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aaabanksLe intercettazioni che hanno provocato le dimissioni della ministra dello sviluppo economico Guidi, facendo venire alla luce lo scandalo degli appalti milionari legati all’area di Tempa Rossa, hanno fatto emergere anche le difficoltà del governo Renzi in questa fase. Prima del referendum sulle trivelle diversi quotidiani si erano soffermati sulle difficoltà del momento e le sfide che attendono il governo nel prossimo periodo. Sul Corriere della Sera Lucio Fontana in un articolo del 2 aprile scrive che “ripetere che «tutto va bene» non basterà a produrre risultati e a convincere un paese scosso dalla crisi e dalle inchieste della magistratura”.

La vicenda Tempa Rossa è la cartina di tornasole degli intrecci tra politica, affari e lobbies nel nostro paese e non rappresenta una novità se non nella misura in cui contribuisce a scoperchiare un vaso di Pandora che è un’ulteriore complicazione alla gestione della crisi capitalistica nel nostro paese, nel periodo più basso del governo dal punto di vista della sua popolarità. A questo proposito l’11 aprile, il quotidiano La Repubblica, in una rubrica dal titolo “La situazione”, si soffermava sui dati dei sondaggi che “mostrano la possibilità concreta di una vittoria del Cinquestelle alle politiche del 2018” e ancora che questo “è un campanello d’allarme che rimette in discussione l’esistenza stessa dell’Italicum, il fiore all’occhiello delle riforme renziane”. Molti commentatori sottolineano la fine della fase in cui Matteo Renzi aveva saputo presentarsi come la novità in rottura anche rispetto al passato del centrosinistra, come colui che era riuscito ad arginare l’avanzata del movimento di Grillo perché, specie in occasione delle elezioni europee, aveva saputo parlare ad un elettorato insoddisfatto e sfiduciato. Infatti, sempre Lucio Fontana, evidenzia come lo scenario ora sia diverso e che se “per il premier il vero giudizio sul governo gli italiani lo daranno in autunno nel referendum sulla riforma costituzionale”, in realtà, “ci sono alcune emergenze economiche e sociali che fanno dubitare che i tempi saranno questi”. I passaggi delicati per il governo sono sostanzialmente tre: il referendum sulle trivelle che si è tenuto il 17 aprile e di cui tutti conosciamo il risultato, le amministrative che si terranno il 5 giugno e il referendum costituzionale indetto in ottobre. Piuttosto che sulle prove che attendono il governo nei prossimi mesi, in questa sede, è più interessante soffermarsi sulle “emergenze economiche e sociali” di cui parla Fontana sia perché ci aiutano meglio ad inquadrare il nostro paese nella fase attuale sia perché in questa situazione potrebbero aprirsi nuove contraddizioni.

Le difficoltà, nella gestione di questa fase, potrebbero interessare non solo il governo Renzi e la borghesia (che il suo governo rappresenta e difende) ma potrebbero avere importanza anche per tutti/e coloro che, in questo paese, si stanno battendo per costruire, contro questo sistema, un’alternativa anticapitalista e Sinistra Anticapitalista è tra questi soggetti.

 

A che punto siamo: le emergenze economiche e sociali

Secondo l’ultimo bollettino della Banca d’Italia, i cui dati sono stati resi pubblici nel mese di aprile, nel primo trimestre del 2016 la “crescita sarebbe ancora moderata” anche se “lievemente superiore ai tre mesi precedenti”. Si sottolinea, poi, come “il consolidamento della crescita è fondamentale, anche per contrastare l’avvio di spirali negative tra l’andamento dei mercati azionari e del credito, accelerare il riassorbimento dei crediti deteriorati del sistema bancario, assicurare il proseguimento della riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL”. Proprio riguardo al debito pubblico il Sole24Ore del 16 aprile riporta che il dato assoluto del debito in febbraio è risultato pari a 2.214,9 miliardi, ben 21,5 miliardi in più, con un incremento del 2% rispetto al debito dello stesso mese dello scorso anno. È da notare poi che se, quest’anno, il ministro Padoan punta sulla crescita e sulla riduzione del rapporto debito/PIL (dal 132,7% al 132,4%), le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sono state riviste al rialzo per cui nel 2016 questo rapporto passerebbe dal 132,6% al 133%. Un altro passaggio di questo rapporto spiega come la forchetta dello sviluppo possibile nel 2016 oscilla fra l’1e l’1,2%, secondo quanto previsto dall’FMI (previsione più bassa) e dal Documento di Economia e Finanza presentato per il 2016 dal governo (previsione più alta).

A questi dati bisogna aggiungere le rilevazioni della BCE che, nel suo rapporto annuale, parla di un 2016 impegnativo sotto tutti i punti i vista. La situazione italiana è sotto i riflettori visto che il nostro paese “è tra i quattro stati il cui bilancio 2016 è stato stimato a rischio di non attuazione, rispetto alle regole del Patto di stabilità e di crescita”, anche se il giudizio definitivo su questo è atteso dopo le previsioni economiche della primavera. Infatti, in questi giorni sono ferventi le relazioni tra i diversi rappresentati delle istituzioni europee e sono programmate, nelle prossime settimane, diverse riunioni di analisi e di bilancio dei conti pubblici.

Il governatore della BCE, Mario Draghi, come riportato da La Repubblica del 07 aprile, ha dichiarato senza mezzi termini che “le prospettive per l’economia mondiale sono circondate da incertezza” e che “si pongono interrogativi riguardo alla direzione in cui andrà l’Europa e alla sua capacità di tenuta di fronte a nuovi shock”. Draghi poi ha messo ancora una volta l’accento sull’alta disoccupazione giovanile che “colpisce la generazione più istruita di sempre” e verso cui bisogna “agire velocemente per evitare una generazione perduta”.

Una delle preoccupazioni principali dei nostri governati è legata ancora una volta alla tenuta delle banche e il nostro paese è stato nell’occhio del ciclone su questo versante fino alla creazione di un fondo apposito chiamato Atlante, proprio come la figura della mitologia greca che reggeva sulle sue spalle il peso della sfera celeste. Questo fondo è uno strumento di mercato che è partito con 4 miliardi di dotazione ma che punta a 50 e apre una finestra temporale che arriva fino al 30 giugno 2017, durante la quale sarà possibile decidere in quali ricapitalizzazioni intervenire. Lo scopo dichiarato di Atlante è rimettere ordine nel sistema bancario italiano, messo a rischio dalla presenza consistente di crediti deteriorati (sono attività che non riescono più a ripagare il capitale e gli interessi dovuti al creditore, in pratica insolvibili); infatti, almeno il 30% delle risorse sarà utilizzato per rilevare prestiti deteriorati mentre il restante 70% servirà per la ricapitalizzazione delle banche tra le quali figurano istituti di credito come la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca. Che sia uno strumento utile alle classi dominanti per evitare ulteriori scossoni ad un sistema che per sua natura ne crea, è confermato anche dai giudizi positivi che alcune agenzie di rating hanno espresso su Atlante, che è stato definito da Moody’s “un importante precedente nella UE” e da Dbrs “uno strumento utile per aiutare a riparare il sistema bancario italiano dal rischio di instabilità finanziaria nel breve termine”.

Alla specifica situazione italiana si aggiungono le inquietudini per l’evolvere della situazione greca e la Brexit che con il referendum di giugno nel Regno Unito mette a rischio la tenuta della stessa Unione Europea. Sulla Grecia si è aperto uno scontro tra i creditori che vede su due fronti opposti il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble e la direttrice generale del FMI Christine Lagarde. Oggetto del contendere è l’ipotesi di taglio del debito greco a cui la Germania è contraria, per paura di un effetto contagio, ma che il FMI pone come condizione necessaria, insieme alle riforme strutturali, per portare avanti il suo programma di aiuti. Il 20 luglio la Grecia dovrà ripagare 3,5 miliardi di euro alla BCE e se non arriverà la trance di finanziamenti concordata con i creditori, si presenterà la possibilità concreta del default. In condizioni sociali più drammatiche si sta ripresentando la stessa situazione dello scorso anno, quando le casse greche erano a corto di liquidità. In mezzo, il governo Tsipras che, dalle colonne del Financial Times, si limita a rimproverare il FMI di ritardare a bella posta la conclusione del piano di aiuti! Fa bene alla memoria ricordare che lo scorso anno c’era chi pensava che tutto sarebbe rientrato con la firma del terzo memorandum. Molte forze di sinistra hanno continuato a sostenere Tsipras affermando che questi, nel frattempo, avrebbe avuto il tempo per accumulare forze e alleati per dare una lezione all’Europa e mitigare i meccanismi del debito. Ecco arrivata la risposta alle illusioni seminate dal governo greco e da chi ha giustificato la scelta di Tsipras di non rompere materialmente con le politiche di austerità quando aveva le forze, ossia dopo il referendum del 5 luglio 2015. Tutt’altro che chiusa, la questione greca continua ad essere, quindi, uno dei nodi centrali delle politiche economiche dell’Unione Europea e uno dei terreni di scontro della borghesia e dei governi che la rappresentano nei vari stati dell’Unione.

Quanto sia temuta la “Brexit” è un dato di fatto confermato da almeno due indizi:

il comunicato finale del G-20 che recita: “la ripresa mondiale resta modesta e diseguale” e ancora “i conflitti geopolitici, i terrorismi, il flusso di rifugiati e lo shock di una uscita potenziale del Regno Unito dall’Unione Europea complicano il quadro dell’economia globale”;
il viaggio di Obama che, nel Regno Unito, in occasione dei 90 anni di regina Elisabetta II, si è speso molto nel promuovere la permanenza in Europa. Il suo discorso è stato tutto centrato su questo, facendo peraltro molta attenzione a non entrare in aperta polemica con le quelle forze politiche euroscettiche che sostengono l’uscita dall’UE e verso il cui messaggio la popolazione è molto sensibile.

Dai dati fin qui esposti, risulta abbastanza chiaro che la ripresa più volte annunciata stenta a vedersi; che lo spettro della deflazione continua ad aggirarsi, nonostante le manovre di Draghi il quale, tramite la BCE, continua a pompare soldi in un sistema che non dà cenni di ripartenza; che la disoccupazione aumenta e colpisce soprattutto le giovani generazioni e che le banche, sempre sull’orlo del fallimento, vengono continuamente sostenute da iniezioni milionarie di liquidità.

È in questo contesto di difficoltà che si muove il governo Renzi tanto che Gianluca Luizi, su La Repubblica dell’8 aprile, prima del voto sulle trivelle, parlava addirittura di un “governo Renzi alle prese con la sua prima vera crisi politica”.

Dalle leggi di stabilità varate da quando si è insediato, si vedrà che questo governo ha impostato la propria politica economica sull’aumento del deficit di bilancio e sulla richiesta all’Europa di poter avere delle deroghe al rispetto dei principali parametri imposti per il rientro del debito. Questo gli ha permesso una certa flessibilità sui conti interni, utile a trovare i fondi necessari a piccole elargizioni elettorali. In cambio il governo ha portato avanti le politiche di austerità impegnandosi in storiche e poderose riforme strutturali (Jobs Act, “Buona Scuola”, riforma della pubblica amministrazione, riforma costituzionale) seguendo buona parte dei dettami della lettera del 2011 firmata Trichet/Draghi (su questi aspetti rimandiamo agli articoli di Franco Turigliatto di ottobre 2015 e di dicembre 2015).

Ora però, dopo più di due anni di applicazione di politiche di austerità, cominciano ad emergere le difficoltà anche perché gli effetti dei tagli e dei sacrifici cominciano a vedersi e a sentirsi materialmente. Se poi manca la ripresa economica e dal punto di vista occupazionale non ci sono cenni di miglioramento, non bastano più neanche delle manovre propagandistiche finalizzate a sostenere con un’elemosina chi è stato più colpito dalla crisi.

Per continuare a garantire ai padroni lo stesso livello di profitti bisogna tornare a saccheggiare le tasche delle classi popolari e non a caso, nonostante la violenza imposta dai tagli della riforma Fornero, lo scontro si riaccende sulle pensioni, solo che questa volta l’offerta degli 80 euro potrebbe non essere realizzabile.

Si profila così all’orizzonte l’ennesimo furto ai danni dei/delle pensionati/e ai/alle quali, praticamente, si vogliono sottrarre i frutti accumulati in anni di lavoro.

Il problema principale del governo Renzi, in questa fase, è proprio gestire la possibile instabilità sociale data dalle nuove contraddizioni del sistema capitalista e non è che il governo fosse del tutto impreparato a questo. Vanno letti in questo senso sia gli scontri con la Merkel e con l’Unione Europea sui migranti e sugli investimenti che avrebbe fatto l’Italia per gestire l’emergenza profughi sia gli alterchi, del tutto di facciata, tra chi vorrebbe politiche economiche destinate alla crescita e chi, come la Germania, farebbe solo l’austerità.

Su questo piano, il contrasto è solo fittizio perché tutti i governi europei sono d’accordo sulla necessità di attuare riforme strutturali volte a garantire rendite e profitti alle varie borghesie, facendo però pagare il conto alle classi popolari; semmai la contrapposizione è sul come applicare queste politiche e a vantaggio di quale pezzo di borghesia esercitarle. La costruzione di contrasti di facciata serve al nostro governo a giustificare una possibile precipitazione economica e l’ulteriore aggravio di austerità che ci aspetta.

Che la strada tracciata sia questa lo dimostra, ad esempio, la scelta del governo francese che, guidato dal socialista Hollande, sta portando avanti, anche di fronte ad un’enorme mobilitazione, la legge El Khomri, il Jobs Act in salsa francese. Diritti e welfare sono caduti sotto la scure di governi di destra e di sinistra in tutti i paesi europei e laddove non si è provveduto abbastanza si comincia a presentare il conto, proprio come sta accadendo in Grecia. Il governo Tsipras, per ottenere la tanto agognata liquidità, deve approvare il taglio delle pensioni e l’aumento delle imposte, provvedimenti, questi, senza precedenti che, in febbraio, sono stati anche alla base del primo grande sciopero generale tenutosi in Grecia, da quando al governo c’è Syriza.

 

La risposta necessaria

Il quadro fin qui descritto non collima con l’assenza di fermento sociale che caratterizza la situazione italiana. Sarebbe necessaria una risposta tempestiva e all’altezza dell’attacco che la classe lavoratrice sta subendo; però, paradossalmente, è di difficile costruzione proprio nel momento in cui essa è più cogente. Da questo punto di vista non esistono automatismi e non è sufficiente la denuncia delle ingiustizie per innescare nuove mobilitazioni che non rinasceranno semplicemente sull’onda dello scandalo o grazie a post più o meno cliccati sulle pagine dei social network. Quel che serve è un lavoro politico più lungo e certosino che passa per la ricucitura di ciò che il capitalismo ha diviso in questi anni, dissimulando le cause del malessere sociale e puntando il dito contro dei falsi nemici. Bisogna ripartire dai luoghi di lavoro e dai luoghi sociali con una forte campagna che porti alla luce i veri nemici di classe. In questo senso aiuterebbero iniziative contro la guerra e contro le derive razziste che colpiscono profughi e immigrati, contro la contrapposizione generazionale al fine di spiegare che non è vero che i giovani sono senza lavoro perché è stato garantito troppo ai loro padri, contro ogni forma di nazionalismo proponendo campagne di solidarietà verso quei popoli, come quello greco o quello francese che, proprio in queste settimane, sta alzando la testa contro la barbarie.

La borghesia, infatti, trae parte della sua forza proprio dalla debolezza delle forze di sinistra, dalla fragilità delle organizzazioni operaie, dalla frantumazione della coscienza di classe e dalle divisioni in seno alla classe lavoratrice. Non è facile rimettere al centro della pratica politica questi basilari principi di azione; la crisi e l’attacco portato al mondo del lavoro provocano reazioni e risposte che difficilmente vanno in questo senso, anzi! Ognuno è portato a difendere la propria condizione in maniera corporativa e non sono pochi i casi di lotte isolate verso le quali non si costruisce nessuna forma di solidarietà e di allargamento ad altri settori. Certamente poi non aiuta l’atteggiamento delle burocrazie sindacali che in occasione delle mobilitazioni contro il Jobs Act del 2014 e contro la Buona Scuola del 2015 hanno avuto la responsabilità di non aver fatto nulla per continuare il percorso apertosi con gli scioperi del 12 dicembre e del 5 maggio, sommando nuove sconfitte a quelle vecchie.

Eppure, come organizzazione politica, insistiamo su questo perché pensiamo che faccia la differenza, anche storicamente, se al momento di una crisi sociale sia presente o meno una o più forze politiche di sinistra e uno più sindacati combattivi, capaci di intercettare i bisogni delle masse e orientarle in senso democratico e internazionalista; il rischio, altrimenti, è che queste assumano connotati reazionari. L’inquietante risultato elettorale del primo turno delle presidenziali austriache, dove è arrivato al ballottaggio con il 35% dei voti Norbert Hofer, leader del partito di estrema destra Fpoe, deve essere un monito che segnala il pericolo di come lo spazio politico aperto dalla crisi possa essere occupato da formazioni della destra radicale che macinano consensi sulle macerie dei partiti tradizionali che tendono, in generale, al tracollo in diversi paesi europei.

Non possiamo continuare a pensare che nel nostro paese non si muoverà mai foglia; si apriranno delle contraddizioni nel sistema capitalista che qualcun’altro, al posto nostro, governerà e non è detto ci piacerà o che sia facile organizzare una risposta sul momento. L’esempio della Francia, gravata anche dallo stato d’emergenza, è un esempio illuminante da questo punto di vista: solo qualche mese fa nessuno avrebbe scommesso su una mobilitazione proprio in quel paese. I riflettori erano tutti puntati sullo Stato Spagnolo che andava alla elezioni e che ora è paralizzato nelle sue conseguenze e sulla Grecia, ulteriormente martoriata dall’applicazione del nuovo memorandum.

È anche per questo che Sinistra Anticapitalista si è molto spesa nella preparazione dell’assemblea Plan B che si terrà domenica 8 maggio a Roma: è un terreno questo sul quale vogliamo confrontarci apertamente con tutti quei compagni e quelle compagne che, come noi, partono dal presupposto e dalla necessità di costruire una rete di relazioni che resista a questo attacco e che provi a mettere in piedi dei percorsi partecipati di mobilitazione. È sia un’iniziativa che ha l’ambizione di riportare anche in Italia il dibattito che ha attraversato prima la Grecia e poi lo Stato Spagnolo, sulla necessità di costruire l’alternativa a questa Europa e a questa barbarie, che uno spazio di incontro per tutti quei compagni e quelle compagne che non vogliono sentirsi soli/e.

 

Una breve digressione: chi sono i nemici?

Di questi tempi, come direbbe Bertold Brecht, “I nemici marciano alle nostre teste”.

Ad esempio, alla testa delle manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio troviamo in prima fila, proprio chi come il PD, in questi anni si è maggiormente speso per distruggere i diritti democratici e i diritti di lavoratori e lavoratrici. Propagandisticamente è del tutto normale che queste forze tentino di appropriarsi di date e simboli della resistenza e del movimento operaio; sta a noi, che ci contrapponiamo a queste forze ristabilire la verità.

A questo punto, perciò, per fotografare meglio i nostri nemici, vale la pena aprire una breve digressione che ci porta ad un’iniziativa tenutati a Torino il 14 febbraio 2014, esattamente una settimana prima della nomina di Matteo Renzi a Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo la parentesi del governo Letta.

Quel giorno si tenne, per volontà della Confindustria piemontese la “marcia virtuale dei 40mila”. «Un’iniziativa pacifica con cui noi imprenditori chiediamo semplicemente di essere lasciati tranquilli. Fateci lavorare. Noi ci mettiamo la faccia», dichiarava allora Licia Mattioli, presidente dell’Unione Industriale e ideatrice della marcia.

L’economia italiana era in recessione da cinque anni e la borghesia era alla ricerca di stabilità politica e di un governo deciso a “lasciare tranquilli” i padroni. Monti e Letta, che pure avevano operato per difendere al massimo i profitti delle imprese, non garantivano questa stabilità e non apparivano abbastanza spregiudicati come il giovane Matteo Renzi che, nella scalata ai vertici del PD, aveva fatto capire di che pasta era fatto e da che parte stava. È significativo che l’Unione degli Industriali abbia ideato quest’iniziativa 34 anni dopo la più famosa “marcia dei 40mila” del 1980 e nel trentennale della cancellazione della scala mobile, avvenuta proprio il 14 febbraio del 1984.

Il 14 ottobre 1980 la “marcia dei 40mila” cambiò il corso della storia: aprì la strada alla prima grande sconfitta della classe lavoratrice dopo 35 giorni di picchettaggi e di occupazioni sindacali delle fabbriche torinesi della Fiat e dopo le grandi conquiste sociali degli anni ’70. La marcia partì silenziosa dal Teatro Nuovo di Torino e la prima stima della questura fu di 10–12mila partecipanti; divenne dei “40mila” dopo che il quotidiano “La Repubblica” titolò così e dopo che quella cifra, del tutto fasulla, fu accettata anche dai segretari nazionali di Cgil, Cisl e Uil (A chi volesse leggere una ricostruzione precisa di tutta la vicenda e di tutte le conseguenze di quell’avvenimento è consigliata la lettura del libro “Cento … e uno anni di Fiat”, a cura di Antonio Moscato, un testo prezioso che ricostruisce, anche attraverso la voce dei protagonisti la storia della Fiat e di molte delle sue “macchie nere”).

Da allora è cominciata la marcia dei padroni per la riconquista del terreno perduto nello scontro di classe del decennio precedente. Significativamente, il primo diritto a cadere fu proprio la scala mobile la cui conquista era anche coincisa con l’acme della mobilitazione e del protagonismo operaio.

La “marcia virtuale dei 40mila”, con tutto il suo carico simbolico e metaforico, chiude un ciclo durato circa trent’anni in cui lo scopo sempre perseguito dal padronato di rimettere al centro i diritti dell’impresa, per troppi anni surclassati dai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, sembra trovare la sua piena realizzazione proprio nella nomina di Renzi a Presidente del Consiglio dei Ministri.

In poco più di due anni, il governo presieduto dall’attuale premier è riuscito a realizzare perfettamente l’auspicio di Licia Mattioli: le imprese sono state lasciate tranquille, libere di agire senza troppi impedimenti mentre veniva portata a compimento un’offensiva senza precedenti ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Uno dopo l’altro questi sono caduti sotto i colpi inferti dal Jobs Act, dalla riforma della pubblica amministrazione, dalla Buona Scuola. I profitti poi sono garantiti da leggi come lo SbloccaItalia che permettono di saccheggiare il territorio, dalle privatizzazioni, dal taglio al welfare (in primis alla sanità) e dal continuo finanziamento alle banche (non ultimo il piano Atlante per puntellare le popolari). La possibilità poi di portare avanti politiche di austerità tanto dure per la popolazione si regge sull’attacco ai diritti costituzionali e su tutta una serie di riforme istituzionali (come l’abolizione di provincie e senato) che restringono gli spazi gli democratici e aumentano le distanze tra i cittadini e le istituzioni.

Questa piccola digressione è un esercizio di memoria utile a ricollocare nel tempo e nello spazio i protagonisti della nostra storia. Un ruolo importante in queste vicende e in questa fase storica è rivestito anche dalla simbologia che in molti atti del governo Renzi è diventata sostanza. Prendere atto delle sconfitte subite dal movimento operaio nel nostro paese (non ultime quelle subite sul Jobs act e sulla Buona Scuola) non è un’ammissione di debolezza ma al contrario la base dalla quale partire per ricostruirlo più forte e all’altezza del compito che questo momento richiede. Capire poi che si è chiusa una fase storica e con essa anche quel periodo in cui si poteva fare un po’ di rumore per strappare ai padroni il meno peggio per lavoratori e lavoratrici aiuterebbe la ricostruzione di un tessuto di relazioni che non è andato completamente perduto: quel che attualmente manca nel nostro paese non è la capacità della classe operaia di tornare protagonista ma mancano delle forze politiche di sinistra che, attraverso la costruzione di un progetto strategico coerentemente anticapitalista che abbia al centro la ripresa delle mobilitazioni sociali, credano che ciò sia possibile.

Nel tentativo di costruire un’alternativa a questo governo, infatti, bisognerebbe sempre ricordare anche chi lo ha voluto e chi ancora oggi lo sostiene; visto che ha vinto numerose gare e che ha il pedigree del purosangue, al momento la borghesia italiana non ha un cavallo migliore di Renzi sul quale puntare. Questi continueranno a dormire sonni tranquilli fino a quando i tentativi di costruire un’alternativa saranno quelli di forze politiche che pensano che ciò sia possibile solo a partire dal piano elettorale e solo entro il quadro capitalista. Se le condizioni sono queste, al massimo sopporteranno un po’ di solletico.

Sinistra Anticapitalista continuerà a lavorare perché in questa storia torni protagonista un terzo attore: il movimento operaio, l’unico che può turbare seriamente il sonno di padroni e governo.