L’operazione allestita dal consigliere di Stato Christian Vitta, nella sua veste di presidente dell’Ufficio cantonale di conciliazione, sta andando come pianificato: giungere alla stipulazione di un contratto collettivo di lavoro per il settore della vendita che rappresenta un vero e proprio imbroglio per tutti i lavoratori e le lavoratrici della vendita.
I quali, in definitiva, non solo non ottengono alcun miglioramento tangibile delle loro condizioni di lavoro e di salario, ma saranno costretti a subire una degradazione delle stesse condizioni di lavoro qualora il CCL dovesse essere decretato di obbligatorietà generale e i nuovi orari di apertura (previsti dalla legge accettata in votazione popolare a febbraio) dovessero entrare in vigore.
Siamo ben lontani, dati alla mano, da qualsiasi “scambio” nel quale le due parti avrebbero dei vantaggi (più flessibilità sugli orari per il padronato in cambio di miglioramenti delle condizioni di lavoro e di salario per i dipendenti); qui a guadagnarci è solo la parte padronale, in particolare la grande distribuzione.
Sono molte le ragioni che ci portano a questo giudizio: le elenchiamo brevemente.
a)in materia salariale il progetto di CCL si muove attorno ai 3’100 franchi lordi. Un livello inaccettabile per chiunque voglia vivere e lavorare in questo cantone.
In questo modo non solo non si combatte il dumping salariale, ma lo si favorisce fissando salari che, inevitabilmente, spingeranno i salari reali, quelli effettivamente pagati, verso il basso. Basti ricordare infatti che i salari previsti da diversi CCL aziendali (COOP, Migros, FoxTown, Lidl) ruotano attorno ai 4’000 franchi mensili, il 30% in più di quanto prevede questo progetto di CCL. Contratto che, di fatto, si allinea (con una differenza di un centinaio di franchi) al Contratto normale di Lavoro (CNL) già oggi in vigore per i negozi con meno di dieci dipendenti. Questi ultimi, d’altronde, avranno tre anni di tempo per colmare la differenza tra i loro salari minimi e quelli previsti dal nuovo CCL (50 franchi di aumento all’anno).
Complessivamente quindi ruotiamo attorno ai 3’100 franchi lordi (poco più d 40’000 franchi all’anno): un salario con il quale nessuno, come detto, può lavorare e vivere dignitosamente in Ticino.
In sostanza quasi nessuno ci guadagnerà dal punto di vista salariale: né i lavoratori dei piccoli negozi (che hanno già fissati dei salari praticamente uguali), né i lavoratori della grande distribuzione, che hanno regolamentazioni contrattuali aziendali migliori.
b) la regolamentazione in materia di orario di lavoro è un’ ulteriore conferma della degradazione delle condizioni di lavoro prevista da questo CCL. Infatti l’orario di lavoro viene fissato a 42 ore nella media annuale. Questo concedere un amplissimo margine di flessibilità alle aziende che possono così organizzare a piacimento l’orario di lavoro del personale senza dover pagare nemmeno un centesimo di supplemento di qualsiasi tipo. Inutile dire che questo tipo di regolamentazione favorisce in modo preponderante la grande distribuzione che può, grazie alla struttura e ai mezzi di cui dispone, organizzare nel modo più efficiente e flessibile gli orari di lavoro del personale.
Significativo poi che l’allargamento degli orari di apertura previsti dalla nuova legge non trovi, quale possibile, contrappeso, qualche significativo restringimento dell’intervallo massimo all’interno del quale il lavoratore deve svolgere il proprio orario. Questo intervallo viene fissato nel CCL a 12 ore giornaliere. Ciò significa, ad esempio, che un lavoratore o una lavoratrice che comincia la propria giornale alle 7 di mattina potrà essere tenuta sul lavoro fino alle 7 sera (cioè 12 ore) per effettuare le proprie 8 ore: cioè con orari spezzettati, decisi dalle direzioni aziendali a dipendenza dei flussi della clientela e dei propri bisogni.
Anche qui il peggioramento potenziale contenuto nella modifica degli orari di apertura non trova alcuna significativa correzione, come avrebbe dovuto, nel CCL concluso.
c) il CCL è stato negoziato dalla DISTI (presente sia in quanto tale, sia come associazione di fatto dominante all’interno della Federcommercio). Il nuovo CCL non si applicherà tuttavia alla grande distribuzione (organizzata nella DISTI). Una situazione che grida vendetta sia dal punto di vista del buon senso che dal punto di vista giuridico. Come si può accettare che un’associazione padronale negozi un CCL che poi la maggior parte dei membri di questa associazione non applicherà, addirittura iscrivendo nel CCL la sua esclusione dalla applicazione di questo contratto?
È questa, qualora fosse necessario, la dimostrazione che la DISTI, vera e propria artefice della modifica degli orari di apertura e della campagna a suo sostegno, otterrà questa modifica a costo zero. I suoi dipendenti subiranno le conseguenze dell’estensione degli orari di apertura e in cambio non riceveranno assolutamente nulla.
3. In questo contesto le forze sindacali hanno sprecato una posizione oggettivamente di forza per ottenere un CCL che realmente corrispondesse ai bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici del settore della vendita, oltre a contribuire in modo importante a sconfiggere fenomeni sempre più diffusi di dumping salariale e sociale, sempre più ampi nel settore della vendita.
La responsabilità maggiore e fondamentale spetta al sindacato OCST che (come sua abitudine) ha impostato il negoziato sull’idea che la priorità debba essere la conclusione in ogni caso di un CCL, indipendentemente dal contenuto dello stesso, al di là del fatto che esso contenga dei reali e tangibili miglioramenti per i salariati del settore. Un’impostazione che vede prevalere i propri interessi di organizzazione sugli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici.
Per quel che concerne UNIA non si può che apprezzare il fatto che essa non condivida questo contratto e che emetta giuste critiche al suo contenuto e alle pericolose dinamiche che esso comporta. Ma, appare evidente, il negoziato fin dall’inizio era incanalato in questa direzione con un esito prevedibilissimo. Aver accettato di condurre dei negoziati sottoponendosi alla legge della maggioranza è un segno di scarsa intelligenza negoziale. Aver tergiversato e accettato di condurre il negoziato fino alla fine, mette il sindacato UNIA in una difficile posizione di marginalizzazione.
4. Questo CCL non può e non deve entrare in vigore. Non solo perché non comporterebbe un miglioramento delle condizioni di lavoro e di salario per la quasi totalità dei lavoratori e delle lavoratrici della vendita, ma anche perché esso rappresenta un quadro normativo peggiore (e di gran lunga) rispetto alla situazione contrattuale esistente; inoltre, se venisse decretato di obbligatorietà generale (avendo cioè forza di legge) rappresenterebbe un contributo fondamentale ad un ulteriore sviluppo del dumping salariale, legalizzando salari mensili di 3’000 franchi.
Per questo è necessario ora agire. E riteniamo che i sindacati che non condividono il contenuto del CCL dovrebbero muoversi – se vogliono far seguire i fatti alle parole – in questa direzione:
a) rivendicare che il progetto di CCL venga sottoposto ad una votazione generale tra i lavoratori e le lavoratrici della vendita. Si tratta di una procedura che in molti paesi europei le organizzazioni sindacali utilizzano per la ratifica di accordi contrattuali (ad esempio in Germania). Il legame stretto tra la stipulazione di questo CCL e la legge sugli orari di apertura dei negozi dovrebbe spingere in questa direzione: come la legge sugli orari di apertura dei negozi ha ricevuto la legittimità (giuridica) dal voto popolare, appare anche giusto che sia il “popolo dei lavoratori e delle lavoratrici” della vendita a pronunciarsi sul contenuto del CCL. Qualora le parti firmatarie non fossero d’accordo, sarebbe comunque possibile ai sindacati che non condividono il contenuto del CCL organizzare una consultazione generalizzata tra i lavoratori e le lavoratrici del settore.
b) contestare la legittimità politica e giuridica del CCL concluso. Coloro che hanno condotto le trattative e che sono pronti a sottoscriverlo non rappresentano né la maggioranza dei lavoratori, né la maggioranza dei datori di lavoro del settore. Si tratta di un punto fondamentale sia dal punto di vista politico che da quello giuridico. In questo contesto esistono evidentemente le condizioni, né politiche né giuridiche, affinché la dichiarazione di obbligatorietà generale venga contestata dal punto di vista giuridico. Rinunciarvi sarebbe un errore politicamente e sindacalmente imperdonabile, in particolare se si pensa che la generalizzazione delle condizioni salariali previste da questo CCL favoriscano di fatto il dumping salariale.
Nei limiti delle sue possibilità l’MPS è pronto ad impegnarsi in questa direzione.