Il contesto internazionale si complica e il Fondo monetario internazionale ha annunciato un ritocco verso il basso delle stime di crescita globale del 2016. Ogni ricetta della teoria neoliberista resta al palo. Austerità, riforme, competitività, sono ormai divenute parole vuote, non riescono a incarnare neppure l’idea di un programma credibile.
Mancano politiche economiche all’altezza della situazione e l’unico iper-attivismo in campo resta quello delle banche centrali, il cui immediato e concreto effetto risulta la strisciante guerra valutaria dal prevedibile risultato a somma zero. In una prima lunga fase l’immensa mole monetaria (dal 2008 nei soli Usa è quadruplicata) ha consentito la normalizzazione dei mercati finanziari e il raffreddamento della crisi dei debiti sovrani. È mancato il passaggio seguente, cioè le ricadute sull’economia reale. Quello che gli economisti definiscono lo «sgocciolamento» degli effetti positivi non è avvenuto, se non in misura sproporzionata all’impegno profuso. La finanza salva se stessa, ma senza una ricaduta sull’economia reale e quest’ultima prima o poi ripresenta il conto. L’autonomia della finanza non è completa e incondizionata neppure ai tempi della finanziarizzazione. Gli ultimi indirizzi in fatto di alleggerimento monetario, dunque, provano a contrastare proprio questo limite. La Bce con il suo cosiddetto Quantitative easing 2.0 prova ad elaborare scelte organiche che favoriscano il credito a imprese e cittadini e che tengano bassi i costi dei debiti pubblici. Ma da più parti ormai si sente affermare che la politica monetaria da sola non può bastare. In effetti il credito della Bce finalizzato all’economia reale (i vari Ltro) non ha mai raggiunto gli obiettivi prefissati, in taluni casi è stato persino interrotto anzitempo. L’impresa europea, in special modo quella dei paesi periferici, riceve credito per l’80% dalle banche. Non esiste un sistema di reperimento di risorse finanziarie alternativo e i vari tentativi per crearlo finora sono andati male. Troppo spesso si pone l’accento sul lato dell’offerta di credito e non sulla domanda. Ma è lì che vi sono i problemi più grossi e non facilmente aggirabili. Ormai l’offerta di credito ha raggiunto costi irrisori, ma come si suol dire si può portare il cavallo a una fonte d’acqua, ma non si può obbligarlo a bere. Non è un caso che dall’inizio dell’anno il sistema bancario in Europa sia in affanno, trascinando le importanti banche del centro-nord come quelle elvetiche (l’indice Stoxx nel 2016 è sotto del 26%, del 38% a un anno). Il quadro di incertezza generalizzato, le stime di crescita modesta previste per un tempo non precisato insieme a una generalizzazione del rischio deflazione inducono a ridotti investimenti e a modesti consumi. La crescita di volta in volta costituisce il presupposto e il possibile risultato, senza svilupparsi davvero, dentro un cortocircuito infinito. Così il protagonismo delle banche centrali, compreso quello della banca centrale statunitense che diluisce il rialzo dei tassi d’interesse, tutela il sistema finanziario, ma non riesce a rilanciare l’economia. L’espansione monetaria diventa arma convenzionale e inefficace al contempo, sembra rappresentare prevalentemente una proroga alla politica dei governi delle consuete (contro)riforme, quelle che da alcuni decenni vengono somministrate in dosi sempre crescenti a tutte le latitudini. Sono attesi, dunque, nuovi provvedimenti dei legislatori per aumentare la competitività del proprio sistema economico a danno dei vicini, in un’assurda rincorsa che ha come unico risultato certo il costante ripiego delle condizioni di lavoro e di vita per le classi subalterne. La stagnazione così diventa strutturale, bassa crescita e compressione costante dei costi, nessuna idea su come uscirne, solo arrangiamenti sul solito spartito dell’economia di mercato. L’unica boccata d’aria fresca viene dalle mobilitazioni francesi, solo rompendo le attuali compatibilità è ipotizzabile una vera uscita dalla crisi.