Il documentario “The Chinese Mayor” traccia un’immagine spietata della Cina di oggi, stretta nella morsa della bolla finanziaria e dello strapotere della burocrazia, mentre il film collettivo “Ten Years” esprime con efficacia la rabbia anti-Pechino sempre più diffusa a Honk Kong e nella vicina Taiwan.
“Demolition Geng”, ovvero il sindaco cinese
Nel mio ultimo articolo analizzavo gli effetti della bolla economica in Cina, sottolineando in particolare come alla sua base ci sia un sistema “neofeudale” incentrato sulle amministrazioni locali. Un caso emblematico di questo sistema è quello della città di Datong, che si trova 350 km. a ovest di Pechino e ha 1,7 milioni di abitanti. Si tratta di uno dei più importanti centri minerari del paese e si trova oggi in uno stato desolato. I minatori lottano per cercare di incassare gli stipendi arretrati mai versatigli, in attesa di sapere se verranno licenziati o meno. Nel frattempo continuano a recarsi ogni giorno al lavoro passando sotto uno striscione montato dalle autorità ai cancelli di entrata e sul quale è riportata la beffarda scritta “Sopravvivere, tirare avanti e mantenere la stabilità”. Il centro della città è devastato da un progetto di sviluppo edilizio varato dall’ex sindaco che ha comportato la deportazione in periferia di quasi 500.000 persone. Il progetto non è mai stato portato a termine e gli edifici, in particolare una mastodontica ricostruzione della città antica e un gigantesco stadio, rimangono incompiuti e inutilizzati, come descrive Zhou Xin in un suo efficace recente reportage.
Lo spaccato più impressionante di Datong lo dà tuttavia un noto documentarista cinese, Zhou Hao. Il suo film del 2015, “The Chinese Mayor” (“Il sindaco cinese”), riesce con successo a dipingere in meno di un’ora e mezzo tutti gli elementi essenziali delle politiche messe in atto negli ultimi anni a Datong, analoghe nella loro essenza a quelle applicate in altre città della Cina. La piccola troupe del regista Zhou ha avuto la possibilità di filmare costantemente per quasi un anno, tra il 2012 e il 2013, la vita lavorativa del sindaco Geng Yanbo (al quale gli abitanti locali hanno affibbiato il nomignolo “Demolition Geng”), e allo stesso tempo di intervistare abitanti locali e riprendere le operazioni di sgombero e demolizione in centro città. E’ un documentario dal ritmo veloce, spesso divertente nella sua descrizione di situazioni grottesche, girato all’aperto o in ambienti luminosi che con la loro chiarezza danno una dimensione “pubblica” al film. La scelta di evitare i commenti in voice over accresce l’effetto di autenticità, così come quella di integrare nel film, oltre alle voci di chi protesta contro gli sgombri o critica la politica del sindaco, anche quelle di chi ne loda l’operato. Nonostante quest’ultima scelta, l’immagine complessiva non solo del sindaco, ma anche e soprattutto delle politiche applicate a Datong e dei loro esiti, è spietata. Attraverso le testimonianze dei diretti interessati apprendiamo così che gran parte delle persone destinate a essere “spostate” dal centro nei quartieri di nuova costruzione non hanno diritto a una nuova casa, dato che quella in cui vivono, destinata alla demolizione, è stata costruita senza permesso edile perché le autorità in passato avevano chiuso un occhio, avendo convenienza ad attirare manodopera in città. Inoltre, chi viene deportato, anche quando è in regola, non ha diritto a un alloggio popolare, bensì esclusivamente quello di acquistare a prezzo scontato una casa nei nuovi quartieri. Solo per i casi socialmente più gravi è previsto in teoria un affitto popolare, ma la lista di attesa è di almeno tre anni, mentre le demolizioni vengono effettuate in tempi brevissimi. Le reazioni di chi viene colpito da questa politica possono essere divise in tre categorie: c’è chi protesta, rifiuta di sgomberare la propria casa o addirittura improvvisa sit-in di fronte alle ruspe, e si tratta di norma dei più poveri che alla fine vengono comunque messi in un angolo; altri invece ricorrono a soluzioni opportunistiche, come la buffa anziana signora che attende il sindaco fuori dal suo ufficio e quest’ultimo, sotto gli occhi delle camere, non può rifiutarle l’assegnazione di una nuova casa, nonostante la signora secondo i regolamenti non ne abbia il diritto – la stessa anziana alla fine si ripresenta nuovamente con impenitente faccia tosta di fronte al sindaco, per chiedere questa volta una casa a un piano più comodo; altri ancora (evidentemente membri della piccola-borghesia, la cosiddetta “classe media”) si fidano ingenuamente della giustizia cinese e ricorrono in tribunale, oppure inviano petizioni, naturalmente senza alcun successo. L’impressione che se ne trae è quella di una Cina in cui la rabbia per l’ingiustizia e i soprusi è forte, ma non è ancora maturata fino al punto di dare vita a lotte più incisive.
Il ritratto del sindaco Geng è quello di un piccolo Stalin, che tenta di essere umano come lo era il “padre della nazione sovietica” nelle fantasiose agiografie scritte all’epoca. Così lo vediamo spesso fermarsi per strada ad ascoltare la “voce del popolo”, pronto a dare una risposta su tutto (anche se spesso in maniera brusca). Si occupa personalmente di ogni particolare, perfino della larghezza dei tubi che devono essere installati, dando così involontariamente una testimonianza dell’inefficienza e dell’approsimatezza del sistema di cui è a capo. Geng lavora indefessamente per il bene dei suoi cittadini, sembra sinceramente convinto di quello che fa e versa addirittura qualche lacrima quando abbandona Datong dopo avere ricevuto un ordine di trasferimento delle autorità centrali. Ma è un piccolo Stalin anche quando con cinismo accusa personalmente funzionari e appaltatori di sabotare i lavori, senza che nessuno osi ribattergli, evidentemente perché impaurito dalle possibili conseguenze (salvo poi imprecare quando il sindaco è fuori scena). Di nemici il sindaco ne ha evidentemente molti, visto che vive in un sorvegliatissimo distretto militare, come d’altronde la maggior parte dei sindaci cinesi. Nelle sue tirate retoriche contro la burocrazia Geng risulta tanto più grottesco quanto più non riesce a rendersi conto di come sia lui stesso l’incarnazione di questa burocrazia. Ci sono poi momenti davvero divertenti, anche se agghiaccianti nei loro contenuti, come per esempio quando Geng e alcuni funzionari di altre amministrazioni locali fanno a gara a chi ha demolito più case – “Tu quante case hai demolito?”, chiede Geng a un suo collega. “Io? Cinquemila” e poco dopo il sindaco di Gatong “lo stende” dicendo che lui ne ha demolte 160.000. Le riprese delle demolizioni e della città sventrata, alla quale fanno da contrappunto i lussuosi e lindi ambienti in cui operano i burocrati, rendono ancora più incisivo il quadro generale. Il documentario non ci risparmia nemmeno la riunione-farsa del parlamento locale con la quale Geng, unico candidato, viene rieletto sindaco. Insieme a lui, un’altra lunga serie di altri eletti (il procuratore capo, il presidente del parlamento ecc.) tutti su candidatura unica in una vera e propria orgia di antidemocrazia. Alla fine però Geng viene rimosso dalle autorità centrali prima di avere portato a termine il suo mandato. Lascia come eredità ai cittadini di Datong enormi progetti incompiuti, una città sventrata e un debito di 3 miliardi di dollari. Ma la sua rimozione non è una punizione, visto che viene nominato sindaco della città di Taiyuan, dove, come ci spiegano le didascalie finali, ha già “deportato” 270.000 persone in un anno avviando altri grandi progetti infrastrutturali… la storia continua, e come quella di Geng prosegue anche quella di migliaia di altri sindaci e governatori di province, magari meno folcloristici di lui, ma non meno devastanti nel loro operato.
“Il sindaco cinese” coglie perfettamente nel segno sia a livello narrativo e visivo che a livello politico, e non a caso è stato proiettato in molti festival, tra i quali quello prestigioso di Sundance, fino ad arrivare sugli schermi della BBC. Il cinema documentaristico cinese sta vivendo un’epoca d’oro da una dozzina d’anni, affrontando con coraggio politico ed efficaci soluzioni estetiche tutta la sfera dei problemi sociali del paese. Purtroppo però si tratta di un cinema destinato quasi esclusivamente al pubblico estero e spesso girato in condizioni di completa o parziale clandestinità. In patria non trova pressoché alcuno sbocco. Le poche e ristrette sedi in cui in passato poteva circolare quando riusciva a superare gli enormi ostacoli politici e burocratici sono state oggetto di un ulteriore giro di vite da quando Xi Jiping è salito al potere. Anche il documentario, nel suo piccolo, può essere una minaccia per la stabilità, che è una vera e propria ossessione del regime.
I girasoli di Taipei e gli ombrelli di Hong Kong
Dal punto di vista politico (e anche cinematografico), quando si parla di Cina non si può astrarre da due altre importanti entità cinesi, vale a dire Hong Kong e Taiwan. Per Pechino, entrambe sono parte di una sola Cina destinata in futuro a riunificarsi. La prima sta attraversando dal 1997 un processo che nel 2047 la porterà a essere pienamente reintegrata nella “madrepatria” cinese, la seconda rimane indipendente, ma sia per i nazionalisti locali del Kuomintang sia per Pechino rimane valido il consenso in base al quale in un futuro ancora da definirsi l’isola si riunirà con la “madrepatria”. Sia Hong Kong che Taiwan hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo del capitalismo cinese a partire dall’epoca di Deng Xiaoping, la prima come canale finanziario della Cina verso il mondo, la seconda come investitore e come anello fondamentale della catena industriale che unisce la Cina al resto del globo. Ora risentono entrambe pesantemente del rallentamento cinese: Taiwan è in recessione da tre trimestri, mentre il Pil di Hong Kong a inizio anno ha registrato per la prima volta un trimestre di crescita negativa. Inoltre, i rapporti tra le due e la “madrepatria” si stanno facendo sempre più problematici negli ultimi tempi a causa del rafforzarsi sia Hong Kong che a Taiwan dei sentimenti anti-Pechino e della contrarietà a una riunificazione. Per Pechino si tratta di sviluppi particolarmente problematici che indirettamente costituiscono una minaccia anche per il proprio prestigio e quindi anche per la preservazione della stabilità politica interna.
Le elezioni tenutesi nel mese di gennaio a Taiwan hanno visto una netta vittoria del Partito Democratico Progressista (DPP) e la nomina a premier della sua leader, Tsai Ing-Wen. E’ la prima volta da quando nel 1945 è salito al potere che il Kuomintang, da tempo favorevole a una maggiore integrazione con la Cina, non controlla più né la presidenza della repubblica né il parlamento. Il nuovo governo guidato da Tsai, pur non proponendo una politica di rottura con Pechino, è molto più freddo riguardo allo sviluppo delle relazioni con la Cina. La sua elezione è in gran parte una conseguenza delle mobilitazioni degli ultimi anni favorevoli al mantenimento di una piena ed effettiva indipendenza di Taiwan culminate nel “Movimento dei Girasoli” del 2014 e nella lunga occupazione del parlamento da parte degli studenti. Su questa esperienza è disponibile in Youtube il documentario “Sunflower Occupation” (in cinese con sottotitoli in inglese) realizzato dallo stesso movimento, interessante a livello visivo, ma che purtroppo risulta scarsamente incisivo perché concentrato sulla figura di un non poco vanitoso leader studentesco.
Anche Hong Kong nel 2014 ha avuto un suo movimento, quello degli ombrelli, contrario alla progressiva integrazione dell’ex colonia inglese nel sistema politico autoritario della Repubblica Popolare Cinese (RPC). A febbraio di quest’anno, durante il capodanno cinese, ci sono stati violenti scontri tra i locali venditori ambulanti e la polizia, dietro ai quali, come è emerso successivamente, vi erano attivisti dell’area indipendentista, che secondo tutti i sondaggi sta diventando largamente maggioritaria tra i giovani. Un altro evento sintomatico è la decisione della Federazione degli Studenti di Hong Kong di non partecipare quest’anno, a differenza che in passato, alle celebrazioni per l’anniversario del massacro di Tiananmen, perché, come ha dichiarato uno dei suoi dirigenti, “non vediamo il motivo per cui dovremmo lottare per qualcosa a beneficio di altre etnie, di estranei [outsider]. Penso che sia invece molto più pratico adoperarsi per la democrazia a Hong Kong”. Tornata sotto la sovranità della Cina nel 1997, Hong Kong potrà mantenere la propria valuta e il proprio sistema legale come regione autonoma fino al 2047. La “sindrome del 1997” e successivamente quella “del 2047”, contrassegnate dalla paura di perdere la propria specifica identità nell’ambito del processo di integrazione con la “madrepatria”, hanno segnato in modo indelebile il cinema di Hong Kong dell’ultimo quarto di secolo, colorandolo in particolare di un senso di spaesamento e di nostalgia (basti pensare a film di Wong Kar-wai come “Hong Kong Express” o “2046” del 2004, il cui titolo fa direttamente riferimento all’ultimo anno prima della prevista completa integrazione di Hong Kong nella RPC).
“Ten Years”: un film politico e collettivo
A fine 2015 però è uscito a Hong Kong un film che cambia nettamente registro prendendo direttamente di petto questi temi. Si tratta di “Ten Years” (“Dieci anni”), un film omnibus composto da cinque corti girati da altrettanti registi sul medesimo tema, cioè quello di un’ipotetica Hong Kong nel 2025. Il film ha ottenuto un grande successo di pubblico nonostante gli ostacoli posti dalle autorità alla sua proiezione nelle sale e ha vinto il premio di migliore opera assegnato dallo Hong Kong International Film Festival 2016, notizia che è stata censurata da pressoché tutti i media della RPC che hanno riferito dell’evento. “Ten Years” non è certo un film raffinato come quelli Wong Kar-wai: è stato promosso da un locale produttore indipendente e girato con un budget ridotto all’osso (64.000 dollari USA). Che sia un film realizzato con pochi capitali lo si riscontra sia nella scelta delle location, che nella scarna colonna sonora e in generale nella fattura artigianale. I giovani registi hanno però sopperito a questi limiti con una forte passione politica, grazie alla quale sono riusciti a dare vita a un’opera collettiva che coglie complessivamente nel segno anche grazie a un’efficace espressione estetica dei propri intenti generali.
Il primo episodio, intitolato “Extras” e girato in bianco e nero, è incentrato sulle figure di due precari, uno locale e uno immigrato, assoldati da boss della mafia politica evidentemente legati a Pechino che tramano per organizzare un falso attentato contro due politici locali (altrettanto mafiosi) destinato a fare da giustificazione per l’introduzione di uno stato di emergenza. Ai due viene promessa una ricompensa e la copertura per la fuga dopo il fallito attentato, ma in realtà alla fine vengono uccisi mentre lo stato di emergenza viene introdotto come previsto. Lo stile è quello di un noir, il ritmo incalzante e gli accenni indiretti alle lotte del movimento degli ombrelli numerosi. Il secondo episodio, “Season of the End”, è tra tutti il più criptico e il più lento, ma crea un’atmosfera molto suggestiva. Negli ambienti chiusi e opprimenti di un buio laboratorio un uomo e una donna raccolgono campioni di ogni genere mettendoli sotto vuoto o imbalsamandoli come testimonianza di una Hong Kong destinata evidentemente a sparire in breve tempo. Alla fine l’uomo decide di sottoporsi egli stesso a un’operazione di tassidermia per diventare un campione da lasciare alle generazioni future. Il terzo è l’unico che percorre direttamente la strada dell’ironia. Si intitola “Dialect” e dipinge le traversie di un taxista che non parla il mandarino, ma solo la locale lingua cantonese, e per questo, in conseguenza di regolamenti progressivamente varati dalle autorità, può lavorare in zone sempre più limitate della città, con la prospettiva ultima di un divieto completo di esercitare la professione. In alcuni settori del movimento indipendentista di Hong Kong sono diffusi umori sciovinisti o addirittura razzisti nei confronti dei cinesi provenienti dalla “madrepatria” (dove il mandarino è la linga ufficiale), ma questo corto descrive un’ipotetica futura imposizione del mandarino con metodi burocratici, pertanto è estraneo a posizioni scioviniste ed esprime, tra l’altro con leggerezza, il desiderio di preservare la propria cultura locale contro le invadenti autorità di Pechino. Il quarto episodio, forse il migliore, è un vero e proprio pugno nello stomaco che punta tutto sulle emozioni e non esita a ricorrere a forti toni melodrammatici per trasmettere il proprio grido di protesta agli spettatori. Il suo titolo è “Self-Immolator” e immagina una Hong Kong sconvolta dalla morte di un attivista studentesco in seguito a uno sciopero della fame e dall’immolazione di un altro giovane in segno di solidarietà con la prima vittima, mentre la polizia dispiega le sue violente repressioni. Tra tutti è sicuramente l’episodio che più coinvolge lo spettatore e lo invita a rivoltarsi, richiamandosi ancora una volta indirettamente al “movimento degli ombrelli”. L’ultimo episodio, “Local Egg”, è a parere di chi scrive il meno riuscito. Sebbene da un punto di vista puramente visivo sia ben confezionato, è l’unico su cui pesa una retorica narrativa scontata e politicamente conservatrice. Descrive una Hong Kong percorsa da bambini vestiti da guardie rosse, evidentemente sotto il controllo di Pechino, il cui compito è quello di denunciare i negozianti che vendono prodotti locali o libri non graditi alle autorità.
Nel suo complesso “Ten Years” è un film riuscito perché si spoglia di ogni pretesa autoriale dando la preferenza al conseguimento di un effetto politico: in questo modo evita molte pesantezze e cliché dei film “da festival” e proprio per questo risulta efficace anche a livello estetico. Il collettivo di registi si è posto evidentemente come priorità non quella di ottenere prestigio internazionale, bensì di entrare in sintonia con gli umori della parte più attiva della società locale. Se ha vinto il premio più importante del Festival Internazionale di Hong Kong è solo perché in questo momento nell’ex colonia inglese c’è un forte bisogno di un’opera come “Ten Years”, e questo è una conferma di come i film non li facciano solo i cineasti, ma anche il pubblico. Se le nuove leve di Hong Kong, e in generale della più ampia regione cinese, riusciranno a insistere su questa strada si apriranno sicuramente nuove prospettive per il cinema dell’area.