In tempi di Quantitative easing e di politiche monetarie globali ancora del tutto ultra-espansive, torna a far parlare di sé proprio il debito pubblico. Semplificando ecco cosa starebbe avvenendo. A qualsiasi latitudine le politiche monetarie in questi anni non sono riuscite a far ripartire la crescita economica, nonostante un’immensa mole di denaro impiegata, ma perlomeno sono riuscite nell’intento di raffreddare la crisi dei debiti sovrani attraverso un abbassamento macroscopico dei tassi offerti per i titoli pubblici.
Tutti i paesi così hanno assistito almeno a un abbassamento formidabile del costo del rifinanziamento del proprio debito. L’unico protagonismo in campo, quello delle banche centrali, dunque, sarebbe servito a far prendere fiato a governi e imprese che a loro volta avrebbero dovuto riorganizzare politiche economiche tese a far ripartire la crescita e, in definitiva, a riassorbire l’immensa mole di debiti dilatata con la crisi. Oggi però emerge che la ripresa è pressoché assente, che l’inflazione (che avrebbe potuto mangiarsi un po’ di quei debiti) lo è completamente e che il peso di quei debiti è andato aumentando sia in termini assoluti sia relativi al Pil.
Da qui i richiami della Commissione europea a paesi come l’Italia, di cui vengono riconosciuti gli sforzi compiuti in termini di rigore, ma dove il debito pubblico resta «fonte di vulnerabilità per l’economia», non fosse altro perché tra il 2014 e il 2015 è nuovamente cresciuto, seppur di poco, passando dal 132.4 al 132.8% del Pil. Come a dire che le raccomandazioni austeritarie vengono eseguite, ma fino a quando non saranno tutte realizzate, i risultati non si potranno neppure intravedere. Ma ciò che preoccupa maggiormente la Commissione è che l’Italia con la sua insopprimibile parabola debitoria possa costituire una «fonte di potenziali ricadute sugli altri Stati» in ragione della sua centralità nell’eurozona. Derubricata la Grecia, per quanto il paese ellenico sia lontano dalla soluzione dei suoi problemi, ora a preoccupare a livello sistemico torna a essere l’Italia. L’instabilità globale dunque rischia di far tornare il debito pubblico sotto i riflettori, a partire dai paesi che ne possiedono uno enorme. La Commissione europea mette sul banco degli imputati sette paesi che, nonostante i loro piani di aggiustamento, sarebbero a rischio di sforare le regole del Patto di Stabilità. Insomma non verrebbe fatto abbastanza per risanare i debiti pubblici e ai primi timidi segnali di ripresa si teme il ritorno di politiche lassiste. In realtà la crescita europea ruota intorno a pochi decimali e non consente manovre espansive; anzi per avvicinarsi ai parametri auto-inflitti si persevera nel rigore dei conti attraverso riduzione delle spese, privatizzazioni, destrutturazione dei mercati del lavoro, contribuendo a deprimere i rispettivi contesti nazionali. Il problema non si esaurisce su scala europea: la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) nel suo rapporto trimestrale individua alla radice delle turbolenze di inizio anno da un lato il debito pubblico cresciuto costantemente nei paesi avanzati e dall’altro quello privato esploso in molti emergenti, il tutto aggravato dal rallentamento della produttività che non consente una stabile ripresa.
Gli Usa costituiscono un caso paradigmatico per le politiche monetarie adottate, per l’innovazione tecnica prodotta, per i ritmi accettabili di crescita. Durante la presidenza Obama, cioè durante il periodo più significativo delle politiche contro la crisi, il debito americano è salito da 10 a 18 miliardi di dollari, passando dal 76 al 103% del Pil. Un’economia indubbiamente più solida e credibile con una moneta centrale per l’economia mondiale, ma dentro un percorso di insostenibilità da cui non si riescono a ipotizzare scappatoie. Uno spettro sembra aggirarsi ancora per il mondo: il debito.