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aaadecrescitaSull’ultimo numero di Solidarietà abbiamo pubblicato un testo dei compagni di Sinistra Anticapitalista nel quale si criticava la corrente della cosiddetta “decrescita”. Una nostra lettrice ci invia un contributo nel quale prende posizione criticamente su alcuni aspetti di quel testo. Un contributo interessante al dibattito che speriamo possa continuare (ndr).

Nel testo di “Sinistra Anticapitalista”, pubblicato nel precedente n° di Solidarietà, la decrescita era sbrigativamente accusata di essere un’ideologia “neoprimitivista”, spesso associata a tendenze “di ispirazione religiosa, quando non siano apertamente autoritarie, che propugnano il ritorno a stili di vita rurali”. Questi (pre)giudizi sono sintomatici delle difficoltà di instaurare in Italia un vero dialogo e confronto tra sinistra radicale e decrescita. Difficoltà in parte imputabili all’immagine distorta e frammentaria che si ha in Italia (e di riflesso anche qui in Ticino) del composito movimento per la decrescita, che non può essere in alcun modo ridotto alle sole figure di Serge Latouche o di Maurizio Pallante.
Cogliendo l’invito al dibattito offerto dal titolo della rubrica in cui è stato pubblicato il testo, vorrei dunque cercare di esporre, in modo purtroppo molto sintetico, quelle che sono attualmente e a livello internazionale le tesi dominanti all’interno del pensiero e del movimento per la decrescita, un paradigma critico ancora abbastanza giovane, ma che si è sviluppato con straordinaria rapidità nel corso degli ultimi anni.

 

La critica della crescita

La decrescita non è una teoria, non è una ideologia. Per ora la decrescita è un campo critico e propositivo, in cui nascono, si sviluppano, dialogano e si scontrano una serie di concetti, idee e progetti politici. Esistono tuttavia alcuni assi comuni. Il principale è, logicamente, la critica della crescita, che si articola su più fronti, così riassumibili: “la crescita è antieconomica e ingiusta, non è sostenibile ecologicamente e non sarà mai sufficiente. Per di più, la crescita sta per giungere a termine a causa dei suoi stessi limiti esterni ed interni” (1). L’ordine con cui i coordinatori di una recente importante summa del pensiero decrescente espongono i vari limiti della crescita non ha nulla di casuale: l’esigenza di un cambiamento di rotta non è determinata in primo luogo dall’impossibilità bio-fisica di continuare nella stessa direzione (“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”), sono innanzitutto le conseguenze sociali ed ecologiche di un sistema produttivista fondato sulla crescita infinita a rendere urgente agli occhi dei fautori della decrescita un mutamento radicale.

La crescita è antieconomica perché, come afferma il “paradosso della felicità” formulato da Richard Easterlin e come dimostrato da una serie sempre più ampia di studi che mettono a confronto il PIL con altri indicatori di benessere, al di sopra di una certa soglia, l’aumento del PIL non si accompagna a un aumento del benessere sociale. Anzi, si può notare come questi indicatori alternativi non abbiano in sostanza registrato alcun incremento nei paesi occidentali a partire circa dagli anni Settanta, epoca in cui sono iniziate invece ad ampliarsi le disuguaglianze sociali, confermando così la tesi di Wilkinson e Pickett secondo cui, oltre un certo livello, è l’uguaglianza e non la crescita a migliorare il benessere sociale. Ciò non deve stupire visto che, come tutti sanno (anche se troppo spesso lo si dimentica), all’interno dell’assurda contabilità economica generano più punti di crescita l’acquisto di un antidepressivo o un incidente d’auto, che non una chiacchierata con un amico o una passeggiata.

La crescita è anche profondamente ingiusta: non solo perché i suoi frutti sono iniquamente ridistribuiti, ma anche perché le stesse basi dell’accumulazione capitalista – e dunque della crescita economica – riposano su una serie di costi non pagati o socializzati: lo sfruttamento del lavoro di riproduzione sociale, ancora oggi effettuato soprattutto dalle donne e la cui importanza (sia quantitativa che qualitativa) è costantemente invisibilizzata; il saccheggio e lo sfruttamento delle risorse naturali; la socializzazione dei costi generati dall’inquinamento, dalla produzione di rifiuti, etc.

La crescita, inoltre, non sarà mai sufficiente a causa dei suoi stessi limiti “sociali”: il PIL può anche continuare ad aumentare ma, finché non saranno eliminate le disuguaglianze, la crescita non sarà mai “abbastanza” per tutti. Diversamente che al tempo di Marx, credo sia indubbio che oggi nelle società occidentali non vi sia più alcuna vera “carenza oggettiva”. I bisogni di base sono soddisfatti, o possono essere soddisfatti attraverso una migliore ridistribuzione delle ricchezze. La “rarità”, la “scarsità” sono oramai prodotte artificialmente. Attraverso le privatizzazioni, la mercificazione e la distruzione dei servizi pubblici, dei beni comuni e delle diverse forme di gratuità, e facendo credere alla popolazione che i privilegi di pochi saranno un giorno alla portata di tutti, il sistema capitalista si garantisce un rifornimento inesauribile di carburante per la propria crescita. Occorre tuttavia precisare che – a differenza di quanto traspare dai discorsi talvolta moralizzatori di alcuni autori della decrescita – il problema del “consumismo” non può essere affrontato e risolto sul semplice piano individuale, attraverso la ricerca di “stili di vita frugali”. Il consumismo è un problema strutturale: invece di puntare il dito contro le sue presunte radici psicologiche e fare appello a forme di volontarismo individuale per compiere nulla di meno che un vero e proprio “mutamento antropologico”, altre correnti della decrescita preferiscono giustamente insistere sulla necessità di attaccare le basi stesse di quella macchina di insoddisfazione permanente che è il sistema capitalista, ovvero le gerarchie, i privilegi e le disuguaglianze.

E, infine, la crescita non è sostenibile da un punto di vista ambientale, come è stato già ben illustrato nel testo di “Sinistra Anticapitalista”.

 

La decrescita come ripoliticizzazione

L’ampio raggio delle critiche alla crescita è il riflesso della confluenza all’interno di questo movimento di più correnti di pensiero e tradizioni filosofico-politiche. Spesso ridotta alla sua dimensione ecologica, la decrescita ha senz’altro uno dei suoi centri gravitazionali nell’universo verde, ma – e questo è un dato importante – con un ruolo e una funzione di marcata opposizione verso le tendenze dominanti in seno all’ambientalismo. Lo stesso termine “décroissance”, utilizzato per la prima volta nel 1972 da André Gorz (non a caso un marxista eterodosso prestato all’ecologia…), è stato ripreso e rilanciato nel 2001 da un gruppo di militanti anti-pubblicità di Lione proprio per il suo potenziale di rottura nei confronti della ben più consensuale e apolitica nozione di “sviluppo sostenibile”. La “decrescita” nasce così come “termine-bomba” (Paul Ariès) per ripoliticizzare un ambientalismo che elude sistematicamente la questione delle disuguaglianze e delle diverse responsabilità dei vari attori sociali, e che riduce le questioni ecologiche a problemi di natura “tecnica”, risolvibili grazie ad innovazioni tecnologiche o a modifiche interne all’economia di mercato, senza rimettere in discussione la causa prima, il sistema produttivista.

Ripoliticizzare l’ecologia significa anche assumere una posizione chiara nei confronti del sistema capitalista. Senza entrare nel dibattito teorico circa la possibilità o meno, da un punto di vista economico, di un capitalismo senza crescita, ciò che appare evidente è che la crescita rappresenta la linfa vitale del sistema capitalista: non solo, o non tanto, perché il suo obiettivo è la realizzazione di sempre maggiori profitti, ma proprio perché è solo grazie alla crescita che un sistema così profondamente ingiusto, distruttivo e fondato su rapporti di dominio e sfruttamento può sopravvivere, può essere socialmente accettato dalle sue stesse vittime. In un mondo in cui il 20% più ricco si appropria dell’86% delle risorse del pianeta e in cui – anche all’interno stesso delle società occidentali – il divario tra ricchi e poveri si fa sempre più profondo, la crescita svolge innanzitutto una funzione ideologica. Con una metafora molto usata, ciò significa che l’illusione di un possibile aumento della grandezza della torta permette di evitare di affrontare il problema centrale, la ripartizione delle fette. La decrescita vuole dunque riprendere in mano il coltello perché, come recita uno slogan di questo movimento, “la prima decrescita che vogliamo è quella delle disuguaglianze”.

Ma la decrescita vuole anche cambiare la ricetta, perché la torta cucinata dal sistema capitalista, produttivista e patriarcale ha un gusto sempre più amaro. Vanno dunque ripensati i rapporti tra gli esseri umani e la natura, i rapporti sociali di genere, le forme di organizzazione e distribuzione dei vari tipi di lavoro (produttivo e riproduttivo), cercando di andare oltre tutte quelle forme di separazione, gerarchizzazione e dominio su cui si è fondata la nostra civilizzazione. Come ha ben dimostrato la critica proveniente dall’economia femminista (disciplina con cui una parte della decrescita ha negli ultimi anni instaurato un dialogo non facile ma necessario e fecondo) (2), il conflitto principale, la contraddizione più esplosiva interna al sistema economico e sociale attuale è sempre più quella tra il capitale e la vita, ossia le condizioni stesse della riproduzione della vita all’interno di un sistema che ha perversamente ribaltato i fini e i mezzi, mettendo gli esseri umani al servizio dell’accumulazione capitalista. Bisogna dunque sovvertire l’economia, ricollocando al suo centro la questione della sostenibilità della vita: non si può costruire una società migliore prescindendo dalla necessaria discussione collettiva sul tipo di vita per cui desideriamo lottare, una vita che sia al contempo sostenibile e degna di essere vissuta.
La decrescita non è dunque un’idealizzazione del passato, bensì il rifiuto di proseguire questa folle corsa verso un baratro di barbarie.

 

1. Degrowth. A vocabulary for a new era, edited by Giacomo D’Alisa, Federico Demaria, Giorgos Kallis, Routledge, 2015.
2. Cf. soprattutto Amaia Pérez Orozco, Subversión feminista de la economía. Aportes par un debate sobre el conflito capital-vida, Madrid, Traficantes de sueños, 2014.