TTIP: “I trattati di libero scambio sono armi di distruzione di massa”

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attip-cartoon-illustrationIl commercio è la guerra: è la conclusione senza infiorettature cui è giunto Yash Tandon, dopo aver preso parte da vicino, per vari decenni, ai negoziati commerciali internazionali al fianco dei paesi del Sud. Nel suo recente libro, egli mostra come la storia del “libero commercio”, ben lungi dai discorsi sullo sviluppo e la crescita, si riduca al costante predominio sui paesi poveri da parte dei paesi occidentali e delle multinazionali. Con l’attuale dibattito sui Trattati di libero commercio transatlantico, ormai gli europei cominciano a sperimentare la concreta realtà dell’altra parte del pianeta.

E se il commercio internazionale e i trattati di libero commercio altro non fossero, alla fin fine, se non un’arma al servizio delle potenze occidentali e delle loro imprese per sfruttare e continuare a sottoporre alla loro dominazione le popolazioni dell’emisfero Sud e i loro governi?

Siamo ormai abituati a considerare in una luce positiva, o perlomeno neutra, l’arena commerciale internazionale. Le popolazioni povere dei paesi del Sud non hanno forse tutto da guadagnare a commerciare e a esportare i propri prodotti? Dopotutto, il campo delle regole – anche nel caso di quelle commerciali – non si contrappone per definizione a quello della costrizione e della forza bruta? Di certo, si dirà, c’è modo di migliorare il quadro degli scambi mondiali rafforzando le norme sociali e ambientali, ma lo stesso status quo non è pur sempre preferibile a quella che sarebbe l’unica possibile alternativa: la mancanza assoluta di regole?

Queste tranquille certezze, condivise da tanti cittadini europei, cominciano ad essere un pochino scalfite con l’emergere del dibattito sul progetto di Trattato di libero commercio tra Unione Europea e Stati Uniti (il cosiddetto TAFTA [Transatlantic Free Trade Agreement] o TTIP [Transatlantic Trade and Investment Partnership). Un trattato commerciale negoziato in grandissimo segreto, che minaccia di ridurre al minimo qualsiasi regolamentazione sociale e ambientale e di dare alle multinazionali il diritto di perseguire in giudizio i governi che mettessero in atto politiche dannose Avviene che talvolta le “regole” commerciali si possono utilizzare non per rafforzare lo stato di diritto, ma per dar vita a uno stato di non-diritto e di impunità, a profitto dei più potenti.

Per Yash Tandon si tratta della realtà di fondo che si cela dietro tutti i bei discorsi sul contributo del libero commercio allo sviluppo e alla crescita. E, questo fin dall’inizio, ben prima che si trattasse di TAFTA, fin dalla decolonizzazione, fin dai trattati del GATT [General Agreement on Tarifs and Trade – Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio – firmato a Ginevra nel 1947] e dalla nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Come dice l’autore del libro, il cui titolo sintetizza come meglio non si potrebbe la sostanza, la storia del libero commercio e dei trattati commerciali internazionali è innanzitutto la storia della costante dominazione delle popolazioni del Sud da parte dell’Europa e degli Stati Uniti – dapprima nel campo dell’agricoltura e e nel settore alimentare (che rimane tuttora presso l’OMC il contenzioso principale), poi nel settore industriale e, oggi, sempre più nel campo della proprietà intellettuale e dei servizi.

 

Una storia intinta “nel sangue e nella violenza”

Una storia che resta innanzitutto, secondo l’autore, intinta «nel sangue e nella violenza»: «Se si riduce la definizione della guerra alla violenza organizzata che implica armi da fuoco allora, ovviamente, ci sono differenze cruciali, sia nella realtà che nel diritto, tra la guerra e il commercio. Tuttavia il commercio, nella realtà, uccide allo stesso modo delle armi di distruzione di massa».[2] Può uccidere in maniera assolutamente diretta, privando i poveri dell’accesso a medicinali indispensabili con la scusa di proteggere la proprietà intellettuale, distruggendo l’agricoltura di sussistenza e le politiche di autosufficienza alimentare per favorire le esportazioni di materie prime, oppure imponendo sanzioni commerciali che privano le popolazioni dell’accesso ai generi di prima necessità. E comporta anche indirettamente – ad avviso di Yash Tandon – conseguenze drammatiche, ostacolando lo sviluppo industriale dell’Africa e togliendo agli abitanti del continente l’accesso alle risorse naturali. «Migliaia di africani cercano di scappare in Europa a rischio della loro vita, ma all’interno stesso dell’Africa ve ne sono letteralmente altri milioni che sono profughi interni, privati delle terre e delle altre risorse indispensabili alla loro sopravvivenza da parte di compagnie multinazionali che li schiacciano grazie al potere del capitale e della tecnologia».

Questa diagnosi non proviene da un militante inesperto o che si indigna fin troppo facilmente. L’autore ha seguito da vicino i dibattiti commerciali internazionali per decenni, come negoziatore per conto della nativa Uganda, poi per il Kenya, come fondatore e presidente del SEATINI,[3] e poi ancora come direttore del Centre Sud,[4] un centro di intervento e riflessione (una sorta di tink tank) dei paesi del Sud con sede a Ginevra, (fondato nel 1995).

La prova migliore degli stretti legami tra il commercio e i rapporti di forza geopolitici? «L’Organizzazione mondiale del commercio è il solo ente internazionale, insieme al Consiglio di sicurezza dell’ONU, ad avere un potere reale – quello di imporre sanzioni commerciali. Ma le sanzioni sono un atto di guerra». E quelle decretate dall’OMC o in altri ambiti multilaterali hanno sempre puntato ad allinearsi con le scelte delle grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’Europa.

 

Imperialismo

Il libro di Tandon, dunque, costituisce anche una vibrante difesa della pertinenza del concetto di “imperialismo”- un po’ passato di moda – per analizzare i rapporti internazionali. «All’Occidente piacerebbe credere che l’imperialismo si sia concluso con la fine della colonizzazione. Non è così. Il colonialismo bilaterale si è semplicemente trasformato in imperialismo multilaterale. In luogo della Gran Bretagna che governa l’Uganda o della Francia che governa l’Algeria, oggi è l’Europa a dominare l’Africa, accanto agli Stati Uniti e al Giappone. Governano collettivamente tramite le istituzioni della governance mondiale quali il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, l’OMC e l’Unione Europea». L’ascesa di queste istituzioni internazionali, come pure delle potenti imprese multinazionali, con propri specifici interessi distinti da quelli dei rispettivi paesi d’origine, costituisce solo la “reincarnazione” dello stesso sistema mondiale di dominazione. Per Tandon – ma è un punto su cui parrebbe difficile seguirlo – l’emergere della Cina e degli altri BRICS (Brasile, Russia, India, Sudafrica) non cambia molto: anche se i BRICS sono «grandi paesi», «sull’arena del commercio internazionale, della tecnologia, della proprietà intellettuale e della finanza internazionale sono relativamente deboli».

Se all’Unione Europea, in confronto ai suoi partner americani, piace darsi le arie di virtuosa in fatto di regole commerciali e di rapporti internazionali, questo suo modo di porsi non regge alla prova dei fatti. Al contrario delle sue pretese, l’Europa «non ricerca un sistema globale più equilibrato, tutt’altro». E la cosa è di gran lunga peggiorata con l’adozione nel 2006 della strategia “Global Europe”, fortemente influenzata dagli ambienti economici. Il vecchio continente ricorre all’arma dell’OMC in maniera ancor più aggressiva degli Stati Uniti per proteggere i propri interessi e quelli delle sue multinazionali. Con il pretesto di favorire il commercio con i paesi più poveri (i cosiddetti paesi ACP, e cioè l’area dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico), l’Unione Europea cerca anche e soprattutto, e sempre più, di favorire i propri interessi, imponendo loro Accordi di partenariato economico (APE), sopprimendo qualsiasi forma di garanzia dei loro mercati interni.

 

Uno stato di diritto di facciata

Se le regole del commercio internazionale sono cosi utilizzate in favore degli interessi economici occidentali, come spiegare allora che i dirigenti dei paesi del Sud continuino ad essere acquiescenti alle condizioni imposte da Europa e Stati Uniti e ai trattati che vengono loro imposti? «In teoria, i governo sono “liberi” di accettare o respingere le disposizioni contenute negli accordi commerciali. Nella pratica, i governi del Sud sono ostaggi dell’aiuto internazionale, dei capitali e della tecnologia degli occidentali. I paesi del Sud possono proteggersi solo ergendo barriere commerciali, ma non sono autorizzati a farlo dalle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio».

I trattati commerciali internazionali offrirebbero dunque solo la parvenza del diritto, mascherando la realtà di costrizione, come dimostra il doppio volto dell’OMC: «Certo, l’OMC rappresenta una piattaforma di negoziato internazionale multilaterale (perlomeno a Ginevra [la sua sede]). Gli accordi di area come il TAFTA o Il Trans Pacific Partnership (TPP) sono trattati plurilaterali che non sono retti da alcuna regola. In certo senso, sono più pericolosi. Tuttavia, va precisata una cosa: l’OMC è regolata solo a Ginevra. Quando tiene le sue Conferenze ministeriali fuori Ginevra – ad esempio a Nairobi nel dicembre 2015 – l’OMC si trasforma in un mostro tirannico. Si dimenticano tutte le regole, e l’Impero esercita il proprio potere nudo e crudo per mettere in riga i paesi del Sud. Io ho preso parte a quasi tutte le Conferenze ministeriali dell’OMC, e nel mio libro descrivo come sono andate realmente le cose». Testi firmati nei “saloni verdi” senza averli letti, decisioni prese da un gruppo ristretto di paesi (paesi occidentali e qualche paese del Sud accuratamente selezionato) che diventano obbligatorie per gli assenti, interpretazione del diritto a vantaggio dei più potenti…: è la triste realtà di questa istituzione. E, quand’anche i paesi del Sud riuscissero qualche volta a tener testa all’OMC, i paesi occidentali possono sempre aggirare l’ostacolo privilegiando i trattati bilaterali o altre forme di trattativa commerciale.

Per questo Yash Tandon ritiene, nonostante le speranze di alcune Organizzazioni non governative (ONG), che «l’OMC non è riformabile». La disparità dei rapporti di forza tra le potenze occidentali e le altre le è consustanziale. Essa prende innanzitutto di mira l’unità dei paesi del Sud (che può sembrare però sempre più problematica) e soprattutto sulle alleanze tra la società civile e i paesi del Sud più volontaristici, che hanno permesso qualche parziale successo nel campo dell’agricoltura o dell’accesso alle medicine.

 

TAFTA, o l’Occidente sottoposto alla sua stessa medicina

Si può pensare che con il progetto di Accordo transatlantico di libero commercio sia un po’ come se gli interessi economici occidentali, soprattutto le multinazionali, si apprestassero a far subire alle nazioni europee e nordamericane lo stesso trattamento da queste riservato per decenni ai paesi dell’emisfero Sud? Forte della sua esperienza, Tandon guarda con occhio favorevole le attuali mobilitazioni in Europa contro il TAFTA, ma senza farsi troppe illusioni.

«Le multinazionali occidentali hanno cominciato a rivolgersi contro le loro stesse popolazioni, a partire dall’intensificarsi della mondializzazione negli anni Novanta. Quel che c’è di nuovo è la regionalizzazione della mondializzazione neoliberista. L’attuale dibattito sul Tafta e il TPP [TransPacific Partnership, progetto di trattato di libero commercio tra gli Stati Uniti e una quindicina di paesi dell’area del Pacifico] sia il benvenuto. Io credo però che, in Europa, si focalizzi troppo sull’aspetto economico e giuridico. La dimensione militare del TAFTA e del TPP resta largamente ignorata, laddove costituisce un altro dei risvolti della NATO. È il motivo per cui gli Stati Uniti riescono a convincere i governi europei a sottoscrivere il TAFTA».

«Noi in Africa abbiamo subito le conseguenze del nostro proprio TAFTA imposto dall’Unione Europea: gli Accordi di partenariato economico (APE). In tutti questi anni ci sono stati pochi dibattiti in Europa, anche in seno alla sinistra, sulla situazione che ci hanno creato, e meno ancora c’è stata solidarietà concreta. Ora che la sinistra si è impegnata con decisione nella battaglia contro il TAFTA – suggerisco di includere anche gli APE (la versione imperialista Nord-Sud del TAFTA) nei suoi discorsi e nella sua lotta».

Il libro di Yash Tandon ci interpella a doppio titolo. Innanzitutto, come antidoto all’ingenuità e come salutare richiamo alla realtà dei rapporti di forza in materia di commercio internazionale. Il suo totale rifiuto della possibilità di riformare l’OMC e le attuali regole commerciali – e a maggior ragione il TAFTA – può apparire radicale, ma indica bene quale sia il vero standard cui tali accordi dovrebbero essere sottoposti per essere democraticamente legittimi. In secondo luogo, ci interroga perché suggerisce che l’attuale contestazione civica del progetto di trattato transatlantico non diventerà realmente pertinente ed efficace se non rientrerà anche nel processo globale di rimessa in discussione dell’attuale sistema commerciale mondiale.

 

[1] Si tratta della recensione del recente lavoro di Yash Tandon, Le commerce c’est la guerre, Prefazione di Jean Ziegler (traduzione di Julie Duchatel), CETIM, Ginevra, 2015, pagine 224.

[2] Dichiarazione raccolta per posta elettronica il 24 settembre 2015.

[3] Istituto di informazione e trattative commerciali dell’Africa australe e orientale, una struttura volta al sostegno dei paesi africani nei negoziati commerciali.

[4] ‘Organizzazione intergovernativa (OIG) dei paesi in via di sviluppo, volta ad unire forze e competenze a sostegno dei loro comuni interessi sulla scena internazionale, con propria autonomia intellettuale. Gode dello statuto di osservatore all’ONU e in altre organizzazioni internazionali

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