Se andassimo a rileggere quello che molti commentatori ci hanno raccontato negli ultimi anni, vedremmo emergere un giudizio piuttosto lusinghiero sugli Stati Uniti. Condotti da Obama, gli USA si sarebbero risollevati dalla scoppola del 2007-2008. Le statistiche sulla disoccupazione citate confermerebbero che il peggio sarebbe passato e che, anzi, ci si sarebbe rimessi in carreggiata. Ogni mese, dopo tutto, vengono “creati” centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, spesso superando le stesse aspettative degli analisti.
La presidenza Obama avrebbe poi rappresentato l’accesso dei Neri ai posti di potere, rappresentando una svolta “storica” sul tema.
Sempre lo stesso Obama si sarebbe poi reso protagonista di una politica estera non più aggressiva, in rottura con coloro che lo avevano preceduto alla Casa Bianca.
Se tutto questo fosse vero, la Clinton (che si è presentata come la continuatrice di questa politica) avrebbe dovuto stravincere di fronte a qualcuno che, almeno a parole, si voleva in rottura con questa politica. In realtà lei e i democratici sono i grandi sconfitti di questa tornata elettorale.
Questo perché la realtà, e l’abbiamo potuta vedere in questi ultimi due-tre anni in modo concreto, è ben diversa da quella che ci è stata spesso raccontata.
La crisi sociale negli Stati Uniti lungi dall’essere risolta e l’economia non è ancora stata in grado di ritornare ai livelli del 2007-2008. La crisi dei subprime, dalla quale è partita quella crisi, ha lasciato senza casa milioni di famiglie, la conseguente crisi occupazionale che , malgrado l’abbellimento statistico, è lungi dall’essere risolta; spesso l’offerta di lavoro è precaria, malpagata, etc.
Che le cose vadano male, lo confermano, indirettamente, i movimenti che si sono sviluppati in questi ultimi due anni. Basti pensare alle forti mobilitazioni per il salario minimo (15 dollari) che ha visto protagonisti lavoratori di importanti multinazionali (da McDonald’s a Walmart); o ancora a quelle del movimento black live matter che ha messo al centro la lotta contro uno degli aspetti costitutivi della società americana: il razzismo; o, di nuovo, al movimento Occupy che ha disvelato come gli USA rappresentano il paese dove la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi non ha eguali al mondo.
Quanto sia tutto sommato “minoritario” il mandato di cui è stato investito Trump lo spieghiamo in altra parte di questo numero del giornale (cfr. pag. 13).
Resta tuttavia il fatto che egli ha intercettato un voto di protesta che ha tradotto a livello politico la crisi sociale, fatte delle molte sfaccettature che abbiamo qui sopra richiamato. Una parte dei salariati americani ha votato per lui confidando nelle sue ricette protezionistiche, pensando che possano servire a proteggerli contro l’invasione di prodotti e lavoratori che li avrebbero ridotti a mal partito.
Vista dall’Europa non è una novità (pensiamo alla Le Pen o a Salvini). In Svizzera, in Ticino, abbiamo imprenditori senza scrupoli, ricchi e sfruttatori di manodopera a basso prezzo, che fanno gli stessi discorsi (Blocher e Bignasca per non fare che due esempi); anche loro vogliono costruire muri (reali o diplomatici) che dovrebbero servire a difendere i lavoratori e le loro condizioni di lavoro. In realtà, lo sappiamo, delle condizioni dei lavoratori, loro che li sfruttano quotidianamente, se ne fregano altamente.
Lo stesso vale per Trump. Certo, egli si presenta (e in qualche misura lo è) come alternativo all’establishment. Ma non è alternativo al sistema, al capitalismo che è all’origine della crisi sociale che, in parte, egli stesso denuncia.
Basta scorrere il suo programma; anche le proposte che hanno un vago sapore “antiglobale” si muovono in realtà una prospettiva ampiamente figlia della logica neoliberale, cioè verso forme di liberalizzazione spinte dei meccanismi economici. Che questo avvenga all’interno o all’esterno dell’America poco importa: per i salariati americani (ed anche per quelli degli altri paesi) il risultato non potrà che essere catastrofico.
A guadagnarci, ancora una volta, saranno quelle classi dominanti delle quali Trump è un prodotto. E non ha caso a mostrato il maggiore entusiasmo per l’elezione del miliardario americano è stata proprio Wall Street. Che non sbaglia quasi mai a riconoscere i suoi alleati e sostenitori.