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aaaaagessoSembrerebbe conclusa, almeno stando a quanto hanno comunicato le parti interessate, la vertenza che negli ultimi mesi ha opposto l’associazione padronale dei gessatori e le organizzazioni sindacali. Queste ultime, dopo la rottura dei negoziati a seguito della disdetta del contratto collettivo di lavoro (CCL) in scadenza comunque a fine anno, avevo annunciato misure di lotta, in particolare stavano muovendo i primi passi per l’organizzazione di uno sciopero che avrebbe dovuto tenersi (con modalità ancora non molto chiare) attorno a metà novembre.

 

Retromarcia padronale…

Come noto la questione che aveva innescato la vertenza erano le proposte padronali, tutte tese a peggiorare le condizioni di lavoro attraverso il peggioramento di diverse disposizioni contrattuali, prima tra tutte la proposta di introdurre una nuova categoria salariale, il garzone, ancora più bassa del livello salariale del manovale.
Di fronte al rifiuto sindacale di entrare in materia su questo punto , il padronato aveva disdetto il CCL e minacciato di non volerne sottoscrivere un altro. Ma, come detto, la pressione sindacale (manifestatasi solo attraverso un paio di assemblea abbastanza ben frequentate e da una minaccia di sciopero) è stata sufficiente per far sì che il padronato ritornasse sui suoi passi.
Vale la pena sottolineare questo fatto per mostrare come, a volte, persino la determinazione con la quale si affrontano le trattative sindacali può essere sufficiente a scoraggiare la parte padronale, al di là poi della reale capacità di animare lotte che, per la loro intensità e durata, siano in grado effettivamente di modificare i rapporti di forza. Lo diciamo all’attenzione di altri settori (ad esempio quello pubblico cantonale nel quale questa prospettiva di organizzare delle lotte da tempo ormai non viene più evocata in modo serio e credibile da parte delle direzioni sindacali).
Così è stato concluso un nuovo CCL che apporta qualche modifica all’attuale situazione, ma non risolve fondamentalmente i problemi di fondo.

 

Un settore dominato dal dumping salariale

Non vi sono dubbi che il settore del gesso è uno di quelli nel quale si può toccare con mano l’affermazione del dumping salariale. Basterebbero veramente pochi dati a dimostrarlo, senza dover ricorrere a laboriose inchieste come quelle che fa (e non ci pare con grande successo) la commissioni tripartita. Sono dati pubblici, cioè elaborati dalla Commissione paritetica del settore, e che abbiamo pubblicato sull’ultimo numero di Solidarietà.
Ebbene, nel 2011 il settore occupava 1’152 lavoratori ai quali versava una massa salariale di poco più di 49 milioni di franchi. Cinque anni dopo, nel 2015, il settore era cresciuto, in termini occupazionali, di oltre il 36% (1’567 addetti), mentre la massa salariale era cresciuta (passando a poco più di 50 milioni) del 2% circa, cioè era sostanzialmente rimasta stabile. Lo stesso ragionamento potrebbe essere fatto su un periodo più lungo, quello che abbraccia la liberalizzazione del mercato del lavoro a seguito dei bilaterali; tra il 2005 e il 2015 il numero degli occupati passa da 549 a 1567 addetti (pari ad un aumento (il 285%!), mentre la massa salariale aumentava solo del 51%.
Ancora più eloquenti i dati relativi al salario annuale medio pro capite che passa da circa 61’000 nel 2005 a 32’000 nel 2015: praticamente un dimezzamento. Se questo non è dumping?

Come tutto questo è stato possibile?
Prima di tutto grazie ai meccanismi contrattuali che, di fatto, permettono – non riconoscendo l’esperienza professione e le qualifiche acquisite fuori dal Ticino – di classificare al livello più basso (la categoria del manovale, cioè del “Lavoratore senza qualifica e senza esperienza professionale in Svizzera”) buona parte dei dipendenti affluiti nel frattempo sul mercato del lavoro in Ticino.
Un secondo aspetto, sempre legato alla strutture contrattuali, è la mancanza di permeabilità tra un livello contrattuale e l’altro, al quale se ne aggiunge un terzo: la fissazione, per ogni categoria salariale, dei semplici salari minimi. Un fattore quest’ultimo che, nell’ambito di una forte rotazione del personale, come quella di fatto messa in atto dalla liberalizzazione del mercato del lavoro, conduce ad avere dei livelli salariali che si adeguano sul minimo di ogni categoria. Ed è da qui che nascono quella differenze importanti sia nella massa salariale che nella evoluzione del salario medio pro-capite a cui ci siamo riferiti qui sopra.
Infine, non si deve nascondere, le commissioni paritetiche (quelle che tanto piacciono a Vitta e che ormai verranno finanziate dopo il voto del 25 settembre pur avendo a disposizione molti fondi) hanno dimostrato di non saper intervenire per bloccare il processo di dumping. E siccome le commissioni paritetiche sono formate anche dai sindacati, appare perlomeno strano che abbiano assistito a questa crescita dei lavoratori non qualificati i manovali senza, praticamente, batter ciglio…

 

Qualche piccolo passo avanti…

Da quanto si è potuto leggere nel comunicato che rendeva conto del protocollo di accordo tra sindacati e padronato, la trattativa è sfociata su un punto parzialmente positivo (e ci pare l’unico sostanziale, al di là della marcia indietro padronale sui garzoni – ma veramente lo volevano? – e altre piccole cose, importanti ma non decisive).
Ci riferiamo, proprio in relazione a quanto abbiamo detto più sopra, al punto in cui si parla della necessità di “Riconoscimento della problematica della classificazione verso il basso delle maestranze, dove attualmente quasi un lavoratore su due figura manovale. Di conseguenza, è approvato l’automatismo del passaggio di categoria dopo 36 mesi. Ciò significa che trascorso questo periodo, il manovale sarà classificato “gessatore con conoscenze professionali”, con relativo adeguamento salariale verso l’alto”. Si tratta sicuramente di un passo importante (la differenza tra i minimi delle due categorie è importante, circa il 16%, e potrà, forse, mettere in moto un meccanismo positivo all’interno delle diverse categorie professionali.

 

Ancora molti problemi sul tappeto

Il primo è quello dell’eccessivo periodo di attesa: 36 mesi sono tre anni. E sarà valido, se abbiamo ben capito, solo per coloro che saranno assunti a partire dall’entrata in vigore del nuovo CCL (nel 2018). Non crediamo che, così come formulata, possa rappresentare sul serio uno strumento per lottare velocemente contro il dumping ormai instauratosi nel settore.
La stipulazione di un nuovo CCL che mantiene sostanzialmente inalterato il vecchio schema delle classi salariali (seppur corretto con il meccanismo al quale abbiamo accennato) rischia di vanificare qualsiasi sforzo per combattere il dumping salariale. Infatti la presenza di soli salari minimi non permetterà di recuperare il ritardo salariale accumulato negli ultimi anni. Sarà infatti logico che i padroni classifichino tutti i lavoratori avendo come punto di riferimento il minimo. La rotazione tra vecchi e nuovi lavoratori (questi costantemente al minimo) porterà ad una ulteriore depressione dei livelli salariali.
Per opporsi a questo stato di cose, in prospettiva, sarebbe necessaria un riflessione più profonda (ed urgente) sulle strutture dei sistemi salariali contrattuali, ancorati al sistema di classificazione dell’apprendistato locale, oggi ampiamente superato (almeno nei settori edili). In particolare andrebbe ripresa la pratica dei salari medi contrattuali (a livello di ogni singola categoria e complementari a quelli minimi) da calcolare – per categoria – a livello di ogni azienda.
Un secondo problema è la ulteriore concessione di flessibilità concessa alle aziende (80 ore), in un settore nel quale ve n’è già molta.
Un terzo aspetto il passaggio ad una remunerazione forfettaria dell’indennità di trasferta. Anche qui , di fronte a inadempienze evidenti da parte padronale, si preferisce adeguarsi ad un livello minimo con la speranza che tale indennità venga finalmente versata.