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aaaatrumpprotectionnismIl 2017 viene diffusamente annunciato come un anno di svolta sui temi economico-finanziari. Si prevede un declino del ruolo delle banche centrali, la fine, o quasi, della moneta facile, e al contempo il ritorno a politiche fiscali espansive e di spesa pubblica in infrastrutture. L’elezione di Trump costituirebbe un’accelerazione di tali tendenze.

Si paventano anche i rischi di un ritorno del protezionismo, ma tutto sommato sembrerebbe che il 2017 costituisca una tappa verso la normalizzazione: ritorno della politica sì, ma dentro una cornice in cui l’economia globalizzata mantiene saldamente le redini. Il recupero di politiche monetarie meno interventiste starebbe proprio a simboleggiare l’uscita dalla crisi. La realtà potrebbe però essere letta in maniera inversa, dando ragione della fine delle politiche monetarie ultra-espansive a causa della loro inefficacia. Uno strumento che, va precisato, non viene abbandonato completamente su scala internazionale, basti pensare alle scelte della Bce o della Banca centrale giapponese che non abdicano al loro interventismo ma semmai lo modulano in funzione delle disfunzioni fin qui prodotte. O alle scelte della Fed americana che aumenta i tassi, ma non è ancora chiaro quanto tale rialzo avanzerà a tappe forzate, non foss’altro per le possibili ricadute che un aumento del dollaro avrebbe sui tanti debiti emessi a livello globale nella divisa americana. Queste ultime considerazioni permetterebbero di concludere come alle politiche monetarie, in qualche modo ancora espansive, verrebbero affiancati politiche pubbliche di sostegno, con riduzione dei carichi fiscali, specie per i più ricchi e le imprese, e investimenti in opere infrastrutturali. Le banche centrali, nonostante la mole di denaro messa in campo in questi anni, sono risultate insufficienti, perciò intervengono gli Stati. Anche in questo caso, come per la promozione del regime globale nei decenni precedenti, quest’ultimi assolvono una funzione propulsiva decisiva.
Il mercato è una costruzione economica e politica che non si esaurisce in una dimensione di astratto liberismo; il mercato, escluso quello degli albori, secondo l’interpretazione di Karl Polanyi non è mai libero, ma è la risultante di molteplici attori e fattori che tradizionalmente lo distorcono, come la tendenza alla concentrazione e ai monopoli, a cui si aggiungono più di recente tendenze che praticano una ipercompetizione asimmetrica e un interventismo statuale selettivo, in una miscela su scala globale. Allora la, per ora teorica, trumpeconomics può costituire una boccata di ossigeno per i mercati, e come tale viene accolta benevolmente dagli operatori finanziari, ma incontrerà dei bivi decisivi. I residui democratici vigenti e alcuni livelli di partecipazione e coinvolgimento popolari maturati nel tempo favoriscono l’affermarsi di un modello nazional-populista che dovrà necessariamente misurarsi con i dilemmi della deregolamentazione finanziaria e della delocalizzazione produttiva, del protezionismo e dell’aumento dei prezzi, di un dollaro forte e della competizione declinata su una scala più nazionale. Il quadro di tendenziale stagnazione, stringe verso questi assi di fondo sia sul piano politico che economico. Che una crescita adeguata sia tuttora lontana è esemplificato da un lato dai risultati elettorali, espressione di un profondo malcontento popolare in particolare nel mondo anglosassone, e dall’altro dal più che dimezzato ritmo con cui aumenta il Pil del paese più dinamico di questa fase, cioè la Cina. Lo stato tendenzialmente stazionario dell’economia, dunque, spinge le forze dirigenti e dominanti verso soluzioni, per quanto parziali e contraddittorie, di rottura o perlomeno di scarto con l’esistente. Se per certi versi il ripiegamento localista appare nella sua portata regressiva per altri costituisce un’opzione che prova a smuovere il contesto dato, immettendo nei meccanismi economico-finanziari nuove energie e risorse. Tale prospettiva non sarà ritenuta risolutiva, ma consente di prendere ulteriore tempo. E, ancor di più in questa fase caratterizzata dall’assenza di soluzioni sistemiche forti, il tempo è denaro.