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aahiroshimaLa ragion di Stato, ancora una volta, ha prevalso. L’esigenza largamente prioritaria di stringere ulteriormente le relazioni diplomatico-militari con le autorità giapponesi in funzione antitetica all’accentuata presenza commerciale e politica della Cina nell’area ha assunto un ruolo cruciale. Anche a costo di sdoganare militarmente il Giappone, avallando la decisione del governo di Tokyo perché all’occorrenza impegni i propri contingenti militari anche fuori dei confini nazionali, in aperta violazione a quanto sancito dalla stessa costituzione approvata al termine del 2° conflitto mondiale.

E allora “l’incidente” di ’71 anni fa andava in qualche modo chiuso, con un “rincrescimento” non molto convinto delle massime autorità statunitensi per quanto accadde allora a Hiroshima e Nagasaki, quasi come se il lancio delle due bombe atomiche americane in quella circostanza sia da ascrivere ad un’oscura incarnazione del maligno e non a precise scelte politiche e strategiche che qualcuno si decise a porre in essere assumendosene conseguentemente la responsabilità.

E così, prima l’ambasciatore americano è stato accettato alle celebrazioni religiose del 6 agosto dello scorso anno, poi il segretario di Stato Kerry ha marcato la sua presenza più che significativa sul luogo dell’evento; ma è stato subito chiaro che si trattava di una mera preparazione dell’evento clou, se è vero che a fine maggio è prevista la partecipazione diretta e autorevole dello stesso presidente Obama che sarà personalmente presente a Hiroshima dove, magari ricorrendo a qualche sermone moraleggiante, prenderà concettualmente le distanze dagli “orrori” delle guerre nucleari e atomiche. Quelle degli altri, s’intende, dal momento che dal termine del 2° conflitto mondiale gli Stati Uniti hanno continuamente sviluppato e incrementato i propri arsenali di armi termonucleari, mentre ribadivano a chiare lettere che non intendevano escludere di ricorrere al first strike contro chiunque si fosse configurato come un’alternativa alla loro egemonia. E questo anche dopo il crollo dell’Unione sovietica, quando la prevalenza statunitense non subiva più la “minaccia” di potenze che potevano effettivamente configurarsi come antitetiche al loro strapotere. Insomma per i dirigenti statunitensi la loro egemonia politica ed economica è un dato prioritario che non intendono mettere in discussione, ragion per cui non esitano a ricorrere alla minaccia del ricorso all’uso del loro terrificante armamento nucleare contro chiunque si delinei come una alternativa anche potenziale alla loro consolidata egemonia planetaria; un comportamento che si è consolidato nel tempo e che ha portato gli USA ad accumulare uno spaventoso stoccaggio di armi termonucleari che al momento, secondo valutazioni autorevoli, ammontano a circa 8.000 testate. Né si tratta di vecchi arnesi in disuso, se è vero che gli USA continuano costantemente a perfezionare questo micidiale stoccaggio di distruzione di massa, giusto per renderlo tremendamente più “efficace” delle bombe un po’ artigianali adoperate circa 70 anni fa contro un Giappone ormai sconfitto. Il tutto magari associato a discutibili lezioni sulla “democrazia” di cui sarebbero i depositari quasi sacerdotali.

Resta comunque inteso che degli eventi che portarono al primo uso delle armi atomiche e del tremendo sterminio di vite umane che ne derivò, Obama, al momento della sua sortita sul suolo giapponese, si guarderà bene dal chiedere “scusa”; piuttosto si continuerà ad avallare la consueta tesi giustificativa statunitense secondo cui il lancio delle due bombe atomiche contro Hiroshima e Nagasaki si sarebbe reso necessario per risparmiare la vita dei soldati americani che altrimenti avrebbero dovuto portare a fondo l’attacco conclusivo al territorio giapponese ricorrendo alla pratiche consuete. Non mancarono a suo tempo valutazione arbitrarie e cifre iperboliche in merito a questo “risparmio” di vite umane; nel 1946 Truman parlò di 250.000 caduti “evitati” e un anno dopo li portò a 500.000. Winston Churchill si spinse con disinvoltura anche oltre e valutò in quel periodo circa 1.200.000 i soldati americani a cui si sarebbe evitato la morte sicura. Insomma per inglesi e americani il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki fu un atto di sagace realismo politico; anzi quasi un’iniziativa di natura filantropica.

La realtà, in effetti, fu profondamente diversa.

Infatti nel momento dato ai più alti vertici dell’amministrazione civile e militare statunitense si era pienamente a conoscenza di come il Giappone stesse effettuando sondaggi diplomatici a diversi livelli per addivenire ad una “pace onorevole”, consistente sostanzialmente nella preservazione dell’istituzione imperiale, in relazione alla quale del resto già si delineavano convergenze preliminari grazie alle duttili intermediazioni del generale MacArthur. In buona sostanza una “resa” che serviva solo a salvare la faccia e responsabili del regime giapponese. Ma niente da fare; alla conferenza di Potsdam del luglio del 1945 Truman non volle sentire ragioni, anche se Stalin aveva provveduto personalmente ad informare la delegazione statunitense del fatto che il Giappone, tramite collaudati canali diplomatici, aveva sostanzialmente accettato di arrendersi e chiedeva la pace. Da parte statunitense il diniego più totale. Anzi Truman assunse via via toni più risoluti e atteggiamenti maggiormente sbrigativi, soprattutto dopo che il suo segretario personale aveva provveduto a recapitargli il seguente messaggio cifrato proveniente dagli scienziati che lavoravano a tempo pieno nel Nuovo Messico: “Il bimbo è nato in modo soddisfacente”. Cioè la bomba atomica era stata messa a punto e poteva essere adoperata.

Fu in questo contesto che Truman adottò la decisione di sganciare le bombe atomiche sul Giappone, inventandosi di sana pianta la giustificazione preventiva di una volontà nipponica di resistere ad oltranza. Eppure l’intellingence statunitense era pienamente a conoscenza delle devastazioni inflitte ai giapponesi dai bombardamenti americani diretti dal generale Curtis LeMay, prima tra tutte la “Tokyo Raids” quando erano stati bruciati vivi dal napalm 100.000 giapponesi. Nel marzo ormai i giapponesi non avevano più scampo: era stato interrotto il rifornimento di petrolio e benzina, nessuna unità navale al di sopra di 1.000 tonnellate era operativa o galleggiante, l’operazione kamikaze non disponeva più di veivoli, tutte le fabbriche erano state rase al suolo. Quindi sganciare la bomba atomica era oggettivamente superfluo, come ebbe a confermare lo stesso Eisenhower che nelle sue memorie non esitò ad affermare: “Il Giappone era stato sconfitto, per cui sganciare quella bomba era inutile. Lo dissi al Segretario alla guerra Stimson; il nostro paese doveva evitare di traumatizzare l’opinione pubblica mondiale con l’impiego di un’arma di distruzione totale, che comunque non sarebbe servita a salvare la vita dei soldati americani”.

E allora perché gli americani ricorsero al lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki? La verità sta nel difficile rapporto che in quella fase intercorreva con i sovietici. Infatti a far tempo dal 1941, dopo l’attacco nazista all’URSS, statunitensi e inglesi ritennero opportuno trovare una convergenza con la Russia di Stalin perché fronteggiasse meglio le armate della Wehrmacht. Solo che, col passare del tempo, i sovietici seppero offrire un resistenza crescente alle truppe naziste; anzi a riorganizzarsi e a scatenare una micidiale controffensiva. Al momento della conferenza di Potsdam relativamente alla guerra in Europa il rapporto delle forze in campo era assolutamente delineato e registrava il trionfo dell’Armata rossa; il nazifascismo era stato sconfitto in Italia e Francia; a Est l’avanzata sovietica aveva liberato la Polonia e in marzo premeva su Berlino. In pratica inglesi e americani avevano ragione di temere che le armate sovietiche, nel corso della travolgente offensiva in piena attuazione, potessero fondersi con i contingenti partigiani a netta maggioranza comunista che operavano in numerosi paesi europei e saldare, per così dire, i conti con tutti.

Insomma gli anglo-americani temevano che i movimenti di resistenza antinazista e antifascista dove la prevalenza comunista era schiacciante si trasformassero in rivoluzioni sociali che, con il supporto dei contingenti sovietici, potevano distruggere le basi capitalistiche e avviare trasformazioni strutturali di natura essenzialmente socialista.

Magari Stalin e soci non avevano all’ordine del giorno alcun obiettivo del genere, ma di fatto “l’alleato” sovietico si stava trasformando agli occhi delle leadership statunitensi e inglesi in un temibile avversario. Questo fu il contesto in cui maturò la decisione di Truman di sganciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, quando il Giappone era ormai sconfitto. In parole povere la dirigenza anglo-americana mandava ai sovietici un messaggio ben preciso: se i vostri eserciti dilagano in Europa, è giusto che sappiate e teniate ben presente che siamo in possesso di un’arma di distruzione di massa che comunque ci conferisce una preminenza assoluta. In pratica una decisione maturata alla luce di un calcolo politico ispirato a un cinismo più unico che raro. Altro che salvare vite umane!

Del resto per garantirsi quest’egemonia gli americani non badarono a spese. Innanzi tutto a Los Alamos dove una comunità di scienziati – tra i quali Fermi, Oppenheimer, Szilard, Compton e Laurence – lavorò costantemente alla costruzione della bomba atomica giovandosi di finanziamenti stratosferici che ammontarono a non meno di 2 miliardi di dollari, avvalendosi nella circostanza della collaborazione di circa 125.000 persone. Ma c’è di più. Poiché gli accertamenti effettuati a Los Alamos erano stati giudicati sufficienti solo per il lancio della bomba atomica a Hiroshima, la leadership statunitense si orientò rapidamente per verifiche più sbrigative da effettuare direttamente sul campo, giusto per accorciare i tempi e collaudare l’efficacia del nuovo materiale fissile costituto dal plutonio 239.

Così maturò la decisione di lanciare – dopo la sperimentazione su Hiroshima – una nuova bomba più potente su Nagasaki dove andava misurato il livello di radioattività del nuovo ordigno e soprattutto la sua capacità distruttiva. A lancio ultimato il compito delle necessarie verifiche tecniche venne affidato agli ufficiali e ai medici del progetto Manhattan che sbarcarono a Nagasaki nel settembre del ’45. Documentazioni difformi concordano nel testimoniare come per settimane l’equipe statunitense fece spogliare i sopravvissuti; furono fotografati nudi; campioni di sangue e di tessuti ossei furono prelevati per essere sottoposti ad indagini più accurate e a disamine più specifiche.

L’equipe statunitense si astenne totalmente dal somministrare ai sopravvissuti morfina, calmanti, ossigeno o quant’altro. Nessuno fu curato.

E di tutto ciò, a distanza di oltre 70 anni, Obama non intende chieder nemmeno “scusa”.

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