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airishuprisingPoco prima di essere giustiziato per il ruolo avuto nella Rivolta di Pasqua (Easter Rising) del 1916, James Connolly chiese a sua figlia, Nora, se aveva visto la stampa socialista. E, come riferì lei in seguito, concluse: «Non capiranno mai perché mi trovo qui. Dimenticano il fatto che sono un irlandese».

La rivolta si iniziò quando un gruppo di uomini e di donne armati, diretto dalla Fratellanza repubblicana irlandese (IRB, Irish Republican Brotherhood) e dall’Esercito civico irlandese (ICA, Irish Citizen Army) di Connolly, proclamò la “Repubblica Irlandese” dall’edifico della Posta generale di Dublino. Volevano por fine al dominio britannico in tutta l’Irlanda. Non avevano alcun mandato popolare e vennero facilmente schiacciati dai britannici. I loro dirigenti vennero giustiziati, i militanti di base e i presunti simpatizzanti incarcerati senza giudizio.

Sia allora sia in seguito molti socialisti si sono meravigliati del fatto che Connolly si trovasse lì: perché mai un internazionalista, per cui ciò che era importante era la classe e non la nazione, si era unito a coloro che ritenevano prioritaria la lotta di liberazione nazionale in Irlanda? O, per arrivare a noi, perché gli odierni marxisti, socialisti, femministe, dovrebbero unirsi ad altre persone che si collocano politicamente alla loro destra per commemorare il centenario della Rivolta di Pasqua irlandese, e dire che coloro che vi presero parte sono “nostri compagni”?

Effettivamente allora molte persone di sinistra, in Gran Bretagna e a livello internazionale, ebbero non poche difficoltà a comprendere la rivolta. «Forward», il giornale di sinistra scozzese al quale Connolly aveva collaborato, parlò di «follia, malvagità, o entrambe le cose» (madness, badness or both); «Labour Leader», il giornale del Partito laburista indipendente (Independent Labour Party), collocato a sinistra del Partito laburista, anche se vi era affiliato, scrisse che «condannava nel modo più assoluto i responsabili della rivolta»; «The Socialist», giornale del Partito laburista socialista (Socialist Labour Party), del quale Connolly era stato il primo segretario generale, era talmente imbarazzato dal ruolo che questi aveva avuto nella rivolta che per un paio di anni non vi accennò neppure; quanto al Partito laburista, uno dei suoi più importanti esponenti, il deputato e dirigente sindacale J. H. Thomas, disse: «Non v’è un solo dirigente laburista in questo Paese che non deplori la recente ribellione in Irlanda».

Tanto più che ciò avveniva mentre la Gran Bretagna era impegnata nella Grande Guerra, con un intervento sostenuto tanto dal Partito laburista quanto dalla TUC [i sindacati]: era dunque comprensibile che reagissero negativamente a una dichiarazione di guerra nei loro confronti in Irlanda. Inoltre, nonostante la Grande Guerra non fosse approvata da tutti i settori della sinistra, la maggior parte di coloro che vi si opponevano lo facevano da posizioni pacifiste: pertanto, erano ben poco propensi a solidarizzare con la Rivolta e col suo apparente militarismo. E, in effetti, quasi sempre non lo fecero. Il pacifista di sinistra George Lansbury scrisse nel suo quotidiano «Daily Herald»: «Ogni amante della pace non può che deplorare la rivolta di Dublino».

Vi furono delle eccezioni. Un esempio in questo senso è quello della nota suffragetta socialista Sylvia Pankhurst e della sua rivista «Woman’s Dreadnought». Scrivendo immediatamente dopo la rivolta, Pankhurst sosteneva che «la giustizia può dare un’unica risposta alla ribellione irlandese: che l’Irlanda possa governarsi da se stessa». Benché proseguisse definendo «temeraria» la rivolta, aggiungeva che quella «impresa disperata era senza dubbio animata da alti ideali». Concludendo l’articolo, non lasciava dubbi sulle sue simpatie: «Comprendiamo i motivi della ribellione in Irlanda e partecipiamo al dolore di coloro che oggi piangono i ribelli che il governo ha fatto fucilare».

La successiva edizione del «Woman’s Dreadnought» andò oltre, con una testimonianza di una compagna di Sylvia Pankhurst, Patricia Lynch, una giovane irlandese che viveva in Inghilterra che però aveva assistito agli avvenimenti. Il suo lungo articolo, Scenes from the Irish Rebellion, era un eccellente esempio di reportage rivoluzionario, basato su ciò che aveva visto a Dublino e su interviste ad altri testimoni oculari, soprattutto donne della classe operaia. Descrisse come simpatizzassero con la rivolta, collocando quest’ultima nel suo preciso contesto politico e sociale, che molti nella sinistra britannica ignoravano.

«I poeti e i sognatori non fanno le rivoluzioni», scriveva Patricia Lynch. «Dietro anche la più minuscola rivolta ci dev’essere un malessere popolare. A Dublino per gli uomini e per le donne della classe lavoratrice è impossibile vivere come esseri umani. Le loro condizioni di vita sono più letali che nelle trincee: ogni sei bambini che nascono, uno muore. Deve forse sorprenderci il fatto che degli uomini e delle donne di valore, vedendo ignorate le loro richieste, abbiano unito la loro protesta a quella dei riformatori politici?»

Infine, naturalmente, c’era un certo Vladimir Ilic Lenin che, come risposta ai marxisti di vari Paesi che avevano criticato la rivolta, scrisse: «Coloro che restano in attesa di una rivoluzione pura non ne vedranno mai alcuna», per poi rivolgersi a quelli che sostenevano si fosse trattato di un “putsch”:

«Chiunque definisca una ribellione come questa un putsch è o un reazionario incallito o un dottrinario disperatamente incapace di concepire una rivoluzione sociale come un fenomeno vivo. Pensare che la rivoluzione sociale nelle colonie sia concepibile senza rivolte […] significa ripudiare la rivoluzione sociale».

Questa difesa, però, non chiarisce le motivazioni esplicite dei partecipanti alla Rivolta di Pasqua. Per farlo, è innanzitutto necessario comprendere il contesto locale e internazionale. Da secoli gli irlandesi tentavano di liberare il proprio Paese dal dominio politico ed economico inglese. In Irlanda, durante la maggior parte di questo periodo vi furono opinioni contrastanti sia sul come conseguire questo obiettivo, sia sul come e il quando questo dominio sarebbe terminato. La Fratellanza repubblicana irlandese (IRB) e l’Esercito civico irlandese si collocavano decisamente nell’ala militante di questa tradizione. E cioè, volevano una separazione completa dalla Gran Bretagna e la creazione di un’Irlanda che, come aveva scritto Connolly nel 1897, fosse «il contenitore naturale del potere popolare».

Nello stesso articolo dove compariva questa frase, Connolly sosteneva che «tutti i movimenti borghesi finiscono in compromessi» e che «i rivoluzionari borghesi di oggi diventeranno i conservatori di domani». Dal 1914 ciò era già del tutto evidente in Irlanda. Il partito nazionalista irlandese, diretto da John Redmond, aveva offerto il suo appoggio ai britannici nella Grande Guerra, invitando il popolo irlandese ad arruolarsi nell’esercito britannico. In cambio di ciò, aveva ricevuto la promessa di un autogoverno interno [Home Rule] al termine del conflitto: sostanzialmente, quel che oggi diremmo una devoluzione [devolution], anche se in un formato ridotto rispetto a quella della Scozia odierna. Per Connolly e per l’IRB il compromesso di Redmond era vergognoso, e per di più ottenuto col sacrificio di migliaia di soldati irlandesi nella guerra della Gran Bretagna. «Gli uomini che hanno retto l’Irlanda hanno fatto qualcosa di diabolico», scrisse il leader dell’IRB Padraic Pearse, e non è necessario sottoscrivere questa sua immagine piuttosto metafisica per condividerne il profondo sdegno.

Pertanto, per Connolly e Pearse la rivolta del 1916 non era solo contro i britannici, ma anche contro i «rivoluzionari borghesi» d’Irlanda. Per Connolly, poi, fu anche una guerra contro la Grande Guerra. E infatti, poco prima della rivolta, disse che erano proprio le circostanze della guerra che esigevano una rivolta armata. Allo scoppio del conflitto egli aveva scritto che «se la classe operaia europea, invece di massacrarsi a vicenda a tutto profitto dei re e della finanza, erigesse barricate in tutta Europa […] ci sentiremmo pienamente legittimati a seguire un simile nobile esempio». Tuttavia, com’è noto, ciò non avvenne, perlomeno fino al 1917 in Russia. E così, spettava a loro, agli irlandesi: «L’Irlanda può ancora essere la scintilla scatenante della conflagrazione europea, che non terminerà finché l’ultimo trono, l’ultima cedola capitalista, l’ultimo dividendo saranno stati inceneriti nell’ultima pira funeraria dell’ultimo signore della guerra». Com’è noto, anche questo non si verificò: ma ciò non significa che non ne valesse la pena. Tanto più, e anche questo va ricordato, che la sconfitta della rivolta fu resa tanto più facile perché a una parte dei suoi prevedibili partecipanti, i Volontari irlandesi (Irish Volunteers), fu ordinato di non aderirvi dalla loro direzione. Ciononostante, e quanto meno, la metodologia di Connolly – concepire una rivoluzione nazionale come parte di una lotta internazionale – continua a essere un importante contributo alla teoria e alla pratica rivoluzionarie.

C’era un altro importante motivo che spiegava la partecipazione socialista alla rivolta: nelle proposte britanniche del 1914 di una Home Rule era compresa la possibile spartizione dell’Irlanda. Ciò sarebbe stato, soprattutto per Connolly, un disastro, poiché avrebbe significato la divisione permanente della classe operaia irlandese. Le sue conseguenze, aveva predetto, sarebbero state un «carnevale della reazione» da una parte e dall’altra della frontiera: «Ogni speranza di unire i lavoratori indipendentemente dalla religione e da antichi conflitti svanirà». Il 1916 e la rivoluzione che ne seguì non riuscirono a impedire la divisione, e, di fatto, qualcosa di abbastanza simile a un «carnevale della reazione» si ebbe in seguito: ciò che, già di per sé, era un argomento sufficiente per tentare di evitarlo.

Molte delle motivazioni di Connolly per la sua partecipazione alla rivolta non furono comprese dai socialisti britannici nel 1916, anche se chiunque avesse letto i suoi scritti sul socialismo e il nazionalismo o sulla guerra difficilmente avrebbe potuto ingannarsi. Nei cinque anni successivi coloro che si sforzavano di instaurare la repubblica proclamata dai protagonisti della rivolta sottoposero molti interrogativi alla sinistra e al movimento sindacale britannici. E poiché il periodo postbellico fu anche uno dei più militanti della storia della classe operaia britannica, quegli interrogativi erano particolarmente pertinenti. Erano tanto universali come locali: riguardavano il parlamentarismo, la lotta armata, gli scioperi generali, il dualismo di potere, il socialismo e il nazionalismo, e, nel contesto locale, la divisione della classe operaia irlandese. Per quanto riguarda la lotta per il conseguimento del «potere popolare» tali interrogativi valevano per l’Irlanda quanto per la Gran Bretagna. La Rivolta di Pasqua fu solo un punto di partenza, ma questo punto di partenza fu reso possibile dalla partecipazione alla rivolta di Connolly e dei suoi compagni.

 

*Geoffrey Bell, nato a Belfast, ha pubblicato da poco Hesitant Comrades, the Irish Revolution and the British Labour Movement (Pluto Press, London, 2016), che è stato presentato a Londra nei giorni scorsi, con la partecipazione di Bernadette Devlin e del regista Ken Loach.

Titolo originale: The Easter Rising: Comrades of Ours, tratto dal sito inglese di Socialist Resistence.

 

NOTA ESPLICATIVA

Il testo di Geoffrey Bell si rivolge soprattutto a un pubblico inglese e irlandese, che si suppone a conoscenza, almeno a grandi linee, dei fatti, che in generale sono però poco noti in Italia. Senza pretendere di fornire un quadro esauriente del momento storico e della situazione, forniamo qui di seguito alcune informazioni essenziali.

La Rivolta di Pasqua (24-28 aprile 1916), anche se sul momento prende di sorpresa le forze britanniche, non è che il prodotto, non necessario ma logico, di un concatenarsi di avvenimenti dalle radici lontane (addirittura secolari) che però s’erano andati accumulando sino a produrre una situazione potenzialmente esplosiva negli anni immediatamente precedenti. L’annuncio da parte del governo britannico della Home Rule (poi sospesa in seguito allo scoppio della Prima guerra mondiale) aveva messo in allarme la maggior parte degli irlandesi di religione protestante, concentrati nell’Ulster, e contrari a ogni forma di allentamento del legame con la Gran Bretagna: in una Irlanda unita, autonoma o addirittura indipendente, sarebbero stati una minoranza rispetto ai cattolici. I lealisti (od orangisti) dell’Ulster reagirono all’annuncio creando, tra l’altro, una milizia paramilitare forte di circa 100.000 uomini e donne, inizialmente male armata, ma poi foraggiata abbondantemente sia da settori dell’esercito inglese, sia da forniture tedesche.

È in risposta a questa iniziativa degli orangisti che anche nel resto dell’Irlanda si forma, circa un anno dopo, una milizia paramilitare repubblicana (gli Irish Volunteers), decisamente meno armata della prima. Questa milizia è sotto il controllo politico del Partito nazionalista irlandese di Redmond che, come è spiegato nel testo, collabora allo sforzo bellico britannico, sperando in ulteriori concessioni. Alcuni settori dei Volunteers sono però influenzati dalla Fratellanza repubblicana irlandese, e sono questi che in gran parte (da 1000 a 3000 militanti) verranno coinvolti nella rivolta. Quanto all’Esercito civico irlandese di Connolly, si trattava di una formazione paramilitare di alcune centinaia di militanti sorta qualche anno prima con lo scopo di organizzare l’autodifesa operaia in occasione di scioperi e dimostrazioni, che aveva già dato prova di sé in ripetuti scontri con la polizia e con le organizzazioni sindacali “gialle”. Alla rivolta presero parte anche gruppi di giovani inquadrati nella Fianna e oltre un centinaio di donne organizzate nella Cumann na Mban.

Nei primi giorni i rivoltosi assumono facilmente il controllo dei punti strategici di Dublino, ma nel resto del Paese si hanno solo poche e scoordinate iniziative. I britannici hanno così il tempo di concentrare truppe, circondando completamente la città. Invece di tentare di sloggiare i ribelli dagli edifici occupati, gli inglesi, proprio come se si trovassero impegnati in una guerra coloniale, bombardano con l’artiglieria i quartieri occupati, provocando circa 300 morti fra i civili. È a questo punto che i rivoltosi decidono d’arrendersi, sapendo esattamente cosa li aspettava.

Il bilancio di questi sei giorni di combattimenti non è mai stato stabilito con esattezza, ma oltre ai 300 civili vi sarebbero stati una sessantina di caduti fra i rivoltosi e 130 fra il militari britannici. I feriti furono complessivamente circa 1500.

Nei giorni successivi alla resa cominciarono a lavorare i tribunali, con metodi molto spicci: una media di cinque-dieci minuti di giudizio per ogni imputato, a porte chiuse e in assenza di avvocati. Centinaia di rivoltosi vennero condannati a pesanti pene di prigione (in seguito per la maggior parte ridotte). Quindici fra i maggiori esponenti della rivolta vennero fucilati alla spicciolata. L’ultimo di questi fu Connolly. Ferito durante i combattimenti, aveva una gamba in uno stadio molto avanzato di cancrena, che secondo il medico che l’aveva visitato gli dava, tuttalpiù, ancora due o tre giorni di vita. Non potendo reggersi in piedi, venne condotto sul luogo dell’esecuzione in barella e lì assicurato a una sedia, di fronte al plotone di esecuzione.

Si trattò di una rappresaglia non solo barbara, ma anche stupida, realizzata dal governo liberale di lord Gladstone. Stupida perché, lungi dal servire da “lezione”, suscitò sdegno e indignazione anche in quella parte della popolazione irlandese che non aveva appoggiato la rivolta. Con conseguenze che di lì a pochi anni si sarebbero fatte sentire.

 

Traduzione e nota di Cristiano Dan

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