Dal 10 giugno al 10 luglio, in Francia si disputa il Campionato europeo di calcio (detto Euro 2016). Ancora una volta, lo sport, incarnato in una delle sue competizioni più importanti, resta fuori da ogni riflessione di fondo. Le rare analisi economiche e sociologiche svengono inghiottite dal flusso incessante di storie minute e fatti episodici (la vicenda del sextape di Valbuena ad esempio) che servono a creare pura e semplice diversione.
Certo, qualche guastafeste denuncia le spese folli dello sport; il costo della competizione, in infrastrutture e regali fiscali, a carico della collettività nazionale; si preoccupa dell’imponente e costoso spiegamento poliziesco; si stupisce di vedere lo sport più popolare non essere mai confrontato con scandali legati al doping (regna l’omertà) ed evoca controvoglia la corruzione e gli imbrogli, la regolare complicità degli alti dirigenti dello sport con i regimi meno frequentabili, le filiere dell’esilio che toccano numerosi giovani sportivi, spesso sfruttati, il razzismo, il sessismo, l’omofobia.
Ma la maggior parte di questi guastafeste che parlano di “sviamento” dell’ideale sportivo, delle sue “deviazioni”, alimenta da un secolo il mito di un’epoca d’oro e garantisce al fin fine la sopravvivenza dell’istituzione, presentando una visione dello sport umanista, generosa, preoccupata per la giustizia. Nella loro gran maggioranza, essi fanno un tutt’uno con lo sport di cui diffondono l’ideologia che hanno interiorizzato. Le loro politiche antidoping, contro la violenza, contro la corruzione, il loro desiderio di etica e di fair play –finanziario o meno– sono altrettanti salvagente per il sistema sportivo.
Il mondo delle evidenze
Instancabilmente, lo spettacolo riprende i suoi diritti, i valori proclamati mascherano quelli reali e il chiacchiericcio soffoca ogni volontà di comprendere una particolare pratica fisica nata alla fine del 19° secolo. In nome della libertà di ognuno e dell’entusiasmo delle folle scioviniste, siamo pregati di lasciare il nostro spirito critico a casa. Qui sta tutta la potenza suprema dello sport: il suo esibirsi come un mondo innocente, apolitico, senza rapporti con il modo di produzione che l’ha fatto nascere. Un mondo un cui sono proclamati alti e forti gli ideali di purezza, di lealtà, di rispetto, di tolleranza, di solidarietà, tutti quei discorsi che arrivano da ovunque e da nessuna parte e che ognuno ripete con il sentimento di trasmettere delle incontestabili evidenze.
All’ora di Euro 2016, sono queste le evidenze con le quali il Presidente della Repubblica e il Governo ci bombardano, chiamando alla mobilitazione generale. “Sarà una grande festa del calcio, un’opportunità data alla nazione” proclama François Hollande (11 settembre 2014). L’argomento di autorità che trasforma ogni evento sportivo in “festa popolare che fa contenta la gente”, ripreso meccanicamente dalla stampa, annienta ogni dialogo con chi vi vede una festa sfogo, una festa-escursione al di fuori dei sentieri segnati del quotidiano, una festa dell’ordine stabilito.
Thierry Braillard, Segretario di Stato allo Sport, ricorda instancabilmente la parola d’ordine del Governo: “Ci auguriamo che i francesi si approprino di questo avvenimento, come i milioni di amici visitatori che verranno nel nostro paese. Per questo, serviranno animazioni su tutto il territorio” (2 marzo 2016). Accogliendo la competizione, lo Stato avanza quattro priorità: garantire un livello molto alto di organizzazione, fare di Euro 2016 un avvenimento popolare per tutti e ovunque, mettere Euro 2016 al servizio della crescita e dell’attrattività della Francia, promuovere attraverso Euro 2016 i valori dello sport. E, in primo luogo, il suo carattere educativo. L’essenza educativa dello sport, una vecchia superstizione che è oggi al centro di uno dei maggiori strumenti di propaganda dello Stato sportivo: l’operazione “Mon Euro 2016” [Il mio Euro 2016].
Quest’operazione, lanciata nel dicembre del 2014, si rivolge a tutte le sedi scolastiche di Francia e “deve mobilitare tutti i partner per fare beneficiare delle virtù educative del calcio il più grande numero possibile di bambini, dal CE2 alla Terminale [l’equivalente, rispettivamente, della nostra seconda elementare e dell’ultimo anno di liceo, ndt.]” (Comunicato del Ministero dell’Educazione nazionale, 9 dicembre 2014). Da più di un anno, un po’ ovunque in Francia sono concepiti progetti per rafforzare i legami tra la scuola e lo sport. Qui, calciatori professionisti, tra cui Karim Benzema e Benoît Costil, il portiere del Rennes, vanno a incontrare gli allievi per predicare il verbo. Là, bambini svantaggiati dai 6 ai 16 anni sono invitati ad assistere a incontri del torneo. L’esaltazione è totale. Ed è ancora più facile con i giovanissimi, che raramente sfuggono alla seduzione dello sport. S’imprime nei cervelli e nelle memorie fin dall’infanzia, il che rende molto complicato suscitare qualsiasi dubbio a proposito dell’ideologia che esso veicola.
Nel corso di quest’operazione, la confusione tra attività fisica e lo sport è coltivata con forza nell’ambito dell’Educazione nazionale. Le missioni di arricchimento del sapere, di formazione dello spirito critico, del risveglio delle coscienze, dello sviluppo corporeo armonioso assegnate alla scuola sono realizzate quando gli insegnanti sono chiamati a integrare nei loro corsi le direttive “sportive” dei ministri? Lo sono quando si chiede ai bambini d’identificarsi al campione e non allo scrittore o all’uomo d’arte? Zlatan Ibrahimovic piuttosto che Victor Hugo. La scuola dovrebbe invece combattere l’idolatria e cercare di sradicare questo principio di competizione che mette l’allievo in competizione continua con gli altri, facendogli credere che se non diventerà il migliore, la sua vita sarà un fallimento.
Anche il Ministero della Cultura è mobilitato nell’ambito della Direzione generale che esso assume rispetto al Patrimonio, realizzando un’operazione di valorizzazione del “patrimonio sociologico urbano” attraverso una presa in considerazione della storia e dello sviluppo contemporaneo dei club di calcio, considerati “essere parte attiva della costruzione del vivere insieme nelle città”. Anche i musei saranno coinvolti, nel quadro del “La Grande Collezione Euro 2016”, attraverso il loro arricchimento in oggetti, archivi, foto, patrimonio immateriale, video, canti, testimonianze, ecc. collegati allo sport; altrettanto avverrà per archivi, biblioteche e università.
Euro 2016 lavora in tutta la società francese da diversi anni e niente è più semplice, al fine di ottenere dai cittadini quel che ci si attende da loro, che mantenere uno stato di tensione passionale intensa attraverso la propaganda e l’idea che la competizione “permetterà di contribuire alla coesione nazionale favorendo la partecipazione di tutti, sull’insieme del territorio in uno spirito festivo” (Documento del Ministero della Gioventù e dello Sport, “Lo Stato mobilitato per la riuscita di Euro 2016”). Una vittoria della squadra francese permetterebbe per un breve momento di rinsaldare un paese lacerato e di mostrare l’unione del paese di fronte alle forze del male.
Plasmare i corpi e gli spiriti
Perché, in queste condizioni, condannare l’indottrinamento sportivo contemporaneo, questa “propaganda silenziosa” nella scuola, nelle squadre, nelle associazioni? Perché lo sport ha il vantaggio di poter esercitare un condizionamento ideologico facile. Nel suo discorso del 31 maggio 2015, François Hollande ha presentato l’Euro come l’affermazione di un’ambizione francese economica, culturale, turistica, ma anche un’ambizione in termini valoriali: “Cos’abbiamo da portare in occasione di Euro 2016? Lo sport è già un valore, è un insieme di regole, di discipline che meritano rispetto; dev’essere competizioni incontestabili, sia in termini di organizzazione, sia in termini di svolgimento. Lo sport è anche una concezione del mondo e della vita in società; è l’accettazione della competizione, della concorrenza, essa fa parte della vita”.
Importante discorso che conferma che lo sport è una filosofia di vita, un modo di essere. Ma quale filosofia? Quale visione del mondo? Quali sono questi valori sventolati quotidianamente come belle bandiere. “È il superamento, è l’impegno, è la solidarietà ed è l’unione”, afferma François Hollande (9 settembre 2015). Discorso che presenta lo sport come l’arte di applicare ideali di giustizia, di libertà, di fratellanza nella realtà, dimenticando un po’ frettolosamente le condizioni concrete della sua pratica (la tanto cara competizione). In breve, gli uomini di sport si creano un mondo fittizio e credono di viverci dentro.
È invece il momento di chiedersi se la competizione non sia un principio contrario a ogni educazione umana, proprio in opposizione a quello che il Presidente della Repubblica ci dice quando afferma che la concorrenza generalizzata fa parte della vita. Non c’è nessun carattere naturale nella “guerra di tutti contro tutti”, nell’apparato di vittorie e guadagni, nella corsa senza limiti alle performance e ai record. Non c’è che una realtà storica. Nel contesto attuale, quello del confronto universalizzato e dello scambio mercantile globalizzato, lo sport predica valori che non porta, ma ne diffonde molti altri che sono interiorizzati e ne diventano una seconda natura: apologia permanente della competizione, elogio della sofferenza, della disciplina, dell’eroismo, dello sforzo per lo sforzo, culto dei capi e della gerarchia, elitismo, esacerbazione dell’individualismo, del merito personale, rispetto delle disuguaglianze ineluttabili, virilità dominatrice, ammirazione populistica degli eroi, delirio patriottico, anti-intellettualismo, ecc.
La pressione ideologica e il martellamento continuo non spiegano completamente l’adesione della popolazione allo sport. Le radici profonde sono nel bisogno d’identificarsi, di evadere da sé e di vivere per procura che qualsiasi comunità prova, bisogno che l’ideologia dominante accentua. Il sistema sportivo fa pressione su di noi dall’esterno, imponendo la sua dominazione attraverso la propaganda e la saturazione delle coscienze, ma anche interiormente, nella misura in cui partecipiamo, intenzionalmente o meno, attraverso i nostri silenzi e le nostre debolezze, al suo funzionamento.
L’istituzione sportiva condiziona in modo duraturo il nostro modo di pensare. Noi affermiamo che essa non potrebbe funzionare senza un’adesione soggettiva degli sportivi e dei non sportivi. Ci sarebbe molto da dire sulla complicità di cui molti rappresentanti del popolo (praticanti, dirigenti, uomini politici, intellettuali, militanti progressisti) danno prova nella lotta contro il sistema sportivo che s’ingegnano a incensare, ad ammirare e di cui denunciano, non il principio e la logica, ma solo i cosiddetti eccessi. Più che mai, si può parlare dello sport come di un inconscio sociale. Euro 2016 ne è una assai perfetta illustrazione.
* Michel Caillat, ex professore di economia e di diritto a Orléans, autore di Sport : l’imposture absolue, Paris, Éditions le Cavalier Bleu, 2014.
Marc Perelman, professore di estetica all’Università Paris Ouest-Nanterre La Défense, autore di Smart stadium. Le stade numérique du spectacle sportif, Paris, Éditions l’Échappée, 2016 e di Sport barbaro. Critica di un flagello mondiale, Medusa edizioni, 2012.