Dopo l’iniziale popolarità e la realizzazione (imposizione) con successo di una serie di misure liberiste, Renzi è ora confrontato a una situazione più difficile in cui si intrecciano il logoramento della sua credibilità in larghi settori di massa, la netta sconfitta nelle elezioni amministrative e una situazione economica incerta nel quadro della crisi dell’Unione Europea.
Un sistema in crisi e perturbato
Dopo aver portato a casa numerose misure che hanno massacrato i diritti del lavoro, stravolto la scuola pubblica, perseguito l’obiettivo dell’ulteriore riduzione della spesa sociale e sanitaria e contemporaneamente varato una riforma istituzionale e una legge elettorale profondamente antidemocratiche, funzionali al predominio dell’esecutivo e a garantire maggioranze parlamentari artificiose, la corsa di Renzi incontra numerosi ostacoli.
In primo luogo viene percepita la distanza tra la sua demagogia e la realtà dei fatti: la disoccupazione resta a livelli elevatissimi, il lavoro per i giovani non esiste o se esiste è nelle forme più o meno estreme della precarietà, la ripresa economica è debolissima e non ha certo modificato la condizione di vita della stragrande maggioranza dei cittadini, tantissimi marginalizzati e tanti altri preoccupati per il loro futuro e quello dei loro figli.
Pesano profondamente le incertezze della situazione economica internazionale e le contraddizioni di un sistema capitalistico che continua ad accumulare nubi temporalesche che le misure finanziarie e monetarie della Banca Centrale Europea difficilmente riescono ad allontanare. Pesa l’insopportabilità delle politiche dell’austerità, che ben lungi dall’essere abbandonate, restano l’alfa e l’omega delle classi dominanti europee e che vedranno una ulteriore concretizzazione nella prossima legge finanziaria su cui si stanno arrovellando Renzi e Padoan.
La crisi delle banche
Ma il Presidente del Consiglio è confrontato a un’emergenza anche più grave: la crisi e la possibile bancarotta di molte banche italiane; questa crisi, per molto tempo negata, si è manifestata in tutta la sua gravità con un potenziale effetto a valanga. Essa preoccupa non solo il governo italiano, ma per le probabili ripercussioni su scala internazionale, nel contesto del dopo Brexit, tutte le autorità politiche ed economiche dell’Unione Europea. Per questo è in corso una frenetica trattativa, resa ovattata dai media, tra il governo italiano e i dirigenti europei su quali misure adottare per fronteggiare la crisi delle banche ed, in ogni caso, impedire l’estensione del contagio. Dopo i giganteschi interventi di salvataggio delle banche operati dagli stati dopo la crisi del 2008 in Europa e negli Stati Uniti, che hanno trasformato in giganteschi debiti pubblici dei debiti privati, una nuova normativa è stata definita a livello europeo che chiama in causa, per effettuare nuovi salvataggi, non solo gli azionisti degli istituti di credito, ma anche la stragrande maggioranza di coloro che detengono le obbligazioni (quelle subordinate e quelle senior non garantite) e gli stessi correntisti con importi superiori ai 100.000 sul conto di una stessa banca. E’ il cosiddetto Bail in.
Le grandi iniezioni di liquidità operate negli anni scorsi dalla BCE verso le banche italiane hanno impedito alcune crisi, ma non sono riuscite a modificare una situazione strutturalmente deteriorata. Ne è sufficiente l’intervento del Fondo Atlante le cui risorse sono già state quasi esaurite solo per fronteggiare la crisi delle Banche venete. Per questo da giorni si parla di uno scudo preventivo di protezione in caso di necessità. Già, ma quale? E come restare all’interno delle regole che le borghesie europee si sono date o come, eventualmente modificarle alla bisogna? E’ questa la discussione in corso in questi giorni all’Eurogruppo e all’Ecofin.
In realtà sulle banche italiane pesa l’enorme massa dei crediti deteriorati (Npl, non performing loan), circa 360 miliardi di euro (la media di crediti in sofferenza dell’intero sistema bancario italiano è del 16,8 %) che pur interessando tutte le banche pesa in particolare su alcune di esse, segnatamente il Monte dei Paschi di Siena.
Questi crediti deteriorati non sono altro che il lascito della lunga crisi economica e produttiva che si trascina da quasi un decennio.
Il governo italiano vuole ottenere dall’Unione Europea la possibilità di un maggiore intervento pubblico per salvare le banche in pericolo e non far ricadere il costo del risanamento sugli azionisti delle stesse, sugli obligazionisti e sui correntisti. Come dire: scarichiamo sull’intera collettività, come sempre il costo dei loro salvataggi. Non è un caso che il presidente dell’Abi, l’associazione bancaria, che non ci risulta essere stato fino ad oggi un esponente “statalista” proclama che “L’Italia è stata tirchia con le banche. Fondi pubblici come misura estrema”, spiegandoci che il capitalismo italiano è malato e che c’è un milione di aziende in affanno.
Questo signore evidentemente non ha a mente l’affanno dei disoccupati, dei pensionati e dei lavoratori sfruttati!!
Emerge così che banchieri e padroni e i loro servi politici osteggiano come la peste l’intervento dello Stato se rivolto a garantire salari, pensioni e servizi pubblici, ma lo caldeggiano invece a piene mani per garantire i loro interessi, i loro conti i banca e le loro rendite a spese dei cittadini. Spudorati. Noi siamo per l’intervento pubblico; ma solo per nazionalizzare gli istituti di credito finalizzandoli a piani di sviluppo produttivo e sociale secondo gli interessi della collettività.
La discussione ai vertici del potere europeo su quali misure assumere evidenzia una trattativa serrata: se aiutare e quanto il governo italiano permettendogli di sospendere in tutto o in parte il Bail in. Qualcuno certo non vorrebbero derogare troppo dalle regole stabilite poco tempo fa, ma dall’altro tutti sono estremamente preoccupati dei rischi di stabilità che corre il sistema già così perturbato. Anche perché le crisi bancarie non sono all’ordine del giorno solo in Italia, ma anche negli altri paesi; le sofferenze creditizie e i titoli tossici sono infatti presenti in tanti istituti di credito.
Verso il referendum costituzionale
E’ in questo quadro che “l’arma finale” di Renzi, il referendum sulla controriforma costituzionale che doveva essere lo strumento della sua vittoria definitiva sta mostrando i suoi limiti; rischia di avere le cartucce bagnate tanto che il Presidente del Consiglio ha deciso di posticiparlo per provare a recupere nuovi margini. Inoltre dopo aver difeso a spada tratta la legge elettorale, oggi vorrebbe modificarla un pochino, avendo verificato che invece di garantire la vittoria del PD potrebbe favorire la vittoria per il M5Stelle.
Costoro hanno una concezione delle istituzioni e della democrazia a geometria variabile, “a la carte” che si sceglie e si cambia a seconda della congiuntura politica e dei loro interessi specifici.
Dentro la grande crisi del sistema e le difficoltà del governo, ci sarebbe la possibilità, avendo presente le lotte dei mesi scorsi in Francia, di una controffensiva del movimento dei lavoratori, dei sindacati, dei movimenti sociali intorno ai fondamentali temi del salario, dell’occupazione della difesa dei diritti del lavoro e dei servizi sociali, di rifiuto dell’austerità e di pagare i costi della crisi del capitalismo. Sarebbe necessario un movimento di opposizione ai governi padronali e antipopolari in nome di un programma alternativo di giustizia sociale e di democrazia reale.
Manca un soggetto sociale politico
E qui ci scontriamo con un nodo drammatico.
Il movimento operaio e le classi lavoratrici, per effetto delle sconfitte subite e per le scelte rovinose dei gruppi dirigenti sindacali, non sono un soggetto politico attivo in questa fase; anzi subiscono tutte le operazioni di divisione e le diverse incursioni politiche ed ideologiche delle forze delle classi dominanti.
Le direzioni sindacali, sui luoghi di lavoro invece di lavorare per unire e contrastare l’offensiva del padronato si fanno garanti delle loro richieste ed imposizioni, firmando i peggiori contratti, di cui la vicenda della Fincantieri è solo la punta dell’iceberg. (vedi articolo)
La CGIL non ha avuto neanche il coraggio di pronunciarsi per il No sul referendum costituzionale, per subordinazione e per non rompere con la cosiddetta sinistra del PD, rinunciando a prendere una posizione di sostegno alla Costituzione del ’48, come pure aveva fatto in altre occasioni, venendo meno a un elementare ruolo di difesa degli interessi democratici dell’insieme dei lavoratori e della società.
E dovrebbe invece farlo perché la sua controparte ufficiale, cioè la Confindustria ha espresso il suo pieno e totale appoggio alla controriforma di Renzi, attivando fin da subito, ma ancor più lo farà nei prossimi mesi, tutti gli strumenti e le molte risorse a sua disposizione.
Né in questa situazione si può pensare che il M5Stelle possa esser un’alternativa politica reale utile alla classe lavoratrice. Le speranze e le illusioni verso questo movimento in settori popolari, ma anche in soggetti della sinistra sono molto accresciute dopo la vittoria nelle elezioni comunali di Roma e Torino. Solo che, per la natura stessa interclassista del suo orientamento, questa forza non può, né vuole lavorare per suscitare quel movimento sociale e di massa necessario ed indispensabile per contrastare le politiche dei padroni e l’azione del governo.
Nel migliore dei casi si può pensare che, come hanno fatto finora, cercheranno di raccogliere i frutti elettorali del malcontento presente nella popolazione denunciando alcuni, ma solo alcune, delle malefatte del governo. Non è nelle loro corde mettere in discussione il mercato e le regole del capitale.
Rovesciare le regole del capitalismo
Solo che non può esserci un programma economico e sociale alternativo e tanto meno è possibile impegnarsi nella costruzione di un movimento di massa dei lavoratori, senza una vera scelta di classe e senza una rottura piena delle politiche dell’austerità e la rimessa in discussione dei dogmi economici del mercato capitalistico; bisogna rovesciare le logiche del capitale e le scelte liberiste che da più di 20 anni e riportano indietro la ruota della storia a vantaggio delle forze padronali.
Per questo noi insistiamo più che mai su lavorare per unire in questo autunno la battaglia democratica e l’impegno nei comitati referendari con la battaglia sui luoghi di lavoro per difendere le condizione dei salariati e delle salariate, per ridefinire piattaforme contrattuali all’altezza delle necessità delle lavoratrici e dei lavoratori, per costruire percorsi di lotta che mutino i rapporti di forza, facendo crescere la coscienza e la fiducia in se stessi dei protagonisti. Per questo sosteniamo la corrente del sindacalismo di classe interna alla CGIL e quelle esterne lavorando per la loro unità nell’iniziative. Si sbagliano profondamente le forze della sinistra che restano legate e dipendenti dagli apparati burocratici che hanno portato la classe lavoratrice in un cul de sac da cui è molto difficile uscire.
Lavoriamo perché in autunno ci siano le più ampie mobilitazioni, perché si costruisca una ampia e partecipata manifestazione nazionale per dire No al referendum organizzata da tutti i soggetti interessati, i comitati referendari, le forze della sinistra, i sindacati disponibili.
Ognuno deve poter sviluppare le proprie proposte, ma si deve scendere in piazza tutti insieme senza settarismi o primogeniture per poter cambiare i rapporti di forza ed essere un punto di attrazione credibile per l’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori, ma anche per tante/i altre/cittadine/i.
Non si può e non si deve lasciare tempo a Renzi e ai suoi padroni, la Confindustria, di manovrare e di agire per vincere questa battaglia decisiva. Così come non dovranno esserci esitazioni davanti alla legge finanziaria contro cui occorrerà costruire la massima opposizione: serve la piena convergenza tra la mobilitazione sociale ed economica e quella democratica costituzionale.