Alla fine del 2016, venuta meno la propaganda smisurata, tipica del nostro ex premier, emergono con prepotenza dati, numeri, circostanze attinenti la condizione sociale e di classe in cui versa il nostro paese. Cominciamo da alcuni dati generali riguardanti il divario tra ricchi e poveri che segnalano la crescita delle diseguaglianze sociali.
Secondo i dati elaborati per il World Economic Forum di Davos, la distribuzione della ricchezza nazionale vede il 20% più ricco degli italiani detenere più del 69% della ricchezza nazionale, un altro 20% controlla il 17,6% di essa, mentre il 60% deve accontentarsi appena del 13,3%. Se si va a guardare alle differenze all’interno dei più ricchi si scopre che i 10 italiani più ricchi dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500 mila famiglie operaie (Censis -Centro Studi Investimenti Sociali- 2014). L’aumento delle diseguaglianze sociali rappresenta la ragione materiale che spiega la rabbia e la disperazione che serpeggiano nelle società occidentali e in Italia ed è un prodotto della contraddizione sistematica della forma economico-sociale assunta dal capitalismo in questi ultimi decenni. La ricchezza cresce tra i ceti più abbienti della società, secondo una redistribuzione del reddito che funziona al contrario, col risultato che la classe lavoratrice e una parte consistente di ceto medio rimane al palo o piega verso la povertà: termine ottocentesco che oggi viene riscoperto e usato come categoria nelle varie inchieste e ricerche sociologiche.
Dati impietosi
Impietosamente i dati Istat relativi al 2016 segnalano una crescita della disoccupazione che risale complessivamente all’11,9%. Tra le persone occupate si segnalano dati inquietanti: aumentano i dipendenti al di sopra dei 50 anni, diminuiscono quelli al di sotto dei 35; in questa fascia d’età la disoccupazione torna a salire al 39,4%. La legge Fornero, che ha allungato di brutto l’età lavorativa, spiega l’incremento del numero dei lavoratori ultracinquantenni, il mancato ricambio generazionale della forza lavoro e i pesanti effetti sulla disoccupazione giovanile. Tuttavia non è solo e direttamente la legge Fornero ad aver trattenuto i lavoratori a invecchiare negli uffici e nelle fabbriche, rinviando l’assunzione dei giovani. I datori di lavoro stessi hanno colto la palla al balzo e hanno preferito assumere lavoratori anziani, prossimi alla pensione, poiché così facendo si fanno carico di impegno meno oneroso e potranno disfarsene a più breve scadenza. Inoltre, un lavoratore anziano offre vantaggi per il datore di lavoro: non richiede formazione, è già esperto e essendo quasi pensionando non ha esigenze pressanti di retribuzione.
Dal marzo 2015 il Jobs Act ha ridisegnato, peggiorandoli, i rapporti di lavoro in Italia. Soprattutto in aziende medio-grandi in crisi, il datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce perché dispone dello strumento tecnico per poterlo fare. Dimissioni imposte dal datore di lavoro, aria più pesante nelle ditte, lavoratori sotto ricatto. Così crescono soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari (+ 28% nei primi otto mesi del 2016), proprio quelli permessi dal Jobs Act con il contratto a tutele crescenti. Anche nei pochi settori in cui l’occupazione è salita, la produttività generale è calata e la crescita si è mantenuta a livelli bassi, perché basata su professionalità non qualificate, alimentata da un mercato del lavoro fatto di lavoretti precari. In questo scenario, innovazioni normative, decontribuzione e Jobs Act, hanno fatto fibrillare il mercato del lavoro con un boom dei voucher: 277 milioni di contratti stipulati al 2015: 1.380.000 lavoratori coinvolti, con una media di 83 contratti per persona nel 2015 e 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016.
E’ il segnale, dice il Censis, che la forte domanda di flessibilità e l’abbattimento dei costi stanno alimentando l’area dei lavoretti, cioè un’occupazione precaria a redditi bassissimi che relega soprattutto i giovani lavoratori nel limbo della flessibilità estrema voluta dall’odierno modo di funzionamento del capitalismo selvaggio. Un’intera generazione è messa ai margini. I buoni lavoro sono la certificazione per legge della precarietà come stato permanente del lavoratore. Rispetto al riformismo novecentesco quello attuale si svolge al contrario: invece di migliorare le condizioni del lavoro le peggiora.
Precarizzazione e occupazione
Molte ricerche, scrivono tre esperti della questione (Brancaccio, Garbellini Giammetti), evidenziano la mancanza di correlazione tra precarizzazione del lavoro e aumento dell’occupazione. Le stesse norme che facilitano i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione. Se si volesse fare un bilancio onesto si dovrebbe concludere che questi dati smentiscono l’assioma secondo il quale la deregolamentazione del lavoro crea occupazione e riduce la disoccupazione, anzi si può affermare che la riduzione delle tutele dei lavoratori risulta statisticamente associata non alla crescita degli occupati, ma all’aumento delle disuguaglianze poiché la precarizzazione ha un effetto immediato sul potere contrattuale dei lavoratori, deprime i salari e aumenta al ribasso la differenziazione sociale. Diseguaglianze sociali è un termine ottocentesco e novecentesco, che gli ideologi della fine delle ideologie si guardano bene dall’usare. Ma non nominare le cose non significa cancellarle, può essere tranquillizzante, ma non elimina la condizione del diseguale. Pur constatando un aumento dell’occupazione nella fase iniziale dell’applicazione del Jobs Act, quando le imprese potevano giovarsi degli investimenti generosi varati dal governo, i dati rilevano che tale crescita non è stata sufficiente, in questi anni, a ridurre la povertà assoluta, perché si tratta di occupazione a basso reddito o perché una parte dell’occupazione è cresciuta per persone che vivono in famiglie non povere.
Proprio il giorno in cui un noto editorialista del quotidiano «La Stampa», Mario Deaglio, scriveva che bisognava continuare a «partecipare al grande mercato globale sul quale si fonda il nostro [o quello del suo ceto sociale?] benessere», iniziava la pubblicazione di un’inchiesta sulle diseguaglianze in Italia in quattro puntate, curata da Linda Laura Sabbadini [12, 17, 23, 30 dicembre 2016], con dati e osservazioni che userò per la stesura dei paragrafi seguenti. Laura Sabbadini è stata rimossa dall’incarico di direttore del Dipartimento per le statistiche sociali ed ambientali dell’Istat nell’aprile del 2016. Chissà perché? Certo la Sabbadini osava dire – mentre la propaganda governativa dell’ex premier favoleggiava sulle magnifiche sorti e dava del gufo a tutti, compresi i numeri – che una diseguaglianza sociale così marcata «non può essere tollerata in una società democratica, mina le stesse sue basi, nega i principi costituzionali che garantiscono pari opportunità di partenza per tutti, incrina il patto sociale che cementa la fiducia fra cittadini e istituzioni» («La stampa», 23 dicembre 2016).
La lunga crisi del sistema capitalistico ha avuto effetti trasversali e selettivi, colpendo più il Sud del Nord. La forbice si è ampliata e il peggioramento è stato più forte proprio per chi stava peggio. Al Sud si è innescata in una situazione già grave da molti anni e ha accentuato la discontinuità di segno negativo. Due fenomeni hanno agito in combinazione producendo l’ulteriore aggravamento del Sud durante la crisi: la mancata crescita dell’occupazione femminile e il lungo declino di quella maschile. Nel 2015, a fronte di un Centro-Nord con oltre 300 mila occupati in più rispetto al 1977, il Sud si presenta con 600 mila occupati in meno. A ciò si aggiunge il forte depauperamento di capitale umano determinato dalla fuoriuscita di numerosi giovani e adulti trasferitisi al Centro-Nord. Una migrazione che ha riguardato, secondo l’Istat, 1 milione 600 mila persone in quindici anni, per il 60% dai 20 ai 45 anni d’età.
Impoverimento familiare
La percentuale di famiglie in condizioni di povertà relativa o assoluta, con a capo un lavoratore dipendente o assimilato sono passate dall’1,7% del 2007 all’11,7% del 2015. In assoluto si tratta di cifre non da poco: 1.582.000 mila sono le famiglie in povertà pari a 4.598.000 persone. La mancanza di lavoro è il dato primario che continua a connotare la povertà. Le famiglie con a capo un disoccupato sono quelle più povere in assoluto e sono aumentate. Ma anche il lavoro di una sola persona in famiglia non basta più a proteggere dalla povertà. Secondo i dati della Banca d’Italia, riportati dalla Sabbadini, le famiglie operaie nel 45,9% dei casi hanno solo un percettore di reddito e quasi la metà non ha un’abitazione in proprietà. In queste condizioni è facile precipitare nella condizione di povertà. Una povertà che per loro aveva cominciato a crescere già prima della crisi del 2008, per poi esplodere passando dal 4,4% del 2005 al 6,9% del 2009 fino a raggiungere l’11,8% nel 2013, rimanendo tale nel 2015. In dieci anni l’indicatore di povertà tra le famiglie operaie è triplicato. Anche avere un lavoro oggi non consente automaticamente di proteggersi dalla povertà o di uscirne. Se si chiede alle famiglie italiane qual è stata la forza negativa che maggiormente ha stravolto le loro esistenze, la stragrande maggioranza indica il crollo del reddito. Tra la popolazione italiana il 61% ritiene che le diseguaglianze siano aumentato, il 34% rimaste eguali e il 5% diminuite.
La povertà assoluta ha raggiunto il 10% al Sud contro il 6,7% del Nord. Le famiglie operaie sono colpite in egual misura ma hanno caratteristiche diverse: al Sud sono famiglie prevalentemente italiane, al Nord invece riguarda anche quelle straniere, perché risentono della crisi occupazionale che ha investito il settore industriale e dell’edilizia, privando gli uomini della loro fonte di reddito. Il fenomeno ha pesato meno sulle donne straniere, almeno su quelle occupate nei servizi assistenziali alle famiglie, l’unico settore che durante la crisi ha registrato una crescita di occupazione. Nell’insieme però il reddito medio disponibile pro-capite delle famiglie meridionali è il 63% fatto cento quello delle famiglie residenti al Nord. Così che, la distanza tra ricchi e poveri è maggiore al Sud che nel resto d’Italia o d’Europa. In generale la crisi, la disoccupazione, la diminuzione dei redditi hanno messo in difficoltà anche i figli minori di madri separate o divorziate, bambini con uno o più fratelli, soprattutto nel Sud, e in famiglie straniere, soprattutto nel Nord. I bambini nati in famiglie operaie, in tutte le zone del paese, vivono una condizione sociale di disagio. Nel nostro Paese quasi il 3% dei ragazzi con meno di 16 anni vive in famiglie che non possono permettersi due paia di scarpe per bambino, e l’8,5% abiti nuovi; il 7% non può permettersi di festeggiare il suo compleanno con amici o di invitare amici per giocare o per mangiare insieme. Il 7,7% non compra libri extrascolastici per la sua età, il 10,5% non partecipa a gite scolastiche o eventi organizzati dalla scuola a pagamento, l’11% non dispone di uno spazio adeguato per studiare. Essere poveri fin da piccoli significa avere più difficoltà a cogliere le opportunità di crescita sociale, significa cumulare ritardi faticosamente recuperabili. La povertà infantile pone una pesante ipoteca sul loro futuro dei prossimi poveri nell’età giovanile e adulta.
In una famiglia al limite della soglia di povertà, dove un singolo reddito, non è più sufficiente a garantire una esistenza dignitosa, il lavoro femminile fa la differenza, diventa fondamentale per proteggersi dalla povertà. Detto fuori dai denti: la diminuzione del reddito pro capite nelle famiglie della classe lavoratrice ha fatto sì che oggi occorrano due salari per mantenere il livello di vita di quando ne bastava all’incirca uno solo. Ciò nonostante le donne lavoratrici sono diminuite come numero a causa di un mercato del lavoro caratterizzato da una «riduzione dei differenziali di genere al ribasso», che ha comportato l’interruzione della crescita del lavoro femminile cominciata nella seconda metà degli anni ’90. Crisi e deregolamentazione del mercato del lavoro hanno peggiorato le condizioni del lavoro femminile sia qualitativamente (sono aumentate le professioni non qualificate e diminuite quelle tecniche) che quantitativamente: part-time involontario e difficoltà a conciliare tempi di vita e di lavoro.
Condizione giovanile
La condizione giovanile oggi si basa su un dato strutturale caratterizzato da forte disoccupazione e lavori precari, scarsamente retribuiti. Quindi per la prima volta dall’ultimo dopoguerra i figli si trovano ad essere più poveri dei genitori. Hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini e una ricchezza familiare che, per i nuclei under 35, è quasi la metà della media (-41,2%). Nel confronto con venticinque anni fa, rispetto ai loro coetanei di allora, i giovani attuali hanno un reddito inferiore del 26,5%.
Rimanere in famiglia è diventata una necessità per difendersi dalla povertà. La situazione è particolarmente critica per i giovani tra i 25 e 34 anni: la metà vive ancora con i propri genitori: 6 punti in percentuale in più del 2011, di 22 punti superiore alla media europea, 40 punti in più della Francia e 46 in più del Nord Europa. Il tasso di occupazione per giovani è calato di 9 punti durante la crisi, un crollo notevole che determina un elemento di forte criticità per la costruzione del proprio futuro. La nuova generazione ha un problema di mobilità sociale. Non è più bloccata verso l’alto, come si diceva in passato, anzi, oggi è sbloccata verso il basso, perché ha una più elevata probabilità di veder peggiorare la propria situazione. La crisi ha profondamente condizionato tempi e modalità di transizione alla vita adulta, portando a rinviare tappe fondamentali della vita. Anche in presenza di lavoro, redditi bassi e occupazioni frammentarie pesano sulle scelte di vita. Solo un quarto di loro vive in coppia e il 7,3% da soli. Se sono a capo di una famiglia spesso non hanno redditi sufficienti a mantenerla, e devono ricorrere all’aiuto dei genitori e anche dei nonni.
Il Censis ha messo in relazione questi dati con il tipo di affettività relazionale. Ne risulta che i nati tra i primi anni ’80 e i primi anni 2000 hanno “perso” il senso sociale del matrimonio e si orientano verso altre forme di relazioni. I celibi e le nubili sono ormai l’80,6% (erano il 71,4% solo dieci anni fa), mentre i coniugati sono il 19,1% (erano il 28,2%). Tra i celibi e i nubili gli assolutamente single sono il 39,7%, il 3,2% ha in corso più relazioni non impegnative e il 57,1% ha una relazione di coppia stabile pur non convivendo. La precarizzazione del lavoro rende precaria la vita relazionale e sentimentale: la scelta di una convivenza stabile, con matrimonio o meno, è vista come una opzione impegnativa, che necessita in primo luogo di un lavoro stabile dal il 71,9% dei giovani, di risparmi accantonati dal il 49,9%, di aver convissuto per un po’ di tempo con il partner per il 30,4% e di aver portato a termine gli studi per il 27,5%.
Stiamo tutti meglio e viviamo tutti più a lungo?
Non tutti i cittadini hanno beneficiato nello stesso modo dei progressi compiuti nell’ambito dell’assistenza sanitaria. Anche in questo caso il dato appare correlato al reddito, alla condizione di classe, al luogo in cui si vive. I cittadini del Mezzogiorno, ad esempio, e quelli in genere con basso status sociale si ammalano di più, guariscono meno, perdono prima l’autosufficienza e muoiono prima. Secondo l’Istat l’11% della popolazione ha rinunciato a prestazioni sanitarie o a farmaci nel 2013, pur avendone bisogno. Anche il benessere psicologico e mentale è peggiorato e ha riguardato in particolare le persone con istruzione bassa, minori risorse economiche, senza impiego stabile, che vivono in condizioni abitative precarie. Stesso ragionamento vale per lo sbandierato dato sull’aumento della speranza di vita, cinicamente usato per aumentare a sproposito gli anni lavorativi indispensabili per poter ottenere la pensione. A parte il fatto che in quest’ultimo anno la speranza di vita è diminuita in percentuale di quasi un anno, essa non è distribuita in modo eguale fra tutti i cittadini. Guarda caso hanno una speranza di vita inferiore gli abitanti del Mezzogiorno, i lavoratori o i disoccupati, le persone con uno status sociale più basso rispetto agli appartenenti alla classe sociale più alta. Anche in questo caso il tema rimanda a quello del lavoro o del non lavoro, del reddito, della sua consistenza, della distribuzione della ricchezza a “pioggia” (termine odiatissimo dagli opinion maker del liberismo economico meritocratico) verso il basso e non all’insù. Sono temi centrali che rappresentano il cuore della crisi attuale e anche gli indicatori sociali della grande trasformazione di quella che era la sinistra riformista novecentesca, che ha saputo esprimere il peggio di sé nell’ambito delle politiche del lavoro intraprese dai governi di centrosinistra degli ultimi decenni.