (tasso di interesse sul mercato monetario per i prestiti a ultra corto termine, qualche giorno) passa dallo 0.30% allo 0.25%. Il tasso di deposito diminuisce ancora di 10 punti base per attestarsi al -0.40%.
Diversi “esperti delle banche” anticipavano una diminuzione al -0.50%. Allo stesso modo, la possibilità di un sistema di tassi negativi differenziati, in funzione dell’ammontare dei depositi, è stata pure dibattuta. Ma non è ancora all’ordine del giorno. Bisogna ancora attendere.
“Questi tassi bassi, molto bassi dovrebbero restare a questi livelli molto a lungo, al di là della fine del programma di riacquisto degli attivi -che dovrebbe durare fino a marzo 2017. Non dovrebbero a priori diminuire ancora”, ha dichiarato Mario Draghi durante la sua conferenza stampa.
La BCE ha diminuito le sue previsioni relative al tasso di inflazione ai minimi: dall’1% allo 0.1% nel 2016; all’1,3% nel 2017 (anteriormente 1.6%); e 1.6% nel 2018. Allo stesso modo diminuiscono le previsioni di “crescita” del PIL: 1.4% nel 2016; 1.7% nel 2017; 1.8% nel 2018.
Per quanto concerne l’alleggerimento monetario (QE: iniezione di liquidità), la fuga in avanti è impressionante: il suo budget mensile passa da 60 a 80 miliardi di euro. In più la BCE interverrà direttamente sui mercati del credito alle imprese a partire da aprile 2016. Entrano così in gioco anche le obbligazioni emesse dalle società dette di buona qualità (categoria “investimenti”). Ma questo può concernere “de facto” anche imprese indebitate che hanno accumulato i cadaveri nei loro armadi (debiti diversi), come Foxconn (che ha un milione di salariati nella Cina continentale e lavora, tra gli altri, per Apple) l’ha scoperto con Sharp. Le due società sono taiwanesi e dunque si conoscono da vicino. Foxconn è stata pertanto stata in ansia fino all’ultimo momento.
Ma questo non basta: la BCE aumenta il limite di riacquisto di una stessa fonte d’obbligazioni dal 33% del numero di titoli emessi al 50%, ma solo per i titoli emessi dalle organizzazioni internazionali e le banche di sviluppo sovra-governative. In altre parole, prende a carico il 50% di questa parte di debito… E se finisse male? Possiamo scommettere che questa decisione rappresenti un primo passo proprio in vista di questa evenienza. Un test. Nel caso tutti gli indicatori passassero decisamente sul rosso, allora il limite di riacquisto potrebbe essere aumentato per delle imprese private.
Infine, i nuovi programmi di rifinanziamento a lungo termine (TLTRO) saranno riproposti alle banche, per una durata di 4 anni al tasso di rifinanziamento, vale a dire allo 0%! Se il volume dei prestiti di una banca è superiore a un certo livello, questa potrà beneficiare di tassi negativi, fino al -0.4%! Vale a dire che le banche guadagneranno dei soldi dalla BCE se effettueranno prestiti!
Sempre che possano prestare, che delle aziende vogliano investire nella congiuntura odierna, altrimenti non farà che alimentare ulteriormente la “bolla finanziaria” (o meglio le bolle finanziarie).
Ma la BCE risponde anche (e soprattutto) a delle informazioni che possiede – malgrado i dibattiti interni- sulla cattiva situazione delle numerose banche nell’ambito dei cosiddetti “coco bonds”. Un “coco bond” è un’obbligazione convertibile. Inizialmente, sono vendute come obbligazioni: titolo di credito che rappresenta una parte di un prestito a lungo termine emesso da un’impresa, uno Stato o, più in generale, una persona morale.
Ma queste obbligazioni possono trasformarsi in “equities” (cioè delle azioni, più precisamente delle parti di capitale). I “coco bonds” sono un prodotto della cosiddetta ingegneria finanziaria emersa in occasione della crisi del 2008.
C’è stato un periodo di euforia, dato che i rendimenti erano dell’ordine del 7%, 8% e 9% contro un 1% circa delle obbligazioni tradizionali. E, colmo dell’audacia dei regolatori e ingegneri finanziari, i “coco bonds” erano considerati come dei “fondi solidi”, che rispettavano dunque i regolamenti emanati proprio per questo!
Ebbene, la valorizzazione (prezzo) dei “coco bonds” si ribalta – e non poteva essere altrimenti dopo un’ascesa fino alle cime degli alberi, ma non del cielo. Il grafico del Financial Times del 10 febbraio 2016 (cfr qui sopra) lo indica chiaramente. Il ribaltamento è classico: bisogna sbarazzarsi dei “propri cocos” prima della caduta nel crepaccio: senza due sacchi troppo pesanti, ma con una picozza, una corda con un rampone, si potrà addirittura risalire la china ed arrestare la caduta, sempre che il crepaccio abbia dei restringimenti. Prova della gravità, paradossalmente, i “coco bonds” non si sono trasformati in equities, dato che la situazione non è particolarmente attraente in questo settore.
Una lettura di questo grafico è utile per comprendere l’inquietudine che aleggia nelle sale della Deutsche Bank e delle banche italiane, stracolme di debiti dubbiosi. Senza parlare del fallimento della più grande banca portoghese – Banco Espirito Santo – di 19 mesi fa, fallimento che ha suonato l’allarme su scala europea. La crisi finanziaria sta dunque maturando nell’Europa capitalista.
E questo avviene in una situazione dove con ci sarà alcuna risalita sensibile del prezzo de petrolio fino al 2020, quando si farà sentire la caduta degli investimenti attuali nella ricerca e dunque un a possibile “penuria” . Parallelamente la situazione si degrada in diverse economie come la Cina, il Brasile, senza parlare della Nigeria o del Sudafrica. E questo in un clima di guerre reali. La diminuzione dei prezzi dei cocos è l’espressione di una crisi le cui radici si situano in una combinazione di sovrapproduzione e sovraccumulazione di capitale e di “governance” delle principali istituzioni nazionali e internazionali, dall’OMC alla BCE, con le proprie contraddizioni interne che traducono una parte dei conflitti interimperialisti in atto.
Questi si prolungano con quelli tra l’URSS e gli Stati Uniti, la Cina e gli Stati Uniti, tra questi ultimi in “Medio Oriente”,… (Ritorneremo su questo punto in un altro contributo) (1).
Si deve tuttavia inserire tutto questo all’interno di un processo dove la distruzione del capitale – condizione necessaria per una ripresa, ma non sufficiente – non è stata all’altezza delle speranze delle elites del capitale transnazionalizzato e della politica dei loro Stati di riferimento. Da qui il prolungamento di un’offensiva massiccia per accrescere il plusvalore assoluto (tempo di lavoro, intensità,…) e il plusvalore relativo (abbassare i costi di riproduzione della forza lavoro).
1. Vorrei comunque già evidenziare il fatto che gli scontri inter-imperialisti prendono la forma di battaglie tra blocchi monetari. Così Yu Yongding –redattore capo del China and World Economy e membro del Comitato consultivo di politica estera del Ministero degli affari esteri cinese e della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma della Repubblica popolare della Cina – dichiara in un’intervista con la banca Notenstein-La Roche (marzo 2016): “La caduta del RMB (renminbi) provocherà la collera degli Americani e la Cina sarà accusata di condurre una guerra monetaria. Ma non vedo migliore alternativa. Il RMB tallona il dollaro da anni, guadagnando più del 15%. Un certo correttivo è necessario, al di là del fatto che la diminuzione risulta più dalle uscite di capitale, che dagli interventi della PBOC (banca centrale).” (p. 7) Evidentemente, un personaggio del genere non può certo ammettere che queste uscite di capitale sono la risultanza della perdita di fiducia da parte della burocrazia celeste nella propria posizione socio-economica e delle incertezze sulla stabilità sociale di un paese marcato da grandi sconvolgimenti sociali.