Secondo i dati rilevati dell’Inps, nel 2016 il mercato del lavoro ha offerto meno contratti stabili rispetto a quanto avveniva nel 2014, quando non c’erano incentivi e non c’era il Jobs Act. Non appena è venuto meno il bonus assegnato alle imprese che assumevano, il numero di assunzioni è tornato ai livelli di due anni fa. Molte di queste assunzioni altro non erano che trasformazioni di contratti di lavoro a termine in contratti a tempo indeterminato, un modo per avere diritto agli incentivi governativi.
Anche la trasformazione dei contratti è calata del 35,4% nel corso dell’anno. Il Jobs Act inoltre, con l’abolizione dell’articolo 18, ha fatto impennare il numero dei licenziamenti, che sono aumentati del 28, 3% in un anno. E’ cresciuto invece, nei primi otto mesi di quest’anno, il ricorso ai voucher: più 36% rispetto al 2015. Si tratta di buoni destinati al pagamento delle prestazioni accessorie di lavoro del valore nominale di 10 euro. Dovevano servire, secondo la propaganda, a porre fine al lavoro in nero, invece lo hanno in parte legalizzato. Tuttavia non è sufficiente constatare il fatto indubitabile che la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo non ha prodotto risultati positivi. Va anche detto che tale riforma un obiettivo lo ha raggiunto: ha precarizzato ancor di più la condizione dei lavoratori in quanto ha disarticolato il loro potere contrattuale e ha reso più facili i licenziamenti. Per il padronato è stato un successo, per i lavoratori una perdita secca.
L’Italia continua ad essere il paese europeo col tasso più alto di disoccupazione giovanile: il 40% circa, contro una media europea del 22%. Ciò è alla base di un fenomeno tipico della condizione giovanile italiana, come ha rilevato una ricerca svolta da un istituto londinese su incarico del governo. In una classifica dei paesi dove i giovani hanno più o meno opportunità di vita decente, di inserimento nel mondo del lavoro e nella società, in grado di offrire loro la possibilità di un futuro decente, l’Italia figura al 37° posto, sorpassata da paesi come Romania, Colombia e Costa Rica. Quindi, come si dice, “mettere su famiglia” o andare a vivere da soli, risultano obiettivi impraticabili. Il lavoro, anche quando c’è, è precario, pertanto accendere un mutuo è un lusso rottamato d’altri tempi. Spese di mantenimento, affitto e bollette prosciugano velocemente lo scarso salario, quando c’è, e si rischia di arrivare a fine mese senza un euro in tasca. Ecco perché restano in famiglia, primato che appartiene ai giovani italiani. Secondo i dati Eurostat, oltre i due terzi di chi ha tra i 18 e i 34 anni vive ancora con un genitore: la media europea sfiora il 48%, quella italiana la supera di ben 20 punti. Disoccupazione alle stelle, precarizzazione del lavoro, remunerazioni sotto il limite della sopravvivenza dignitosa, spiegano le ragioni delle scelte che obbligano i giovani italiani a stare coi genitori.
Esempi particolari di condizioni di lavoro a Torino
Dietro la facciata di una città che parrebbe lamentarsi perché sarà privata del pane della cultura (oddio! grida la media e grande borghesia del centro città: è saltata la mostra di Manet!) si cela una realtà poco rappresentata e indagata, di un capitalismo che pretende di essere senza lavoratori e senza quel rottame del secolo scorso che era il conflitto di classe. In queste ultime settimane le cronache locali hanno messo in evidenza il tema della digital economy, un’economia che si basa su tecnologie di elaborazione digitale, chiamata anche Internet Economy, nuova economia, o Web Economy. Ad esempio, si apprende dal quotidiano «La Stampa» che il comune ha organizzato il lancio della piattaforma Vickers, con la benedizione degli assessori alle attività produttive e innovazione. Motivo? Dare sostegno ad attività innovative, poiché nel primo semestre 2016 si sono persi 20 mila posti di lavoro autonomi, 3 mila servizi non commerciali e la disoccupazione a Torino è al 9,5%, quella giovanile al 32%.
Vickers è una piattaforma che, ottenuta l’autorizzazione del Ministero del lavoro, si propone di mettere in contatto domanda e offerta di lavoretti. Così si presenta al pubblico e sul mercato: l’applicazione, gratuita e scaricabile da smartphone e tablet, mette in contatto chi non ha tempo o non è in grado di fare tante piccole attività quotidiane con chi offre la propria professionalità per sbrigare proprio quei lavori pratici di tutti i giorni. I lavoratori vengono preventivamente verificati e sono assicurati e i pagamenti sono tracciati attraverso Pay Pal o carte di credito. Piena libertà di accettare o meno un impiego e soglia minima di compenso mai al di sotto dei 20 euro.
Questo sarebbe l’uso “buono” e corretto della digital economy, diverso da quello “cattivo” rappresentato dal caso Foodora, una multinazionale tedesca che opera a Torino gestendo le consegne a domicilio per conto di ristoranti, pizzerie e chi ritenga di utilizzare i loro servizi. Circa trecento sono i lavoratori messi in azione da questa piattaforma, inquadrati come “liberi professionisti” o, se si preferisce secondo la versione sarcastica, ragazzi che amano andare in bicicletta e arrotondare facendo dei lavoretti.
Il caso Foodora
Essa è l’esempio del nuovo capitalismo, quello immateriale, dicono i primi della classe, delle App (applicazione per apparecchi elettronici tipo PC, tablet, smartphone) e delle piattaforme condivise. Si presenta come una giovane azienda rampante, del mondo 3.0. In realtà si tratta di un piccolo esercito di lavoratori in bicicletta, sottopagati e privi dei diritti elementari, come la retribuzione in caso di malattia, le ferie, ecc., insomma di tutte quelle bazzecole che appartenevano dal vecchio movimento operaio novecentesco. Senza alcun tipo di assicurazione, costretti pure a ripararsi da soli la bicicletta, quando si guasta e a comprarsi il caschetto (sono liberi professionisti d’altronde), liberi da ogni lacciuolo di tipo associativo, sindacale, contrattuale, come si conviene alla magnificata moltitudine. Questa favola bella si è sgonfiata a causa di un conflitto di classe che vede opporsi i lavoratori, usati per fare profitti, ai proprietari della piattaforma. La causa immediata e banale della protesta, vecchia di alcuni secoli, è stata innescata da motivazioni salariali. Fino a poco tempo fa l’azienda, pagava i sui riders, “collaboratori” in bicicletta, con la generosa retribuzione di 5 euro l’ora. Poi ha deciso di passare al cottimo integrale offrendo ai suoi “liberi professionisti” la retribuzione di 2,70 euro a consegna.
Cottimo è una parola che evoca l’Ottocento e il Novecento, la forma di pagamento migliore per il capitalismo, che riduce il lavoratore a libero schiavo del capitale, la cui vita è completamente legata alla sua subordinazione al lavoro. Il passato, che vogliono farci scordare, ha visto lotte operaie, di per sé non rivoluzionarie, ma indubbiamente positive per la crescita del movimento di classe, contro il pagamento a cottimo, per garantirsi una paga sganciata dalla prestazione immediata di lavoro. Così, sabato 8 ottobre a Torino è cominciata, con lo sciopero, la protesta dei riders della Foodora. I fattorini 3.0 contestano la Start-up (nuova impresa dalle forme di un’organizzazione temporanea in cerca di un business) del takeaway (servizio di ristorazione che offre cibi da consumare altrove) digitale e chiedono di eliminare la retribuzione a consegna (cottimo) di 3 euro lordi prevista nei contratti co.co.co. L’azienda digitale ha promesso di aumentare di un euro la paga, ciò non ha arrestato la protesta. I riders torinesi in lotta si definiscono lavoratori della logistica, fattorini, corrieri, quelli che portano le vostre merci: cibo, pacchi, lettere, corrispondenza. Sotto l’effige della sharing economy, della flessibilità, del lavoro fluido e dinamico, si nascondono vecchie forme di sfruttamento, travisate dal “nuovo che avanza”. Raccontano che l’impresa Foodora ha tentato di placare la protesta cancellando i punti di partenza, dove i “liberi collaboratori” si trovavano in attesa di ricevere gli ordini dell’app e per evitare di farli incontrare. A chi ha protestato non gli sono stati più assegnati turni lavorativi. Difficile formalmente parlare di licenziamenti, secondo la vecchia modulistica, in un’organizzazione dove sono liquidi i rapporti tra direzione e dipendenti, che vengono chiamati “collaboratori” e dove i 300 fattorini hanno firmato in contratto di co.co.co. Tuttavia, dicono i lavoratori, l’obbligo di indossare la divisa o il sistema che assegna le ordinazioni sono elementi che ci fanno ritenere che non ci sia un rapporto di collaborazione, ma di subordinazione basata sul cottimo: l’economia digitale sta producendo un proprio caporalato digitale.
Dietro la movida il lavoro
Un altro esempio di nuove economie in sviluppo nel settore del consumo, è stato “scoperto” da un’inchiesta pubblicata su «La stampa» del 23 ottobre 2016 riguardante le condizioni di lavoro nei ristoranti, cocktail-bar e locali di street-food (cibo da strada). Settori declamati come trainanti della nuova economia del consumo e dello svago, si appoggiano sulle spalle di dipendenti costretti a paghe da fame, con contratti (quando ci sono) irregolari e turni da maratoneta. 7.916 attività che operano nel settore di somministrazione di cibo e bevande, la maggioranza delle quali a conduzione familiare, ma ci sono anche aziende che raggiungono i 15 dipendenti . Un settore dove la concorrenza è spietata, come testimoniano i dati dell’Unioncamere nel 2016: il numero delle chiusure dei locali nel 2016 ha superato quello delle nuove aperture. Tremila i lavoratori che lavorano nei bar, nei locali e nei ristoranti nell’area del centro a Torino. Su 349 attività controllate dagli ispettori del lavoro, al 57% è stata contestata una violazione per lavoro nero. Baristi, camerieri, chef, aiuto-cuochi, lavapiatti, prevalentemente bengalesi, che si accontentano di 800 euro in nero al mese per 12 ore di lavoro giornaliero. Un esercito il cui livello di retribuzione è in calo. Se dieci anni fa un cameriere intascava dai 50 agli 80 euro per servizio, oggi i ristoranti pagano 30-40 euro. I contratti a tempo indeterminato sono una chimera, spopolano quelli fasulli: sulla carta si scrive la metà delle ore fatte, il resto si paga fuori busta. Poi c’è la novità dei voucher, nati per combattere il lavoro occasionale in nero, lo hanno istituzionalizzato e legalizzato: le quattro ore di lavoro ad esempio, sono pagate con due voucher e il resto in contanti. Ristoratori imprenditorialmente più rampanti di altri li tengono nel cassetto e li attivano solo quando temono di esser pizzicati dal controllo. Altro che fine del lavoro! Per la gioia dei rottamatori del movimento operaio novecentesco, qui siamo oltre quel secolo. Lo abbiamo superato all’indietro, siamo all’inizio dell’Ottocento.