Tempo di lettura: 2 minuti

aaKAK loi Travail el Khomri Hollande Medef Gattaz embrasse-moi sur la boucheSta seguendo le orme di Renzi il governo francese di François Hollande: e sono infatti molti a paragonare la riforma della Legge sul Lavoro francese presentata dal governo al jobs act approvato poco più di un anno fa dal Parlamento italiano. Riforma del mercato del lavoro, aumento della flessibilità, facilitazione dei licenziamento: sono gli stessi contenuti che accomunano le due riforme e che, val la pena ricordalo, riprendono molte delle raccomandazioni che in questi anni hanno riempito le circolari e i documenti in provenienza dalle riunioni dell’Unione europea. Così in Francia, le esigenze aziendali (concorrenza, calo di lavoro, calo degli ordini e delle vendite, riorganizzazione produttiva) saranno motivi sufficienti per licenziare.

Profonde e importanti modifiche anche nella flessibilità dell’orario di lavoro. Oggi fissato a 10 ore massime al giorno, potranno diventare 12. Profondamente modificato il già assai flessibile sistema dell’orario settimanale di lavoro (l’oramai “mitica” legge sulle 35 ore). Così, rispettando la media di 35 ore, già oggi si può salire fino ad un massimo di 48 ore: con la riforma presentata si potrà arrivare fino a 60 ore. E anche le ore straordinarie, quando si riuscirà a farsele pagare in questo contesto, verranno indennizzate al minimo
Basterebbe questi brevi richiami a due dei molti mutamenti che peggiorano la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici in Francia per spiegare le ragioni per le quali nelle ultime settimane (e ancora lo scorso 9 aprile) abbiamo assistito ad importanti manifestazioni in tutta la Francia.
Una mobilitazione che ha coinvolto non solo (e forse ancora in misura del tutto insufficiente) i salariati: ma i giovani, gli studenti, i pensionati: in breve tutta la società francese. Che ha scoperto, oltre alle tradizioni forme di protesta, anche nuove forme (di cui parliamo nel resto del giornale) come quella, particolare, di “Nuit debout”.
La lotta continua, tra alti e bassi, e appare più che mai necessario un coinvolgimento più profondo e più attivo dei salariati: unica condizione per poter dare scacco ad un governo la cui natura neoliberale e antioperaia non deve più essere illustrata, talmente è evidente.
Alle nostre latitudini ci si offende poiché spesso usiamo l’appellativo social-liberale per qualificare le politiche che le forze maggioritarie della sinistra conducono nel nostro paese e in molti altri paesi europei: dall’Italia alla Francia, dalla Germania (in alleanza con la Merkel) alla Svezia.
Ebbene gli anni più recenti, le evoluzioni sociali e politiche dei dirigenti di questi partiti, della loro struttura direttiva, dei loro metodi di gestione (basti pensare alla famigerate “primarie” ormai onnipresenti), hanno mostrato una evoluzione sicuramente peggiorativa di questi partiti. E ci si può addirittura chiedere se la prima parte dell’appellativo “social” non abbia ormai perso ragione di essere, non abbia ceduto anche quel poco che significava.
Perché quello che sta succedendo in Francia è proprio questo: la trasformazione aperta e decisa di un governo e dei partiti che lo sorreggono in strumenti al servizio del capitale e della sua logica di sopraffazione sui salariati.
Non è la prima volta che succede nella storia. La storia del ‘900 ci ha abituati ad “abiure” e “tradimenti” altrettanto drammatici e fondamentali, Tutte situazione dalla quali, anche attraverso drammi sociali e collettivi (come il fascismo e lo stato attuale delle cose non può che ricordare il riaffiorare di fenomeni sociali che ad esso possono in qualche modo richiamarsi seppur di natura in gran parte diversa), si sia avviato un processo di ricostruzione politica e sociale del movimento dei lavoratori, in forma nuove e su basi nuove.
Forse la storia di questo primo scorcio del 21° secolo sta imboccato, nuovamente, questo difficile e lungo percorso.