Gli indici di Borsa, di tutte le Borse europee, anche questa settimana hanno avuto un andamento altalenante a causa del prezzo del greggio e del permanere di nubi sul sistema creditizio. A dimostrazione che il Fondo Atlante è una piccola soluzione nazionale a fronte delle ben più grandi difficoltà del comparto a livello continentale, a partire dall’incapacità di concludere un reale processo di unificazione.
Ma proviamo a restare sulla dimensione italiana. Esiste un divario eccessivo tra le proposte di venditori e acquirenti per quanto riguarda le sofferenze bancarie, divario che impedisce la creazione di un vero e proprio mercato di tale settore e che raccoglie fondi sufficienti solo a tamponare le emergenze circoscritte ad alcune banche per evitare che vadano a gambe all’aria, cercando di puntellare l’intero sistema. Le sofferenze su cui intervenire, dunque, non sarebbero la totalità presenti nei bilanci di tutte le banche e le quote di partecipazione ad oggi raggiunte sarebbero sufficienti a farvi fronte. Almeno così viene ipotizzato. La continua ricerca di nuove risorse, però, consente di ipotizzare un quadro più complicato. È di questi giorni la notizia che potrebbero essere coinvolte alcune casse previdenziali, come quelle di ingegneri, architetti, geometri, ragionieri. Quindi da un lato si dice che il sistema bancario si salva da sé, ma poi si prova a coinvolgere il risparmio popolare attraverso Cassa depositi e prestiti (che, dopo Banca Intesa e Unicredit, con i suoi 500 milioni risulta essere il terzo finanziatore) e persino attraverso enti previdenziali, nonostante siano usi a investimenti meno rischiosi. Inoltre il governo mette sul piatto, in questo caso a costo zero, un pacchetto legislativo sulle modalità di recupero dei crediti a tutto vantaggio delle banche. Non va però dimenticato che il Tesoro sta approvando il rimborso ai primi cittadini vittime del cosiddetto bail in, cioè coloro che hanno acquistato titoli non garantiti dalle nuove procedure europee di salvataggio, procedure che avrebbero dovuto essere unicamente a carico delle banche, ma di cui spesso le vittime sono piccoli investitori ignari. La cifra prevista è di circa 300 milioni.
Insomma, il mercato non si salva da solo e le banche neppure. Considerando che uno tra i principali soggetti a creare la crisi esplosa nel 2008 è stato proprio il settore bancario, varrebbe la pena ipotizzare nuove strade. Non si capisce perché le banche dovrebbero ricevere, seppur in forme apparentemente indirette, aiuto da cittadini e Stato quando hanno dimostrato di non essere in grado di svolgere adeguatamente un ruolo pubblico e sociale. E neppure di allocare al meglio le risorse. Il calo del credito è congenito alla crisi, meno lo sono le acquisizioni sovradimensionate, per non dire fuori da ogni logica commerciale, di alcune banche, oppure il capitalismo di relazione, la corruzione e gli sprechi. Questo ha fatto il sistema bancario privato nel giro di un paio di decenni di esistenza. Bisognerebbe provare a ri-nazionalizzare una parte di questo comparto. Non per resuscitare vecchi carrozzoni, ma per sperimentare nuove formule societarie con il coinvolgimento dei risparmiatori, dei dipendenti, di rappresentanze territoriali ampie non necessariamente istituzionali, con una congenita relazione con le comunità locali. Partecipazione e soprattutto controllo. È possibile ipotizzare una sorta di Banca Etica che nasce con soldi pubblici e che risponde alla collettività? Perché non dovrebbe farcela? Con investimenti trasparenti in settori ad alta resa sociale e ambientale e con il minor tasso di rischio possibile? Ribaltando alcuni criteri di redditività e magari svolgendo un ruolo di reindirizzo dell’intero settore? L’Europa lo vieta, ma sarebbe una reale battaglia per il cambiamento, forse molto più concreta di qualche decimale di flessibilità sui bilanci.
*Articolo pubblicato su il manifesto