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aaajill-steinManca appena un giorno alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Elezioni che, per il contesto in cui cadono, avranno un forte impatto non solo all’interno del Paese ma anche sul piano internazionale. Dalla scelta definitiva dei candidati e delle candidate presidenti durante la scorsa estate, la campagna elettorale è stata segnata da un’assenza di dibattito approfondito sui temi, sui programmi, e sugli intendimenti dei due maggiori candidati, Hillary Clinton per i Democratici e Donald J. Trump per i Repubblicani.

Complice decisiva anche l’opera dei media statunitensi, anch’essi tra le maggiori corporations del Paese, lo scontro si è giocato quasi esclusivamente sulle caratteristiche personali dei due maggiori sfidanti, sulla capacità di esercitare la carica presidenziale esclusivamente sulla base di qualità morali, su scandali e controscandali, ultimo la clamorosa riapertura del caso mailgate sulla Clinton, che hanno condotto al parossismo la tendenza alla spettacolarizzazione della politica (e della relazioni sociali) nei paesi a capitalismo avanzato, già così ben descritta ormai quasi cinquant’anni fa da Guy Debord nel suo celebre testo, La Società dello Spettacolo.
Senza dubbio, questa tendenza è acuita anche dalla necessità di non discutere di temi sensibili, soprattutto in un momento della storia degli USA in cui la tradizionale fiducia nell’American Way of Life e nell’American Dream è scossa da una crisi economica che, sebbene apparentemente risolta, ha lasciato dietro di sé uno strascico di “perdenti” (classe operaia bianca, afroamericani, larga parte della popolazione giovanile) ed è trascesa in una crisi sociale, politica e perfino esistenziale. Da una parte ci sono tutti i dilemmi di una classe dominante il cui dominio ha subito un’incrinatura e che cerca di ristabilire il proprio “posto nel mondo” (in senso metaforico e letterale), dall’altro l’insicurezza sociale, il declassamento del cosiddetto ceto medio, il rafforzamento dell’apartheid sociale degli afroamericani e in parte delle altre minoranze, la precarietà o la disoccupazione per larghe fasce di lavoratori e lavoratrici, bassi livelli salariali e mancanza di sbocchi per settori giovanili, compresi quelli dotati di alti livelli di istruzione, oberati peraltro da enormi debiti studenteschi.
Questa situazione ha parzialmente scomposto i blocchi sociali che tradizionalmente trovavano espressione rispettivamente nel Partito Democratico e nel Partito Repubblicano e ha creato un contesto in cui da una parte abbiamo assistito alla spinta della Clinton di riproporre l’abituale verniciatura progressista dei Democratici per mantenere saldo l’elettorato giovanile e quello afroamericano, tradizionali bacini di consenso del suo partito, e dall’altra a un sostanziale rimescolamento delle carte sul tavolo repubblicano ad opera di Trump: candidature populiste di destra come quelle del magnate newyorkese non sono un unicum nella storia statunitense poiché nella campagna presidenziale del 1992, che vide l’elezione di Bill Clinton, il milionario texano Ross Perot totalizzò il 18,9% del voto popolare e arrivò secondo in due Stati (Maine e Utah), guadagnando la miglior posizione per un candidato indipendente dai due maggiori partiti dal 1912. Ma era una situazione molto diversa, e Perot non fu altro che una meteora: l’Unione Sovietica era crollata da poco, l’economia avrebbe conosciuto di lì a un paio d’anni un (effimero) boom, la fiducia dei cittadini nordamericani nel sistema era pressoché intatta, le leadership del Partito Democratico e di quello Repubblicano non erano in discussione, e l’elezione di Clinton poteva sostanzialmente essere vista come un’alternanza “fisiologica” in tempi di normale funzionamento del sistema capitalistico dopo tre mandati consecutivi dei Repubblicani.
Tutti fattori la cui assenza oggi ha favorito la nascita del fenomeno Trump come rappresentante e potenziale aggregatore (anch’esso instabile, va sottolineato) di un blocco sociale composto da lavoratori bianchi, maschi, impoveriti e arrabbiati, piccoli imprenditori e piccoli agricoltori schiacciati dai fenomeni di transnazionalizzazione dell’economia, con il collante ideologico del protezionismo, dell’isolazionismo, del razzismo. D’altro canto Hillary Clinton emerge come la rappresentante più coerente degli interessi delle grandi multinazionali, della finanza e del complesso militar-industriale statunitense, favorevole a proseguire le politiche espansioniste all’estero e di conservazione della supremazia dell’influenza delle corporations in patria.
Tuttavia, è proprio l’assenza di un quadro di stabilità politica che ha consentito al tempo stesso l’apertura di uno spazio ideologico a sinistra, che ha favorito la nascita del fenomeno Bernie Sanders. Durante tutta la fase delle primarie contro la Clinton, il senatore del Vermont aveva funto da catalizzatore politico delle spinte sociali contro l’oligarchia politica ed economica, che dai tempi del movimento Occupy Wall Street avevano animato settori giovanili non trascurabili nel Paese. Quelle spinte si sono poi tradotte in una campagna per le primarie in cui l’entusiasmo giovanile è stato palpabile, e soprattutto in cui obiettivi come il diritto alla salute per tutte e tutti, un salario minimo di 15 dollari, istruzione gratuita, ferie e malattie pagate, rimozione degli ostacoli alla sindacalizzazione, opposizione ai trattati di libero scambio, lotta ai grandi poteri finanziari, sono usciti dagli ambiti relativamente ristretti in cui erano stati confinati. Come rilevato da diversi sondaggi condotti su un campione di millennials, dopo più di quarant’anni sono riemersi nel lessico politico ufficiale persino parole come rivoluzione e socialismo, sebbene vada ricordato che, a una lettura attenta dei risultati di questi sondaggi, la percezione di questi termini risulti diversa dall’accezione che abitualmente siamo soliti conferire loro nella sinistra antisistema in Europa.
Dopo un primo momento in cui pareva che Sanders stesse per separarsi, o autonomizzarsi, dal Partito Democratico, l’orientamento più recente sembra essere quello di continuare la battaglia all’interno per riorientare le politiche del partito in una direzione più progressista, servendosi anche dell’associazione Our Revolution di cui Sanders è di fatto padre putativo.
Non c’è bisogno di scomodare la parabola del reverendo Jessie Jackson che nel 1983 seguì esattamente la stessa strada, per capire che questo tentativo è destinato a un fragoroso fallimento. Un fallimento che rischia di travolgere o sterilizzare anche il movimento che è nato con la candidatura alle primarie del senatore.
Eppure almeno una parte di questo movimento, già dal momento in cui Sanders impresse un marchio negativo alla sua esperienza appoggiando la corsa della Clinton al termine delle primarie che lo videro sconfitto, ha deciso di impegnarsi nel sostegno a una candidatura indipendente e, lo vedremo, veramente alternativa al duopolio del Capitale negli Stati Uniti.
Parliamo di Jill Stein, medico sessantaseienne originaria di Chicago, che correrà per il Partito dei Verdi in coppia con l’attivista Ajamu Baraka come vicepresidente.
Dopo Eugene Debs per il Partito Socialista nel 1912, Jill Stein è probabilmente la candidatura più a sinistra nella storia degli Stati Uniti che abbia la possibilità di ottenere un risultato di tutto rispetto alle elezioni presidenziali.
Gli ultimi sondaggi la accreditano infatti di una percentuale del voto popolare tra il 2 e il 5%. Si tratta di una forbice di non poco conto ma se dovesse concretizzarsi un risultato di almeno il 3%, ciò costituirebbe un esito non trascurabile perché circa tre milioni di voti sarebbero una base per impegnarsi nella costruzione di quel famoso terzo polo ancorato a sinistra e alternativo ai due maggiori partiti sistemici, di un riferimento potenziale per il mondo del lavoro, per le cosiddette minoranze, per i giovani. Un risultato, improbabile, del 5% darebbe anche accesso ai rimborsi federali per le prossime presidenziali in proporzione ai voti popolari ricevuti, e darebbe automaticamente accesso al voto in diversi Stati. Il Partito potrebbe così superare le barriere antidemocratiche minuziosamente innalzate per impedire la presenza di alternative politiche. L’ultimo appello al voto è appunto volto a questo obiettivo.
Qual è stata la campagna della Stein? È possibile trarne un bilancio, seppure provvisorio in attesa dell’esito elettorale? Il filo conduttore della campagna è indubbiamente stato quello dell’appello contro il voto al “male minore”, contro il “voto utile”, correttamente individuato come una pericolosa illusione che prepara il terreno non a un rafforzamento del movimento popolare, non all’ottenimento di risultati significativi, ma al contrario a mali ancora peggiori di quelli che si vorrebbe presuntamente combattere.
Si deve partire da un dato di fatto: la Stein non ha potuto godere, tranne sporadiche eccezioni, della copertura mediatica dei due principali contendenti. Le uscite televisive che, checché se ne dica, continuano ad essere il primo mezzo di informazione per milioni di persone, si possono contare sulle dita di una mano; il confronto con gli altri candidati e le altre candidate le è stato precluso sulla base di una norma federale assolutamente antidemocratica che limita i confronti televisivi ai candidati che abbiano almeno una proiezione del 15% nei sondaggi. Per questo motivo la Stein ha dovuto fare di necessità virtù e trovare una via diversa per arrivare a quante più persone possibili, e ha di fatto utilizzato due mezzi: l’organizzazione dell’attivismo di base, soprattutto nelle grande città dell’Est e dell’Ovest del Paese, e un uso intelligente e scaltro dei social media, primo fra tutti Facebook. In questo modo la candidata verde è riuscita a raggiungere diverse centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, utilizzando anche modalità innovative: ad esempio ha usato una piattaforma interattiva per intervenire in diretta durante i dibattiti Clinton-Trump, rispondendo alle domande dei conduttori, commentando le risposte dei suoi sfidanti e rispondendo ai quesiti delle persone collegate alla sua piattaforma in quel momento.
È stata una campagna condotta all’interno dei conflitti sociali e ambientali che oggi animano gli USA, prima fra tutte la grande battaglia delle comunità native dei Sioux della riserva di Standing Rock, tra North Dakota e South Dakota, contro la costruzione della Dakota Access Pipeline (DAPL): un oleodotto di quasi 1890 chilometri (!) che, passando per gli Stati del North Dakota, South Dakota, Iowa, and Illinois, minaccerebbe le fonti idriche, i fiumi, le fattorie, la fauna ed ecosistemi locali sensibili, oltre il modo di vita tradizionale dei Sioux e il diritto di accesso alle loro terre ancestrali. È una battaglia tuttora in corso, dal valore simbolico e materiale enorme, in cui la Stein è stata in prima linea ma senza mai invadere il campo del movimento e senza protagonismo, mettendo invece a disposizione della lotta la propria candidatura, soprattutto considerando che sia la Clinton, sia Trump sono a favore dell’oleodotto.
La sua campagna ha cercato anche di collegarsi costantemente alle preoccupazioni più sentite dai referenti sociali ai quali i Verdi hanno scelto di rivolgersi, a partire dall’accorato appello ai sostenitori e alle sostenitrici di Sanders affinché si unissero all’impresa di gettare le basi per la costruzione di un’alternativa politica duratura. La Stein ha condiviso infatti buona parte del programma elettorale di Sanders, con l’importante differenza di una maggiore chiarezza nell’individuazione delle responsabilità politiche e sociali, di una consapevolezza limpida riguardo agli ostacoli per il raggiungimento di obiettivi radicali di giustizia sociale e ambientale, e soprattutto una visione potenzialmente anticapitalista, che si è riflessa anche nelle modifiche allo statuto del Partito Verde all’ultimo congresso della scorsa estate.
Sia detto senza enfasi, non è possibile non registrare la radicalità del programma del partito, una radicalità che oggi è estremamente difficile trovare a sinistra, soprattutto in Europa:
• sul piano ambientale, un “New Deal Verde”, che metta fine una volta per tutte all’economia dell’energia fossile e progetti una transizione governata dai pubblici poteri verso un’economia verde: nazionalizzazione delle fonti di energia sotto controllo democratico dei lavoratori e dei cittadini, fuoriuscita dalle fonti fossili e dal nucleare, e utilizzo al 100% di fonti rinnovabili, protezione delle terre di proprietà statale, delle fonti idriche, della biodiversità, sostegno ad accordi per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra con compensazione finanziaria ai paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, adozione del principio di precauzione e messa al bando di pesticidi e OGM, protezione delle comunità più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, come quelle afroamericane e a basso reddito;
• sul piano del lavoro, un piano pubblico del lavoro per la creazione di milioni di posti di lavoro con la riconversione dell’economia fossile a una economia radicalmente differente, un piano infrastrutturale per le “piccole opere” (scuole, ospedali, ecc…) favorire la sindacalizzazione nei luoghi di lavoro, aumento del salario minimo orario a 15 dollari, rescissione dei trattati internazionali di libero scambio, riforma dell’assistenza pubblica che consenta di mantenere uno standard di vita dignitosa per tutte e tutti, cure parentali gratuite;
• sul piano della salute, fine della sanità privata e istituzione di un sistema sanitario nazionale, la fine della ipermedicalizzazione e della eccessiva prescrizione di farmaci, garantire il diritto alla salute riproduttiva e all’aborto, priorità della prevenzione;
• sul piano dell’istruzione, istituzione di un sistema educativo pubblico, gratuito e di massa, condono totale del debito studentesco, coinvolgimento degli studenti nella gestione di scuole e università, rimozione degli ostacoli di ordine razziale, economico e sociale che impediscono una fruizione universale dell’istruzione, aumentare l’allocazione di finanziamenti federali alle scuole pubbliche;
• sul piano democratico, riconoscimento dei diritti delle persone LGBTQ, difesa e promozione dei diritti delle donne, delle comunità native e di un accesso libero e gratuito ad Internet, riforma del sistema penale e criminale, riforma radicale del sistema carcerario con la fine della punibilità dei minori, abolizione della pena di morte, pieno riconoscimento del diritto di assemblea e di manifestazione, abolizione del Patriot Act, riforma complessiva del processo elettorale in vista di una completa democratizzazione che garantisca effettivamente il diritto al voto per tutte/i;
• sul piano della politica internazionale, taglio del 50% delle spese militari, fine dell’ingerenza in paesi stranieri, fine del sostengo a Paesi che violano i diritti umani, fine del sostegno alle politiche dello Stato di Israele, una politica estera basata sulla diplomazia e sul sostegno ai movimenti democratici in tutto il mondo, drastica riduzione degli arsenali militari in vista di una loro completa eliminazione, rimozione di tutte le testate nucleari USA presenti attualmente in territorio europeo, avvio di un programma di disarmo globale.
Sia detto per inciso, da queste linee ben si comprende che non è esagerata l’affermazione secondo cui se questo programma fosse applicato implicherebbe, nelle attuali condizioni degli Stati Uniti, una vera e propria rivoluzione e richiederebbe la mobilitazione di milioni di persone.
È ovvio che, stando così le cose, il programma dei Verdi USA costituisca più un’indicazione di lavoro politico che altro ma è altrettanto significativo che questo progetto possa potenzialmente attirare al voto milioni di persone in un Paese come gli Stati Uniti, sulla base di una visione di società completamente inconciliabile e incompatibile con quella attuale.
Le speranze di un buon risultato sono tante nel quartier generale dei Verdi, anche se pochi si aspettano realisticamente di raggiungere il tanto agognato 5%, che equivarrebbe di fatto a un via libera per le prossime elezioni presidenziali, consentendo di concentrarsi sulla strategia per il grassroot movement-building (costruzione del movimento di base) e per il consolidamento politico in collaborazione con la seppur piccola sinistra anticapitalista USA da qui al 2020. C’è da dire che i riscontri avuti nel corso di questa volata sono incoraggianti, perché confermano che lo spazio aperto per la prima volta nel 2011 dal movimento Occupy è ancora presente. Non ci nascondiamo la difficoltà di una partita comunque in salita contro un fuoco di fila non indifferente ma è evidente che un’affermazione importante del partito darebbe un segnale di vitalità della sinistra USA e di potenzialità ancora in gran parte inesplorate per lo sviluppo di un’alternativa politica ai due partiti pro-corporation.
Al momento della scrittura di questo pezzo, apprendiamo dal New York Times che il Direttore del FBI, James B. Comey, avrebbe comunicato in una lettera al Congresso che la conferma del giudizio già espresso in precedenza sulla vicenda delle email della Clinton e che quindi non ci sarebbero elementi per incriminare l’ex Segretaria di Stato. Un “colpo di scena” favorevole alla Clinton che, a soli due giorni dal voto, potrebbe nuovamente dare una sterzata a una campagna elettorale estenuante, tutta giocata contro la classe lavoratrice, l’ambiente, la democrazia, la pace.