Paese noto per il ruolo dei suoi interventi militari nella sua cultura politica, la Turchia ha assistito nella notte del 15 luglio 2016 a un tentativo di colpo di Stato – particolarmente cruento – in diretta, attraverso i social media. Privo di sostegno popolare e internazionale e con forze estremamente limitate a disposizione, il colpo di Stato ha subito una rapida sconfitta.
«Questo tentativo è una grazia di Allah», ha scritto il presidente Erdogan fin dal giorno successivo, preannunciando così che sarebbe stata questa l’occasione auspicata per effettuare il proprio colpo di Stato, civile, per portare avanti un’ondata di repressione senza precedenti contro qualsiasi forza di opposizione e rafforzare il suo regime dittatoriale.
Colpo di Stato in diretta TV
L’opinione pubblica è stata messa al corrente che si stava preparando un colpo di Stato attraverso la diffusione di notizie riguardanti l’occupazione dei ponti di Istanbul che collegano i due continenti da parte di carri armati e il sorvolo di caccia a bassa quota di cui hanno potuto testimoniare gli abitanti della capitale.
Con un comunicato diffuso sul sito web dell’esercito, è stato segnalato che lo Stato Maggiore aveva ormai preso il potere, poi sul canale televisivo di Stato occupato da soldati, proclamandosi questa volta “Consiglio di pace in patria”, ha annunciato di aver preso il potere per restaurare la libertà e la democrazia e di puntare a ristabilire la repubblica laica degli ideali di Ataturk di fronte ai sistematici attacchi alla Costituzione ad opera del potere politico.
È risultato così che si trattava di un putsch esterno alla catena di comando, tanto più che circolava la notizia che il capo dello Stato Maggiore ed altri alti gradi erano in ostaggio.
Tramite una connessione via smartphone, sul canale televisivo CNN Türk – a sua volta occupato più tardi – Erdogan si è appellato al popolo perché scendesse in piazza a protestare contro il colpo di Stato. Un appello che gli imam delle moschee hanno rilanciato per tutta la notte. Sono intervenuti duri scontri nel corso della nottata, soprattutto ad Ankara e ad Istanbul, tra i militari (di cui si ha notizia che erano 5.000 su un totale di 675.000) e la polizia infeudata ad Erdogan, spalleggiata dai sostenitori del regime. Le migliaia di civili che hanno sfilato per le vie al grido di “Allah Akbar” rivendicando la reintroduzione della pena di morte, e si sono opposti ai carri armati rappresentano soprattutto la base militante dell’AKP.[1]
Dopo i bombardamenti del Parlamento a quattro riprese (!), quello dell’albergo dove si trovava il presidente della Repubblica Erdogan, l’appello delle potenze occidentali a sostenere la democrazia, il tentativo alla fine è stato sconfitto verso il mattino, lasciando dietro di sé 340 morti (un centinaio dei quali tra i golpisti, gli altri tra civili e poliziotti) e 2.800 feriti.
La Confraternita Gülen: dall’alleanza alla guerra
Erdogan ha annunciato fin dall’indomani del colpo che esso sarebbe stato diretto da adepti militari della Confraternita di Fethullah Gülen, l’ex alleato dell’AKP, diventato suo nemico giurato. Un’imponente operazione fu allora lanciata nell’esercito, nel corpo giudiziario (tra cui arresti di alti magistrati), nella polizia e in altre branche dell’apparato statale. Se i quadro gülenisti hanno manifestamente orchestrato il tentativo golpista, altri gruppi militari in opposizione al regime erano verosimilmente sospettati di aver partecipato inizialmente al colpo di Stato, altrimenti un tentativo con forze così limitate sarebbe difficilmente spiegabile. È la tesi sostenuta dal giornalista critico Ahmet Sik, che nel 2011, quando ancora procedeva bene la coalizione AKP, era stato incarcerato per un anno a causa del suo libro (prima della sua pubblicazione!) che rivelava l’infiltrazione dei gülenisti nell’apparato poliziesco. Come fine conoscitore della confraternita, quindi, Sik ipotizza che i militanti gülenisti fossero stati traditi dai loro alleati, che li avrebbero abbandonati per strada, probabilmente in seguito a trattative guidate da Erdogan. È infatti molto plausibile che, essendo stato messo al corrente alcune ore prima, Erdogan abbia trattato con parte dei golpisti per isolare i militanti gülenisti.[2]
Dal 2013 Erdogan era in guerra con questo vecchio amico, ora chiamato “Organizzazione terrorista Fethullahista” (FETÖ), una confraternita islamica iper-organizzata e gerarchizzata – con cui hanno flirtato tutti i governi – che infiltra da trent’anni l’apparato statale. Ha fatto proseliti soprattutto fra i giovani pauperizzati dell’Anatolia, specie tramite le sue “case della luce”, principalmente nelle scuole militari, dove questi giovani venivano nutriti e preparati agli esami universitari e a quelli della polizia (esami le cui domande vengono di norma distribuite in anticipo, grazie alla sua precedente infiltrazione).
Arrivato al potere nel 2002, l’AKP, non disponendo di nessun quadro nella burocrazia, aveva stretto un’alleanza con la comunità Gülen per combattere l’egemonia repubblicano-laicista nell’apparato di Stato e addomesticare l’esercito. I processi del 2007-2010 contro militari accusati di essere implicati in cospirazioni golpiste (nel cui quadro erano stati arrestati, ad esempio, l’ex capo di Stato Maggiore o il giornalista Ahmed Sik, sopra citato) si basavano soltanto su false prove fabbricate e montate dalla polizia gülenista. Gli alti gradi attualmente responsabili del colpo di Stato sono prevalentemente quelli che erano riusciti ad ottenere gradi superiori dopo l’eliminazione dei militari repubblicani al momento di quei processi.
Questa coalizione, tuttavia, ha finito per indebolirsi a causa della smisurata forza della confraternita in seno alla burocrazia, in particolare dopo il tentativo del capo dei servizi segreti Hakan Fidan (la “scatola dei segreti” di Erdogan), sospettato di appoggio al PKK[3] da giudici e poliziotti membri della confraternita – ostile alle trattative – per il suo ruolo nei negoziati con il leader kurdo Öcalan.
Le vaste operazioni anticorruzione lanciate nel dicembre 2013, sulla base di registrazioni telefoniche, che avevano coinvolto quattro ministri, uomini d’affari vicini ad Erdogan, nonché suo figlio, erano guidate dalla confraternita. A partire da quella data, si consumò la rottura ed Erdogan lanciò operazioni pesanti specie nella polizia e nell’apparato giudiziario, ma anche per quanto riguarda le risorse finanziarie e i mezzi di comunicazione di massa di Gülen. Tali operazioni sembrava avessero posto fine alla potenza dei gülenisti. Evidentemente, però, non era così.
La sinistra e il colpo di Stato
Andrebbe inoltre fatto notare che nessuna forza repubblicana laicista e/o di sinistra, incluso il movimento kurdo, è scesa in piazza per resistere al colpo di Stato. Può sembrare strano che la sinistra, che fu il bersaglio dei precedenti interventi militari, e soprattutto del memorandum del 1971 e del putsch del 1980, non si sia mobilitata per opporvisi. In mancanza di una dettagliata analisi oggettiva al riguardo, possiamo proporre alcuni elementi, derivanti da osservazioni personali, per descrivere lo stato d’animo della sinistra repubblicana-riformista e dell’estrema sinistra.
In primo luogo, sembra evidente che, visto il livello di polarizzazione politico-culturale della società, dell’amministrazione dittatoriale del paese da parte di Erdogan, dell’islamizzazione, del ciclo di attentati kamikaze, dell’atmosfera di guerra civile, ecc., il sentimento “tutto salvo Erdogan” abbia giocato nella non-mobilitazione dei settori repubblicani, ma anche dei militanti di sinistra. Tanto più che il comunicato dei golpisti rivendicava valori repubblicani e il rispetto della democrazia e della Costituzione. I protagonisti del colpo, probabilmente, avevano del resto puntato così sull’emergere di un sostegno civile e militare nel fuoco degli eventi, per una sorta di effetto valanga. Ma questo non è successo; la gente detestava Erdogan tanto da non opporsi ai carri armati, ma non arrivava ad acclamarlo.
D’altro canto, i colpi guantati e le manipolazioni del regime (ad esempio allorché, dopo le elezioni del 7 giugno 2015, Erdogan non aveva esitato a provocare il caos e una situazione di guerra civile per riconquistare i voti nazionalisti) hanno consentito alla tesi della cospirazione (suscitata spontaneamente) – secondo cui si sarebbe trattato di una “messa in scena”, di un “colossal” orchestrato per realizzare le ambizioni dittatoriali di Erdogan – di avere larga eco nelle prime ore. È vero che oggi il regime approfitta al massimo del clima dopo-colpo di Stato, ma nelle condizioni in cui esso si era rafforzato alle elezioni dell’1 novembre 2015 ottenendo quasi il 50% dei voti, Erdogan non aveva un problema di legittimazione che richiedesse di imbastire una cosa del genere.
E, in ultimo, la mobilitazione dei militanti islamisti e fascisti e della polizia in difesa del regime non stimolava minimamente la sinistra radicale a scendere in piazza per ritrovarsi al loro fianco, tenuto conto soprattutto delle sue limitate energie militanti, che non le permettevano di avere un ruolo autonomo. Poiché il dispiegamento delle forze militari golpiste era avvenuto nella parte occidentale del paese, la questione non riguardava direttamente il Kurdistan; ma, date le condizioni di guerra tra lo Stato turco e il PKK, anche se la confraternita gülenista (che disponeva di una vasta organizzazione nella regione kurda e si opponeva al processo di trattative) è stata un rivale privilegiato del movimento nazionale kurdo, quest’ultimo si sarebbe ben guardato dal prendere la difesa del regime.
Aggiungiamo anche che la resistenza al putsch poi, dopo l’appello di Erdogan a non abbandonare le piazze, i raduni festosi contrassegnati da forte partecipazione degli strati popolari che costituiscono la base elettorale dell’AKP e dell’estrema destra, organizzati nelle piazze centrali dell’intero paese (tra cui Piazza Taksim naturalmente) per più di dieci giorni, ha rappresentato una “rivalsa su Gezi”. La rivolta di Gezi del 2013 aveva infatti costituito una prima resistenza giovanile e civile al regime di Erdogan e lo aveva destabilizzato. La resistenza del 15 luglio ha così costituito, con le sue battaglie contro i carri armati, i suoi martiri, poi le sue “occupazioni di piazza” (con il sostegno delle municipalità e dei trasporti pubblici), i suoi canti, ecc., il “Gizi dell’AKP”, consentendo ai pro-regime di impossessarsi di questa superiorità morale per aver lottato in piazza contro il potere che vi deteneva la sinistra.
Stato d’emergenza e dittatura
Erdogan e il Consiglio di sicurezza nazionale hanno risposto al tentato colpo di Stato con l’instaurazione dello stato d’emergenza. Si pensava che quest’ultimo si limitasse inizialmente a un periodo di tre mesi. Ma come a mente lucida era prevedibile, lo stato d’emergenza si e protratto con una seconda fase di tre mesi e sembra che Erdogan non abbia fretta di porvi fine, stando a questi commenti del 13 novembre 2016: «Alcuni dicono che bisognerebbe revocare lo stato d’emergenza. Perché lo si dovrebbe fare subito? Quando siamo arrivati al potere, lo avevamo revocato (nella regione kurda). Ma allora lo stato d’emergenza aveva praticamente bloccato la vita. Oggi non è così. Tutti vanno a lavorare tranquillamente».
Lo stato d’emergenza permette infatti al governo, tra l’altro, di prolungare la sorveglianza fino a trenta giorni, dichiarare coprifuochi, vietare raduni pubblici e soprattutto emanare decreti con forza di legge. Grazie ad essi, che non sono controllati dal parlamento né dalla Corte costituzionale, Erdogan può così dirigere il paese a modo suo, senza il minimo intralcio. Queste misure annunciano appieno il regime dittatoriale che Erdogan intende instaurare attraverso il sistema presidenziale.
Così, attraverso massicce purghe, arresti, chiusure di mezzi di comunicazione e istituzioni, che prendevano inizialmente di mira i gülenisti, ma che poi si sono estese all’opposizione kurda e alla sinistra radicale, Erdogan, ristrutturando da cima a fondo l’apparato statale, tenta di annientare ogni possibilità di contestazione.
Nel quadro delle operazioni antiterroriste che riguardano sia i gülenisti sia il movimento kurdo e quanti sono sospettati di essere in contatto con loro, 50.000 persone sono state messe sotto sorveglianza e 35.000 agli arresti. Fra questi, quasi 2.500 sono giudici e procuratori, 6.500 militari e 7.000 poliziotti. Il totale delle persone estromesse dalla funzione pubblica (e con il divieto di tornare a lavorarvi) ammonta a 70.000 e i sospesi sono 93.000. Quasi la metà dei destituiti dalle loro funzioni lavoravano al ministero dell’Istruzione. 10.000 insegnanti membri del sindacato di sinistra Egitim-Sen, prioritariamente nel Kurdistan turco, sono stati buttati fuori nel giro di un giorno. Ad esempio, la città di Dyarbakir perdeva un quarto dei propri insegnanti e Dersim la metà. Nelle università pubbliche e private, 3.600 docenti sono stati licenziati, 68 dei quali “universitari per la pace”, firmatari della petizione Non partecipiamo a questo crimine, che si opponevano alla guerra contro il popolo kurdo, ripresa nel corso del luglio 2015, dopo due anni di negoziati tra lo Stato turco e il leader del PKK Abdullah Öcalan, incarcerato nell’isola di Imrali, nel mar di Marmara, dal 1999.
Fra le migliaia di istituzioni, di fondazioni e di edifici chiusi, un migliaio sono edifici scolastici, 35 centri medici e ospedali. Sono anche stati chiusi 15 università e 19 sindacati. Tutti i loro capitali, le loro risorse finanziarie, una serie di immobili sono stati confiscati dallo Stato. Erdogan si è inoltre concesso il diritto di nominare direttamente, senza preliminari elezioni interne, i rettori di università per spezzare i pochi focolai di opposizione culturale che erano riusciti a sfuggirgli fino ad allora. Questa nuova misura, consistente nel nominare direttamente amministratori filo-Erdogan, era cominciata lo scorso anno nominando dirigenti alla testa delle imprese confiscate a Gülen. Con lo stato d’emergenza essa si è estesa alle municipalità. I sindaci di oltre 30 comuni – alcuni messi in stato d’arresto, con l’accusa di sostenere logisticamente FETÖ o il PKK – sono stati quindi sostituiti da amministratori fedeli al regime. La maggior parte di quei sindaci erano diretti dal Partito delle regioni democratiche, partito fratello dell’HDP[4] nella regione kurda.
La repressione ha anche colpito duramente i media, e cioè la libertà di stampa e di espressione. Oltre un centinaio di questi (televisioni, giornali, agenzie di stampa, radio, riviste, case editrici, siti internet) sono stati messi fuori legge. Vi rientrano televisioni in kurdo vicine alla causa kurda e altre dell’estrema sinistra. Il regime si è spinto fino ad imprigionare intellettuali che al momento della repressione del quotidiano Ozgur Gundem (Attualità libera), vicina al movimento kurdo, avevano rivestito lo scorso anno, in segno di solidarietà, il ruolo di capo redattore, ciascuno per un giorno. Si richiede per loro la pena del carcere a vita, con l’accusa di essere membri dell'”organizzazione terrorista PKK”. Altri giornalisti ed intellettuali vengono incarcerati per avere, da parte loro, trasmesso in interventi televisivi o in editoriali di giornale, “messaggi subliminali” che suscitano l’idea di colpo di Stato. Ultimamente, è stata la volta del principale quotidiano d’opposizione Cumhuriyet (Repubblica), di centro sinistra, ad essere colpito dalla repressione Dieci responsabili, giornalisti e vignettisti del quotidiano, sono stati arrestati. Sono sospettati «di aver commesso crimini a nome del PKK e dell’Organizzazione terrorista Fethullahista senza essere membri di tali organizzazioni». Rivelando, più di un anno fa, le immagini della consegna di armi ai jihadisti in Siria da parte dei servizi segreti turchi, il quotidiano si era attirato gli strali di Erdogan. Il numero di giornalisti arrestati ha così superato i 140.
Aggiungiamo tuttavia che, nel quadro di questa ondata repressiva senza precedenti, in cui bastano semplici sospetti per le sanzioni, se Erdogan ha di certo effettuato cambiamenti nei gabinetti presidenziali, si guarda bene però dal mettere al bando i deputati dell’AKP che hanno avuto rapporti con la confraternita Gülen, pur di conservare la sua forza di maggioranza in parlamento. Visti il livello di alleanza tra AKP e confraternita, gli elogi fatti a Gülen dal vertice dello Stato e ai suoi intellettuali organici, il sostegno alle sue attività educative sparse per il mondo, tutto il partito ed i suoi dirigenti hanno di che essere accusati di avere connessioni con FETÖ, se si pensa che avere aperto un conto bancario alla Bank Asya di Gülen oggi è sufficiente per essere silurati. Per questo è stata formulata una sorta di “data limite” (che corrisponde alle operazioni anti-corruzione del dicembre 2015) per i legami con la confraternita. È bastata una frase laconica di Erdogan per sbarazzarsi del peso di anni di coalizione con Gülen: «Ci siamo fatti ingannare, che dio ci perdoni». Questo però vale solo per le élites politiche, economiche e simboliche islamiste, non per i comuni mortali, per le decine di migliaia di persone normali perseguitate in base al semplice sospetto di avere avuto un contatto con la confraternita (con le sue scuole, università, banche, pensionati studenteschi…), pur considerato in precedenza del tutto legittimo da parte del regime.
Politica di Unità nazionale e coalizione islamico-fascista
All’indomani del tentato colpo di Stato, i quattro partiti presenti in parlamento – AKP. MHP[5] estrema destra, CHP[6] di centro-sinistra laica ed HDP riformista di sinistra legata al movimento kurdo – hanno denunciato il tentativo golpista e celebrato la resistenza civile con una dichiarazione comune. Prendendo coscienza dell’insicurezza in cui si trova il suo regime, Erdogan, parallelamente all’ondata dell’operazione antigülenista, ha così abbassato la tensione di fronte agli oppositori politici del CHP e del MHP, nel quadro della concezione di “unità nazionale” antigolpista, pur escludendo, beninteso, l’HDP, sempre considerato terrorista. Così la resistenza, condotta soprattutto dalla base militante dell’AKP e dall’estrema destra fascista-islamista contro i carri armati, ha subito una ricostruzione narrativa: la notte del 15 luglio, paragonata alla Battaglia dei Dardanelli (in cui si scontravano gli Ottomani con le truppe britanniche e francesi al momento della Prima guerra mondiale), ha assunto l’andamento di uno scontro in cui: «non c’erano né turchi, né kurdi, né aleviti, né sunniti, ma l’intera nazione contro quelli che ci volevano distruggere».
Questo aveva connotazioni leggermente “antimperialiste”, dato che Gülen è profugo dal 1999 negli Stati Uniti; e l’idea che ci fossero questi ultimi dietro il colpo di Stato è ampiamente condivisa dal governo e è stata incessantemente ripetuta, specie nei primi tempi. Del resto, l’estradizione di Gülen è stata rivendicata dallo Stato turco ed assume un’importanza di fondo.
Se il CHP, di fronte alla violenza della repressione, criticando le misure autoritarie assunte nel quadro dello stato d’emergenza, si è rapidamente ritrovato fuori dell'”unità nazionale”, l’MHP, il partito storico del fascismo turco, vi ha invece trovato appieno il proprio posto. Le critiche di quest’ultimo nei confronti dell’AKP, concernenti la sua politica di negoziati con Öcalan, si erano ammorbidite con la ripresa della guerra. Tuttavia, il fatto che Erdogan porti avanti una guerra accanita contro le milizie urbane kurde, pronto a distruggere città intere, aveva privato l’MHP del suo argomento principale (che, aggiungiamo, condivide la stessa base conservatrice religioso-nazionalista dell’AKP). Così, alle elezioni dell’1 novembre 2015, ha perso praticamente il 30% dei suoi voti rispetto a quelle del 7 giugno dello stesso anno (quindi prima della guerra), crollando dal 16,2% al 12%, mentre i seggi scendevano da 80 a 41; si è quindi ritrovato in quarta posizione in parlamento, dietro l’HDP, una cosa inaccettabile per il partito storico del nazionalismo turco. Di conseguenza, è sorta al suo interno una forte opposizione, diretta principalmente da Meral Ahsener, l’ex ministro degli interni, della destra conservatrice (1996), che successivamente era entrato nell’MHP. I sondaggi sulle intenzioni di voto nel caso in cui Aksener avesse diretto l’MHP mostravano come questo avrebbe potuto ottenere più del 20%, cosa che avrebbe fatto scendere i voti dell’AKP. Il tentato colpo di Stato è intervenuto a proposito nel bel mezzo della crisi interna dell’MHP: Il suo leader, Devlet Bahceli, ha colto l’occasione per infeudarsi ad Erdogan e denunciare l’opposizione, accusandola di essere teleguidata da Gülen, e per tagliare fuori Aksener insieme ad altri rivali. Oggi il sostegno dell’MHP – che in cambio ottiene la promessa della reintroduzione della pena di morte – basta all’AKP per far passare al parlamento la proposta di modifica costituzionale che tende ad instaurare un regime presidenziale confezionato su misura per Erdogan e che spazzerà via quanto sopravvive della divisione dei poteri.
La questione kurda
Nel clima post-colpo di Stato, anche la repressione del movimento civile kurdo apre una tappa decisiva. Innanzitutto, i co-sindaci di Diyarbakir – la principale città kurda – Gultan Kisanak e Firat Anli, come pure l’ex deputato del Partito delle regioni democratiche, Ayla Akat Ata, posti sotto sorveglianza da parecchi giorni, vengono arrestati con l’accusa di «fare parte dell’organizzazione terrorista PKK». Legittimando tutte le sue misure autoritarie con la “volontà nazionale”, il regime Erdogan non aveva neppure esitato più due mesi prima a destituire dalle loro funzioni oltre una ventina di sindaci di comuni kurdi designando al loro posto nuovi amministratori, attestando in tal modo che la volontà nazionale non includeva quella del popolo kurdo, ma coincideva direttamente con quella del “Duce” di Ankara. Il co-presidente dell’HDP, Selahattin Demirtas, aveva giustamente dichiarato che, additando come terroristi tutti coloro che rifiutavano di vedere in Erdogan il “loro sultano”, lo Stato turco assumeva ormai la forma di uno “Stato fascista hitleriano”, e anche lui, come altri dirigenti e deputati, tra cui la co-presidente del partito Figen Yuksekdag, sono stati arrestati.
Le condizioni di tali arresti erano state preparate dall’abolizione dell’immunità parlamentare nel maggio del 2016, con il contributo del CHP. Il suo presidente, Kilicdaroglu, temendo che il suo partito venisse stigmatizzato come solidale con il PKK, aveva dichiarato che si trattava di una misura in contrasto con la Costituzione, ma che il CHP avrebbe comunque votato a favore, argomentando maldestramente che, se una simile misura non fosse stata accolta direttamente in parlamento e quindi sottoposta a referendum, la polarizzazione nel paese sarebbe giunta a un livello estremo. L’abolizione dell’immunità parlamentare riguardava infatti tutti i deputati nei cui confronti erano stati depositati in parlamento atti di accusa, ma era evidente che questa misura avrebbe preso di mira l’HDP.
Nel quadro delle elezioni legislative del 7 giugno 2015 che rivestivano in carattere di un plebiscito per Erdogan – come ormai ogni elezione – la campagna condotta da Demirtas e dall’HDP con il motto “Impediremo che tu sia presidente!”, in riferimento all’instaurazione del regime presidenziale autocratico, aveva suscitato la collera di Erdogan. Rendendosi conto che il processo negoziale gli avrebbe fatto perdere voti nazionalisti, quest’ultimo aveva già deciso nel marzo 2015 di sospendere i colloqui con Öcalan per adottare una politica anti-kurda. Insoddisfatto dei risultati delle amministrative in cui l’HDP otteneva il 13,1% e l’AKP scendeva dal 50% al 40,8% e non poteva quindi formare da solo il governo, Erdogan si era dichiarato favorevole a nuove elezioni, mentre l’AKP fingeva di essere alla ricerca di un partner per un governo di coalizione. Tuttavia, l’indebolimento dell’HDP era per l’AKP la condizione sine qua non per risultare vincente alle prossime elezioni. Così, in modo molto sospetto, l’attentato suicida compiuto da Daesh a Suruc (in cui hanno trovato la morte 32 giovani studenti che si preparavano ad andare a Kobane per contribuire alla ricostruzione della città) e le immediate rappresaglie del PKK che hanno causato la morte di due poliziotti – che il PKK ha prima rivendicato poi ritrattato dichiarando che era opera di “unità locali”[7] – hanno fornito l’occasione per ri-scatenare la guerra contro i kurdi e quindi anche incriminare l’HDP come branca legale dell'”organizzazione terrorista”. Come abbiamo detto sopra, il clima bellico ha consentito all’AKP di vincere le elezioni con la massima facilità.
Dopo circa 16 mesi di blocco, coprifuoco, massacri, spostamento forzato della popolazione e distruzione delle città, la resistenza civile nel Kurdistan turco sembra quanto meno indebolita. Lo conferma il numero estremamente limitato di mobilitazioni rispetto a quanto ci si sarebbe potuto aspettare dopo l’arresto dei leader dell’HPD – peraltro tutte rudemente represse. La politica delle “trincee” (consistente nel costruire barricate e scavare trincee in alcuni quartieri delle città kurde per proclamarvi l’autonomia), sul modello dell’esperienza del Kurdistan siriano (ma che in quel caso si è applicata dopo il ritiro dell’esercito siriano), si è risolta in un bagno di sangue. Tentativi di auto-amministrazione fatti dalle milizie giovanili dell’YDG-H (Movimento della gioventù patriottica rivoluzionaria) e approvati dal PKK (ma rispetto ai quali la popolazione locale è ben più reticente), nelle condizioni di rapporti di forza estremamente disuguali, senza la possibilità per le milizie di ripiegare verso le montagne, hanno certo dimostrato il coraggio dei giovani kurdi, ma costituito una sconfitta drammatica per l’intero movimento kurdo. “Non ci aspettavamo una reazione così violenta da parte dello Stato”, hanno dichiarato gli strateghi che dirigono il PKK da oltre 35 anni.
Intervento militare e politica espansionistica
La preoccupazione principale sia del regime turco, sia del PKK, è il Rojava, vale a dire la regione autonoma dal nome di “Sistema federale democratico della Siria del Nord e del Rojava”, diretta dal Partito dell’unione democratica (PYD), partito fratello del PKK in Siria. Per il regime, si tratta a ogni costo di impedire il consolidamento di questa autonomia (così come era stata prima che si verificasse l’invasione americana in Irak) e soprattutto di ostacolare il ricongiungimento delle due parti del Rojava (Djazira e Kobane ad Est ed Afrin ad Ovest) per formare un corridoio kurdo lungo tutto il confine siriano. Se il regime di Assad fosse l’obiettivo principale nell’interventismo turco in Siria e del suo sostegno ai jihadisti, vi peserebbe enormemente anche la questione kurda. Tuttavia, questa posizione avventurista – in aggiunta alla sua svolta autoritaria all’interno – ha isolato sempre più lo Stato turco a livello internazionale. Nel corso del 2016, Ankara ha cercato di rompere il suo isolamento, da un lato a livello dell’Unione europea approfittando della “crisi dei migranti” e offrendosi come bastione del flusso migratorio e, dall’altro lato, riannodando rapporti diplomatici con la Russia e Israele. Il fatto di avere allontanato il Primo ministro Ahmet Davutoglu – colui che aveva avviato la politica estera tendente a fare della Turchia il polo egemone del Medio Oriente, oltre che il responsabile principale dell’interventismo militare in Siria – lasciava ad Erdogan mano libera per rivedere le alleanze nel conflitto siriano. Inoltre, dopo il tentativo di colpo di Stato, il riavvicinamento a Putin e anche il disgelo con Damasco – che include l’accettazione dell’idea di una fase di transizione con Assad – ha assunto la forma di una contestazione delle potenze occidentali, che si presume abbiano sostenuto il colpo di Stato al pari del PKK.
Il regime cerca in questo modo di svolgere un gioco a più facce, come tutti del resto nell’area. Da un lato, cerca di convincere gli Stati Uniti che è lui il migliore alleato, non le Forze democratiche Siriane (FDS) dirette dall’YPG (Unità di protezione popolare), braccio armato del PYD nella guerra contro l’Isis, e intanto indica come alternativa il suo ravvicinamento a Putin. Ankara approfitta così della campagna contro l’Isis (che Erdogan esplicitamente preferiva come vicino di confine, piuttosto che i kurdi, prima che diventasse troppo ingombrante, soprattutto con gli attentati suicidi) per frenare le FDS e costringerle a ripiegare dietro l’Eufrate. Del resto l’operazione condotta dai combattenti islamisti – sotto il nome di Esercito libero siriano! – con il sostegno dell’aviazione militare turca si chiama, molto maliziosamente, “Scudo dell’Eufrate”. Il diritto per Ankara al sorvolo del territorio siriano, con il silenzio di Mosca e le proteste moderate di Damasco, si è dovuto pagare con il silenzio del regime turco di fronte alla distruzione di Aleppo. Rispetto alla battaglia di Mosul che tendeva a liberare la città da Daesh, la volontà dello Stato turco di parteciparvi è stata respinta da Bagdad, che già non accettava la presenza della base militare turca a Bashika che Ankara si rifiuta di lasciare. Volendo darsi l’aria di protettore dei sunniti, Erdogan sostiene da un lato che la liberazione di Mosul solo ad opera di milizie sciite finirebbe in un massacro nei confronti dei sunniti e, dall’altro lato, rivolgendosi soprattutto all’opinione pubblica turca, sostiene la tesi che la Turchia ha diritti storici su Mosul e che la città doveva tornare alla Turchia al momento dello smantellamento dell’Impero ottomano… Ma tutte queste alleanze e rivalità possono benissimo non durare, dati il pragmatismo tattico nella regione, il carattere irrazionale di Erdogan e il mandato di Trump, la cui politica internazionale per il momento si regge solo su mere dichiarazioni verbali.
Rafforzando la propria egemonia dopo e grazie al colpo di Stato, si è ormai di fronte a un rapporto di identificazione tra Erdogan il “Reìs” (il Capo) e il “Millet” (la nazione… turca e sunnita naturalmente). È con tutto il passato e con il futuro della nazione – di cui si affretta a chiudere la “parentesi” (la deviazione repubblicana di cento anni) – che oramai Erdogan si identifica, e sembra per ora molto difficile aprire una qualche breccia in questa egemonia. A parte il putsch militare, dalla rivolta di Gezi al successo elettorale dell’HDP (“colpo di Stato elettorale”), passando per lo sviluppo dell’elevato livello di corruzione nelle sfere del governo e nella cerchia vicina a Erdogan, qualsiasi contestazione dell’autorità dell'”Uomo della nazione” è assimilata a un attacco volto a minare lo sviluppo dello Stato turco, al tradimento della patria, naturalmente spalleggiato da potenze straniere.
Orizzonte sinistro per i popoli di Turchia per i quali democrazia, giustizia, libertà e laicità costituiscono valori non solo auspicabili ma indispensabili, categorici. È l’ora di una resistenza senza illusioni per i nostri diritti e le nostre libertà, di una lotta per evitare il dilagare islamista e nazionalista, di una battaglia per dire che ci siamo, per dimostrare che esistiamo ancora e che non è perché siamo stati sconfitti che capitoleremo.
* Uraz Aydin, universitario ed ex dirigente del settore universitario del Sindacato dei lavoratori dell’Istruzione e della Scienza (Egitim-Sen), collabora regolarmente a Sosyalist Demokrasi Yeniyol, la rivista della sezione turca della IV Internazionale.
[1] Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) è il partito conservatore e islamista fondato da Erdogan che ha ottenuto il 49,5% e 137 (su 550) seggi in parlamento alle ultime elezioni.
[2] Si veda al riguardo l’articolo di Emre Ongün, “Turquie: Autopsie d’un double coup d’État”, in: http://www.contretemps.eu.
[3] Per un’analisi sugli sviluppi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) si faccia riferimento all’articolo di Alex de Jong, “Métamprphose idéologique du PKK: Une chenille stalinienne trasformée en papillon libertaire? [Metamorfosi ideologica del PKK: un bruco staliniano trasformato in farfalla libertaria?]”, in Inprecor, nn. 614-615, aprile-maggio 2016.
[4] Partito democratico dei popoli (HDP): è una coalizione di associazioni e partiti della sinistra turca emersi dal movimento politico kurdo. Si è affermato alle amministrative del giugno 2005 con il 12,96% dei suffragi e 80 seggi ma, dopo lo scioglimento da parte di Erdogan di quel parlamento, nel novembre 2015 ha avuto solo 59 seggi (10,76% dei suffragi).
[5] Partito d’azione nazionalista (MHP): è il partito storico del fascismo turco. Nel novembre 2015 ha ottenuto l’11,9% dei voti e 40 seggi al parlamento.
[6] Partito repubblicano del popolo (CHP), fondato da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923: è un partito di centro-sinistra laicista. Nel novembre 2015 ha ottenuto il 25,32% dei suffragi e 134 seggi al parlamento.
[7] Tuttavia, il fatto che la polizia e soprattutto i servizi segreti facciano di tutto pur di oscurare la questione e distruggere le prove e che le proposte di aprire un’indagine parlamentare sui due attentati siano state respinte dall’AKP e dall’MHP consente di speculare ampiamente sui due attentati.