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di Marco Bertorello

Provando ad andare oltre uno sguardo superficiale, il ritorno del sovranismo politico potrebbe essere letto non solo e non tanto come l’espressione di una pulsione popolare, ma come il riflesso di processi economici avviati da un po’ di tempo. La crisi della globalizzazione non ha solo dato vita a un populismo di stampo nazionale, ma anche al tentativo di autodifesa per le stesse classi dirigenti che della globalizzazione sono state le principali beneficiarie.

L’Economist recentemente ha sottolineato come sia in corso una «rimpatrio» delle multinazionali dei paesi più ricchi dai loro avamposti in giro per il mondo. Tale processo non è frutto di un tentativo di mettersi al riparo dai problemi di ordine politico emersi in questi mesi, ma da quelli economici in corso da alcuni anni.

Le multinazionali stanno registrando una crescita più lenta e una minore redditività a vantaggio delle imprese locali, capaci di adattare meglio l’offerta massificata e tecnologicamente innovativa con la domanda legata a culture e abitudini dei loro territori. Persino la loro capacità di pressione su salari e diritti inizia a essere compromessa, come quella di arbitraggio fiscale con le amministrazioni statali. La crescita dei paesi emergenti, per quanto squilibrata, ha cominciato a dar vita a controindicazioni rilevanti. L’Economist afferma che negli ultimi cinque anni i profitti delle multinazionali sono calati del 25%.

Il processo di disinvestimento delle grandi multinazionali sembrerebbe non esaurirsi unicamente verso i paesi emergenti, ma anche in direzione contraria. Lo stato di crisi permanente che attanaglia l’Europa, in particolare i suoi paesi periferici, ben esemplificato in questi giorni dal ritorno dello spettro dello spread, porta alla riduzione dell’impegno del colosso cinese nel vecchio continente. In Italia, ad esempio, una ricerca di Kpmg rende noto che gli investimenti cinesi, a fronte di un valore di 18 miliardi di euro nel triennio 2013-2015, sono crollati a soli 535 milioni lo scorso anno. Le autorità cinesi hanno ridotto le operazioni senza valenza strategica e anche le partecipazioni finanziarie dello Stato nelle società quotate italiane sono calate.

Questa deglobalizzazione della globalizzazione però non deve lasciar intendere un ritorno al punto di partenza. I processi di trasformazione degli assetti socio-economici di questi anni, infatti, hanno agito in profondità, coinvolgendo non solo la sfera commerciale e finanziaria, ma soprattutto quella produttiva. La dispersione industriale insieme all’economia fondata sul debito hanno consentito di comprimere le condizioni di reddito per il lavoro nei paesi occidentali senza un corrispondente crollo delle condizioni di vita. Prezzi contenuti e indebitamento facile hanno ammortizzato le conseguenze della grande trasformazione.
Ora il tentativo di ripoliticizzazione del mercato, in particolare nel mondo anglosassone, è l’espressione della crisi della globalizzazione come ideologia politica, ma al contempo questo tentativo sarà costretto a misurarsi con i dilemmi che solleva.

Il protezionismo economico è la carta che i soggetti dominanti dell’economia globale, o perlomeno una parte consistente di essi, giocheranno nella prossima fase dentro una rinnovata cornice mercantilista. Si affermeranno processi di rientro non solo di capitali, ma anche di produzioni. Tali processi in diversi casi si esauriranno nella sfera simbolica, ma negli Stati Uniti, grazie ad un enorme mercato interno, potranno concedere, almeno per un certo periodo, un poco di respiro persino alle condizioni di strati sociali di esclusi. La crisi obbliga ancora a prendere tempo, d’altra parte un’altra idea in campo non esiste, se non quella rappresentata dal presidente cinese Xi Jinping, alfiere della vecchia globalizzazione.