La notte del 15 luglio ciò che in molti temevamo è accaduto. Se la riuscita del colpo di Stato in Turchia sarebbe stato un fatto terribile, non molto meno terribile appare il suo fallimento. In solo una settimana il presidente Erdogan ha fatto arrestare o destituire più di 40.000 funzionari dello Stato: ufficiali dell’esercito, poliziotti, giudici, docenti, giornalisti.
Ha dichiarato lo stato d’emergenza per tre mesi – prorogabile all’infinito – e ha sospeso la Convenzione europea sui diritti umani, ciò che potrebbe preludere – come ha già anticipato il governo – al ripristino della pena capitale e che comunque consente la repressione di ogni forma d’opposizione, in particolare nei confronti dei gülenisti e dei curdi, quest’ultimi ridiventati ancora una volta, dopo la ripresa un anno fa degli scontri armati, il “nemico interno”. In definitiva, per reagire a un colpo di Stato, reale o manipolato, Erdogan e il suo partito hanno realizzato a loro volta un colpo di Stato. Sul colpo e sulla figura di Erdogan raccomando la lettura degli articoli di Andrés Mourenza [1], alieni allo stesso tempo dal complottismo e dalla compiacenza.
Ora, sarebbe errato interpretare questa deriva autoritaria come un prodotto della follia di un megalomane o, peggio ancora, come il risultato inevitabile della strategia dell’islamismo politico, finalmente smascherata. I recenti avvenimenti turchi vanno inseriti, allo stesso tempo, nei livelli locale, regionale e globale. Al livello locale, inseparabile dagli altri due, il colpo di Erdogan significa il ristabilimento dello statalismo nazionalista turco, provvisoriamente sospeso o attenuato nei primi anni di governo dell’AKP [Partito della giustizia e dello sviluppo]. Al livello regionale, significa la chiusura definitiva del ciclo di mutamenti iniziato nel 2011 e abortito in Siria con la militarizzazione della rivoluzione e il successivo intervento multinazionale. Quanto alla dimensione globale, l’autoritarismo di Erdogan rientra nell’ondata controrivoluzionaria – o di rivoluzione negativa – che si espande ovunque, senza risparmiare alcun continente o Paese.
Vediamo. L’AKP è arrivato al potere nel 2002, suscitando speranze di cambiamento. A fronte di una tradizione laica autoritaria e golpista, proponeva la democratizzazione della Turchia mediante un islam moderato che rifletteva soprattutto il conservatorismo culturale delle classi popolari più sfavorite e che, comunque, accettava e addirittura rivendicava in modo molto esplicito il carattere laico dello Stato e, beninteso, l’economia di mercato. Un analista marxista come Emre Öngün [2] scrive, per esempio, che «[la vittoria elettorale dell’AKP nel 2002] significò, per gran parte della popolazione, una stabilizzazione politica, una forte crescita economica, un reale ridimensionamento del ruolo dell’esercito e anche, nei primi tempi, la speranza di una riforma liberale della questione curda». In definitiva, il modello dell’AKP e di Erdogan appariva come l’unica alternativa democratica autoctona sia alle dittature teocratiche sia a quelle “laiche” in una regione in cui la sinistra era stata pesantemente sconfitta e nella quale – fra tirannie locali, interventi imperialisti e risposte jihadiste – ogni possibilità, per quanto modesta, di sviluppo economico e civico e di istituzione di uno Stato di diritto sembrava preclusa. Quando nel 2011 scoppiarono le cosiddette “rivoluzioni arabe” – che furono anche curde, amazigh [berbere], femministe e di classe – questo modello apparve del tutto naturalmente come la risposta politica alle rivendicazioni popolari, completamente aliene all’islamismo e di carattere così marcatamente economico e istituzionale. È questo il modello che oggi viene definitivamente sepolto dal colpo di Erdogan contro quello del 15 luglio.
Conviene ricordare, in effetti, che nel 2011 in questa zona del mondo era cominciata – risultato ritardato del “disgelo della guerra fredda” – una rivoluzione democratica globale, che prolungava i processi iniziati in America latina dieci anni prima, prolungata a sua volta dal 15 maggio in Spagna, da Occupy Wall Street negli Stati Uniti, da Gezi Park in Turchia, dalle proteste contro l’austerità in Grecia. Nel “mondo arabo” questa rivoluzione, che non era né islamista né di sinistra, si scontrò poi con due reazioni controrivoluzionarie, che tentarono di frenare, controllare o neutralizzare la spinta popolare. E in effetti in Libia, Tunisia ed Egitto due furono i modelli che si scontrarono. Da una parte quello già ricordato di Erdogan, che abbandonò la politica di “interventismo zero” e di “buon vicinato” adottando un interventismo neo-ottomano, molto opportunista, orientato ad appoggiare e ad appoggiarsi ai Fratelli musulmani e alle loro ramificazioni locali per estendere la sua influenza nell’ambito geografico del vecchio impero ottomano. A questo modello se ne contrapponeva un altro, molto più reazionario: quello dell’Arabia Saudita, nemica della Fratellanza e del Qatar, alleati della Turchia, che alla fine si impose grazie, soprattutto, al colpo di Stato del generale al-Sisi in Egitto nel luglio 2013. Nel 2012 nell’Africa settentrionale l’unica realistica possibilità di scelta era quella fra Turchia e Arabia Saudita, diventata poi fra Erdogan e al-Sisi: e cioè, fra un islamismo democratizzatore e una dittatura “laica” appoggiata, in realtà, da un islamismo retrogrado, teocratico e criminale. Chiariamo due cose. La prima è che questi due modelli in conflitto tra loro erano rappresentati da Paesi entrambi alleati degli Stati Uniti e dell’Unione europea; la seconda è che gli Stati Uniti e l’Unione europea, erratici e in fase di ritirata, preferivano senza dubbio il modello turco – e negoziarono senza problemi con i Fratelli musulmani -, ma dovettero ingoiare il golpe di al-Sisi (e la vittoria saudita) per puro pragmatismo geopolitico in una situazione – come sottolinea Wallerstein [3] – di egemonia indebolita.
Nel 2012 non esisteva alcuna alternativa rivoluzionaria democratica antimperialista e – rassegnato al fatto di essere frainteso – mi azzarderò anche a dire che sarebbe stato meglio che, allora e in quelle circostanze, il modello turco, opportunista ma potenzialmente più democratico, si fosse imposto su quello saudita in qualità di sostituto regionale del fallito imperialismo statunitense. Non c’era, ripeto, alternativa politica rivoluzionaria, ma c’era, in cambio, un terzo modello controrivoluzionario, origine di gran parte dei mali della zona: quello della dittatura siriana, appoggiata dall’Iran, dalla Russia e da Hezbollah, i cui atroci crimini contro il popolo siriano spianarono la strada all’ISIS e interruppero definitivamente il ciclo del cambiamento apertosi a Tunisi con l’immolazione di Mohamed Bouazizi. Contro questo terzo modello, gli altri due – Arabia Saudita e Turchia – stabilirono un accordo o una tregua che, camuffando il conflitto inter-sunnita, finì per alimentare la dimensione settaria (sunniti contro sciiti) della controrivoluzione in corso, estesasi ormai anche al Bahrein e allo Yemen. Ma la dittatura siriana, alleata alla Turchia fino al maggio 2011 e suo socio imprescindibile nella repressione dei curdi, si trasformò nella tomba di Erdogan e del suo modello “democratico”. Alle prese con una sua “primavera araba” a Gezi Park e vedendo minacciato nel 2014 il suo predominio elettorale, Erdogan con l’intervento in Siria, che immaginava come la premessa di una nuova e trionfale leadership democratica neo-ottomana, finì per ficcarsi in un vicolo cieco: la “minaccia” curda da Rojava lo spinse a interrompere ogni trattativa con il Partito dei lavoratori del Curdistan (PKK) e a finanziare o tollerare vari gruppi jihadisti, ISIS compreso, ciò che a sua volta portò a un doppio fronte di “lotta antiterrorista” in Turchia, fonte e pretesto, come al solito, di una deriva autoritaria che, in questo caso, è sfociata nel golpe del 15 luglio e nel controgolpe del 16, tuttora in corso. L'”intreccio” e la reciproca alimentazione fra i livelli locale e regionale, con al centro la questione curda, spiegano il fallimento del modello AKP e sottolineano ancora una volta il carattere volatile e promiscuo delle alleanze geostrategiche nella zona. Gli Stati Uniti, che quattro anni fa avrebbero preferito il modello controrivoluzionario turco e che avevano ingoiato il colpo di Stato di al-Sisi finanziato dall’Arabia Saudita, appoggiano militarmente i curdi del Partito d’unione democratica (PYD) siriano, fratelli siamesi del PKK turco, e si trovano oggi in rapporti molto tesi con Erdogan, al punto che avrebbero “ingoiato” anche, e volentieri, un golpe gülenista o kemalista contro l’AKP. Nello stesso tempo, Washington si dimostra sempre più disponibile a cedere anche di fronte al terzo modello controrivoluzionario, quello russo-iraniano, con il quale sta trattando una soluzione per la Siria che, ovviamente, non comporta il rovesciamento del regime e la promozione della democrazia. Conclusione? Le dittature, gli imperialismi, i jihadismi vincono; i popoli perdono.
Fino a tutto il 2013 la scelta fra Erdogan e al-Sisi pareva facile. Oggi no. Diciamo che per evitare il golpe di al-Sisi Erdogan ha scelto di diventare al-Sisi, buttando tragicamente il ‘modello Erdogan’, nella pattumiera della storia. Di questo modello sopravvive solo l’isolotto tunisino, dove Rashid al-Ghannushi tenta ora di fare, nelle più avverse condizioni, ciò che l’AKP aveva iniziato quindici anni fa: la democratizzazione del conservatorismo sociale musulmano. Non ce la farà. In ogni caso, sarebbe un grave errore ritenere che, dopo il 15 luglio, in Turchia l’islamismo ha sconfitto il laicismo, come se questa fosse l’alternativa in gioco nella regione e nel mondo. In Turchia quello che ha vinto ancora una volta è lo statalismo nazionalista del secolo XX, e ciò è avvenuto nel quadro di una controrivoluzione globale (o rivoluzione negativa) che sta rapidamente infrangendo le speranze suscitate dal 2011. In un settore della sinistra molto islamofobico e, in generale, religiosamente laico e male informato, c’è la tendenza a incolpare di tutto ciò le “rivoluzioni arabe”, impregnate di jihadismo, perché non erano “socialiste” e perché sono state sconfitte. Ma neanche il 15 maggio [spagnolo] era socialista e anch’esso fu in parte sconfitto. E lo stesso è accaduto con Gezi Park. E con Occupy Wall Street. E sono stati sconfitti anche il chavismo e il kirchnerismo e il lulismo; e pure Sanders negli Stati Uniti, a favore del radicalismo di destra di Clinton e di Trump. In cinque anni l’arretramento è stato brutale; tanto più brutale quanto più sembrava nel 2011 che fossimo sul punto di compiere un grande balzo in avanti contro il neoliberalismo capitalista a vantaggio della democrazia globale. La controrivoluzione politica, come l’essere di Aristotele, ha molti nomi: Partido Popular in Spagna, Le Pen in Francia, Erdogan in Turchia, al-Sisi in Agitto, al-Assad in Siria, PVV in Olanda, UKIP in Inghilterra, FPÖ in Austria, Macri in Argentina, Temer in Brasile eccetera. Sarebbe un grave errore credere che la battaglia è fra laicismo e religione. È fra dittatura e democrazia. Questa battaglia la stiamo perdendo, come nel caso della lotta di classe e per le stesse ragioni: ma sostituire uno schema “campista” ideologico, già superato nella realtà, con uno culturale egualmente inadatto servirà solo, come vuole la controrivoluzione in marcia, a farci accettare la rinuncia a diritti e libertà in nome di schieramenti identitari, culturali e tribali. Il radicalismo di destra europeo può assumere forme “laiche” e “antiterroriste”; il radicalismo di destra turco forme “islamiche” e “anticurde”. In entrambi i casi, è il conservatorismo sociale maggioritario quello che legittima queste derive pericolose. La torsione a destra delle istituzioni e il populismo conservatore stanno guadagnando terreno ovunque e gli scontri geostrategici, sempre più volatili e intrecciati, non dovrebbero ingannarci circa ciò che è realmente in gioco. L’obiettivo continua a essere lo stesso di sei anni fa, oggi forse un poco più difficile da conseguire: democratizzare il conservatorismo “laico” europeo, democratizzare il conservatorismo sociale musulmano. Il controgolpe di Erdogan, che chiude il ciclo aperto nel 2011, è una pessima notizia per tutti noi che, atei, musulmani o cristiani, lottiamo in questa direzione.
Note del traduttore (Cristiano Dan):
[1] Comparsi sul quotidiano madrileno El País.
[2] Dottore in scienze politiche, franco-turco, milita in Ensemble!/Front de gauche. Suoi contributi si possono trovare in linea nei siti di Jacobin, Contretemps, Ensemble.
[3] Immanuel Wallerstein, teorizzatore del «sistema-mondo».
* Santiago Alba Rico, filosofo, scrittore, dal 1998 risiede a Tunisi, dopo aver soggiornato per diversi anni al Cairo. Di formazione marxista, nel 2015 è stato candidato, simbolico, di Podemos per il Senato.