a cura della redazione
La vicenda dei falsi permessi e delle vicende ad esso collegate hanno fatto emergere almeno tre aspetti fondamentali sui quali val la pena riflettere.
Il primo è che il sistema dei permessi è sempre stato (e continua ad essere anche in periodo formalmente di libera circolazione) un sistema intimamente legato al mercato del lavoro e alle sue esigenze. Il “marcio” che oggi emerge è uguale, né più né meno, a quello di una volta (all’epoca del controllo “ferreo” sul sistema di immigrazione). E di fatti scandali, avvicendamenti alla testa dell’Ufficio stranieri, licenziamenti hanno costellato gli ultimi trent’anni della politica cantonale.
Le imprese, adesso come un tempo, trovano il modo per aggirare eventuali controlli e limitazioni; e gli uffici competenti trovano il modo (rispettando le disposizioni o “forzandole” un po’) di accontentare le richieste padronali, nella prospettiva di aumentare la concorrenza tra i salariati; in quella ottica di “Ticino competitivo” che tanto piace a personaggi come e a tutti quelli che sono stati ad ascoltarlo al “Tavolo di lavoro sull’economia ticinese”.
Quello che ha fatto l’imprenditore kosovaro sotto inchiesta non è diverso da quanto hanno fatto, per anni, altri imprenditori, siano essi stranieri o svizzeri da più generazioni. Naturalmente ci sono molti modi per onorare favori, concessioni, permessi per ottenere qualcosa che non si sarebbe potuto ottenere…
Il secondo dà un’immagine raccapricciante dei rapporti di lavoro che vigono all’interno dell’amministrazione cantonale. Le lettere dei cosiddetti “corvi”, al di là degli aspetti xenofobi e rancorosi contenuti, offrono un’immagine di un’organizzazione interna dell’amministrazione (perlomeno degli uffici qui in discussione) fondata sull’arbitrio, sulla mancanza di coinvolgimento del personale, su una disciplina verticale che si rivela non solo inefficiente, ma che priva i cittadini di un servizio pubblico efficiente ed equo.
Il terzo aspetto preoccupante e rivoltante è la dimensione xenofoba e razzista che la vicenda ha assunto. Orientata in questo senso dal consigliere di Stato Gobbi, con di fatto un “tacito consenso” dei suoi compagni di governo, della maggioranza dei partiti, in parte anche della stampa.
L’insistenza sistematica sulla nazionalità di alcuni delle persone coinvolte nella vicenda altro non vuole ottenere se non il risultato di far crescere tra la popolazione l’idea che se fossero tutti “dei nostri” queste cose non succederebbero. E le esternazioni di Gobbi hanno il sapore del razzismo più puro, cioè quello di istituire un rapporto tra il comportamento delle persone e la loro nazionalità. Il fatto che Gobbi abbia fatto riferimento al fatto che un comportamento non corretto sia da imputare al fatto che la persona in questione fosse di nazionalità italiana è la triste conferma di questo fatto.
A questo atteggiamento si aggiunge un’aggravante che si manifesta in modo assai visibile in questi giorni, ma che da tempo aleggia sugli uffici che si occupano di affrontare le domande dei cittadini stranieri. E cioè una prassi, sempre più diffusa, di scoraggiare le legittime richieste attraverso una politica di rallentamento e congelamento delle domande; una politica rilanciata alla grande in questi giorni, con la scusa delle difficoltà interne agli uffici. Un trucco ulteriore per aggiungere disagio e negazione dei diritti degli immigrati.
Tutto questo è razzismo, puro e semplice. Inutile richiamare, magari ricollegandolo al clima carniacialesco, il fatto che un atteggiamento “antitaliano” sia nelle corde “popolari” dei ticinesi, sempre pronti a “scherzare” o a “tifare contro” gli azzurri in ambito sportivo e non. Il razzismo si nutre proprio di queste banalizzazioni: e la storia ce lo ha tristemente confermato.
Stupisce (si fa per dire) che il governo non abbia sentito il bisogno, in modo formale e ufficiale, di distanziarsi dalle parole di Gobbi. Un silenzio pieno di significato.