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di Franco Turigliatto

Il quadro politico e istituzionale è in forte movimento dopo la sconfitta di Renzi nel referendum e la successiva sentenza della Consulta che ha giudicato, ma solo in parte, incostituzionale, l’attuale legge elettorale.

Un governo reazionario

Accentua ancora di più questa fase di instabilità e di ricomposizione politica il conto economico presentato dalla Commissione europea che chiede al governo di intervenire con una manovra aggiuntiva di altri 3,4 miliardi. Com’é noto le autorità europee avevano dato il via libera provvisorio alla legge di bilancio italiana per non mettere intoppi all’operazione referendaria di Renzi, ma si erano riservate di esprimere un giudizio definitivo il nuovo anno. E’ quello che hanno puntualmente fatto richiamando l’Italia al rispetto dei criteri liberisti del Fiscal compact, avendo il governo utilizzato già largamente negli ultimi due anni le cosiddette clausole di flessibilità che consentono bilanci in deficit eccedenti le norme europee. Juncker e soci hanno minacciato di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia tanto che il primo ministro Gentiloni, che aveva inviato una lettera in cui nei fatti si rinviava ad altra data un intervento aggiuntivo sui conti, ha dovuto dichiarare che queste misure (riduzione dell’ 0,2 del deficit dal 2,4% al 2,2%) saranno prese entro aprile.

Un bel problema per il governo, e per Renzi che ancora lo controlla e che vorrebbe arrivare alle elezioni politiche anticipate con la speranza di prendersi una rapida rivincita.

La mancanza di un forte movimento di massa e di una forte opposizione politica di sinistra ha permesso alla borghesia e ai suoi partiti di tenere in mano il gioco politico e quindi al “nuovo governo” di agire in piena continuità reazionaria con quello precedente, come dimostrano i suoi atti fondamentali, dai 20 miliardi dati alle banche, ai decreti attuativi della “Buona scuola”, all’attacco ai lavoratori pubblici condotto dalla ministra Madia, fino ai vergognosi accordi con uno dei governi libici per costruire una barriera invalicabile nel Mediterraneo, come è già nel Mar Egeo, per impedire a chi fugge dalla guerra e dalla fame, di raggiungere le coste italiane negando l’accoglienza e il diritto all’asilo. L’ipocrisia dei governanti italiani ed europei raggiunge lo zenit: mentre criticano giustamente le scelte di chiusura di Trump è proprio l’Europa che costruisce ovunque per mare e per terra ogni sorta di muro.

Il nodo elettorale

Il revanchismo immediato di Renzi e la corsa verso elezioni anticipate trovano di fronte parecchi ostacoli, sia materiali che politici: i primi sono costituiti dai tempi parlamentari molto brevi per varare una nuova legge che permetta di votare a giugno; quelli politici consistono nel dissenso di importanti soggetti e nelle preoccupazioni della borghesia che non vuole correre verso nuove avventure dall’esito incerto, preoccupata di evitare nuovi imprevisti dentro una situazione economica difficile che richiede un governo stabile, pronto ad intervenire in caso di emergenze (vedi banche). Peraltro anche i dirigenti europei non possono essere contenti di elezioni in tempi brevi in Italia dall’esito incerto, quando già sono programmate delicate scadenze elettorali in paesi come la Francia, l’Olanda e la Germania.

Questi elementi spiegano le prese di posizione per un voto alla scadenza naturale della legislatura (nel febbraio 2018) di un ministro come Calenda o quelle dell’ex presidente, Napolitano, che pure era stato uno dei maggiori sponsor di Renzi, ma che, anche in questo caso, intende esprimere gli interessi fondamentali della classe dominante.

Inoltre l’attuale presidente della Repubblica si è espresso a più riprese sul fatto che non si va al voto senza omogenizzare le leggi elettorali tra Camera e Senato.

E’ pur vero che le forze che più hanno interesse nel voto, dal PD di Renzi, alla Lega e al Movimento 5 stelle, hanno calendarizzato una marcia parlamentare accelerata per produrre una nuova legge elettorale, ma il percorso appare difficile anche perché si moltiplicano i disegni di leggi (per altro tutti quanti, compresi quelli del M5S, rivolti a garantire la “governabilità” ed assai poco rispettosi del dettato costituzionale della rappresentanza) e non risulta molto facile la convergenza tra le diverse forze. Torneremo presto con un articolo più organico su questo tema in difesa di un vero sistema proporzionale.

Le convulsioni del PD

Anche perché ad essere messo sottosopra da questo quadro politico istituzionale è in particolare il Pd in cui tutti i giochi si sono riaperti con l’emergere di una opposizione a Renzi a vari livelli e con le minacce di scissione e i rischi di possibili conflagrazioni.

Sono in tanti a muoversi, dalle richieste di Bersani e della minoranza di svolgere il congresso del partito, ai movimenti di Emiliano, ma anche e soprattutto a quelli di D’Alema con l’operazione “Consenso” e con il richiamo esplicito a una sua lista differenziata nel caso si andasse alle elezioni anticipate.

Sulle caratteristiche e sulle motivazioni di questi personaggi non ci possono essere dubbi. Sono tra i principali responsabili delle politiche di austerità, di svendita del patrimonio pubblico, di applicazione governativa degli obiettivi della borghesia negli ultimi venti anni; in secondo luogo è fin troppo chiaro che si muovono per riacquistare il ruolo e le posizioni perse all’interno dell’apparato del partito e nelle istituzioni. Il ruolo svolto da organizzazioni storiche come l’Anpi e l’Arci nel referendum, in cui hanno saputo produrre un forte intervento politico rimobilitando e motivando settori sociali significativi, tra cui parte del vecchio “popolo” della sinistra, ma non solo, ha dato forza e convinzione a questi vecchi dirigenti del PCI di poter rigiocare la partita presentandosi come i più coerenti critici delle scelte più liberiste di Renzi (che per altro hanno votato in parlamento) e con un nuovo volto vagamente “socialdemocratico”. Pensano di aver alle spalle un ritrovato contesto sociale strutture organizzative di riferimento.

Naturalmente D’Alema ed ancor più Bersani e soci per ora si servono di questi movimenti per giocare con qualche forza in più lo scontro interno. Vedremo a quali approdi arriveranno.

Queste azioni politiche tattiche della nomenklatura dei vecchi DS, per non dire del vecchio PCI, hanno messo immediatamente in estrema fibrillazione una serie di soggetti politici della sinistra, che sempre sono vissuti in dipendenza dal PDS, poi PD e che solo negli ultimi tempi, con molte incertezze e paure, avevano espresso la volontà di porsi fuori dal recinto PD e di costruire un nuovo percorso a carattere alternativo.

La babele delle lingue che si è immediatamente prodotta tra le forze che erano e sono all’opera per costituire Sinistra italiana nel congresso che si svolgerà tra due settimane, di fronte alle strizzatine d’occhio di D’Alema, non può sorprendere, date le caratteristiche politiche dei soggetti, ma lascia lo stesso basiti perché evidenzia ancora una volta tutta l’inconsistenza politica nonché l’opportunismo presente nella sinistra italiana, causa delle sue sconfitte e della sua crisi profonda, a partire dalla esperienza governativa di Rifondazione. Ne è stupito lo stesso Manifesto, che però, è il caso di dire, è pienamente parte in causa, essendo stato, questo giornale il bacino politico e culturale che ha alimentato molte idee di questo mondo della sinistra.

Vedremo quanto altre forze, tra cui Rifondazione comunista, che sta andando al suo congresso non solo con due documenti contrapposti, ma anche con una più ampia dialettica interna agli stessi, saranno condizionate o meno e in quali forme dal ritorno in campo di D’Alema e soci.

Nel frattempo in un quadro politico diverso anche Luigi De Magistris ha dato vita al suo progetto politico, DEMA, per ora presentato nella sua dimensione regionale campana, ma inevitabilmente proteso a intervenire ed ad avere un ruolo nel campo politico nazionale. Al di là dell’enfasi e della retorica “antagonista” con cui viene presentato, sono molte le ambiguità e gli interrogativi che si pongono sui suoi sviluppi futuri. Di certo non si presenta come una forza che ponga al centro del suo progetto l’impegno nel sostenere il movimento dei lavoratori a riorganizzarsi. Almeno per il momento, è una sorta di asso pigliatutto che capitalizza la forte crisi di credibilità di altre formazioni politiche a sinistra ed esercita una certa forza d’attrazione verso settori con precedenti diverse collocazioni.

Per restare al campo dell’opposizione al governo è da verificare se la sua principale forza, il M5S, riuscirà a reggere la fortissima controffensiva contro la sindaca di Roma, a non farsi travolgere dalle sue manifeste debolezze politiche e quindi a garantirsi una piena tenuta elettorale come forza politica alternativa in caso di elezioni politiche.

Per tutte queste ragioni siamo di fronte a un vero, se pur confuso, processo scompositivo/ricompositivo del quadro politico, su tutti i versanti, destra, centro e sinistra, e nelle sue implicazioni istituzionali, anche se è impossibile per ora prevederne le conclusioni.

Il dramma della classe operaia

Il vero dramma politico che ci interessa è quello della classe lavoratrice italiana: di fronte alle convulsioni e ai rivolgimenti politici non corrisponde, dopo la vittoria nel referendum, una adeguata riconversione sociale e di lotta del movimento dei lavoratori, cioè la ricostruzione delle capacità di iniziativa della classe. Anzi proprio al contrario. Nel corpo della società, nelle condizioni di vita e di lavoro delle grandi masse, operano invece tutti i veleni, cioè tutte le misure antipopolari messe in atto dal governo Renzi e da quelli precedenti, dal Jobs Act alla buona scuola, dalle controriforme sulle pensioni ai tagli alla spesa sociale. Si esprime sempre più la modifica dei rapporti di forza prodotta da queste misure a cui si è aggiunto il totale stravolgimento dei contenuti dei contratti di lavoro: i “contratti di restituzione” che categoria dopo categoria stanno coinvolgendo l’intero corpo del proletariato.

Le stime dell’Istat sono impietose, un tasso di disoccupazione dell’11%, che sale a oltre il 40% per le giovani generazioni, un aumento del numero dei disoccupati, posti di lavoro che crescono solo nei contratti a tempo determinato e nelle forme della precarietà.

Per non parlare dei 4,5 milioni di persone in povertà assoluta (ma diventano quasi 10 milioni se si aggiunge la povertà relativa).

Ma poi ci sono le concrete relazioni all’interno dei luoghi di lavoro, dove ormai i padroni sanno di poter licenziare indisturbati grazie al Jobs Act, ma anche grazie alla sentenza della Corte costituzionale che ha rigettato il quesito referendario sull’art. 18. Lo dimostrano tanti casi di licenziamenti individuali ma anche collettivi, in primis la vicenda Almaviva, l’attacco diretto ai delegati nelle aziende, la montatura antisindacale e la repressione nella logistica e le tante lotte purtroppo isolate che si stanno combattendo per impedire i licenziamenti e di essere lasciati a casa, le ristrutturazioni industriali che si moltiplicano una dopo l’altra. E così nelle fabbriche cresce la paura, la paura di perdere il posto, di lasciare la famiglia senza un reddito, di precipitare nel baratro. E la ministra Madia vuole creare anche nel settore pubblico il licenziamento facile, il ricatto e la paura di perdere il posto di lavoro.

Il referendum ha difeso formalmente la Costituzione e i diritti, ma questi sono formali, sempre più lontani dall’essere realmente presenti nei luoghi di lavoro.

I contratti di categoria firmati dalle burocrazie sindacali, per certi versi addirittura peggiorativi dello stesso accordo sul Testo Unico della rappresentanza del gennaio 2014, costituiscono una regressione drammatica delle modalità con cui le lavoratrici e i lavoratori vendono la loro forza lavoro e indicano l’involuzione profonda della CGIL e della stessa FIOM che aveva combattuto per anni questa deriva mentre oggi la sua direzione se ne fa paladina. Un po’ di speranza viene solo dal fatto che il 20% delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici ha respinto quell’accordo, in particolare nelle grandi fabbriche, in luoghi di lavoro in cui gli operai dispongono ancora di una relativa forza per lottare.

Il movimento delle donne verso lo sciopero dell’8 marzo

In questo difficile quadro per fortuna brilla una luce di prima grandezza, portatrice di una grande speranza: la ricostruzione di un forte movimento delle donne, che ha già avuto una giornata formidabile il 26 novembre scorso a Roma con la manifestazione contro la violenza sulle donne, ma che ha avuto una controprova estremamente positiva con la grande assemblea di Bologna del 4-5 febbraio (oltre 1500 le partecipanti) preparatoria della giornata dell’ 8 marzo. Si tratta di una mobilitazione che si caratterizza su tre direttrici di fondo. Sarà uno sciopero nei luoghi di lavoro, nei luoghi della produzione e dello sfruttamento diretto capitalista, ma sarà anche uno sciopero nei luoghi domestici della riproduzione; infine sarà una mobilitazione/sciopero a carattere internazionale, prodotto diretto delle grandi mobilitazioni che ci sono stati nell’anno scorso in alcuni paesi e che proprio nelle settimane scorse sono state rilanciate negli Usa contro il nuovo presidente Trump e il volto patriarcale e razzista del neoliberismo.

Questa giornata è una scadenza cruciale, per tutte e tutti e sulla quale l’impegno e la mobilitazione deve essere massima.

E la sinistra?

Per venire ancora alla sinistra occorre dire che del dramma della classe operaia gran parte della sinistra non vuole rendersi conto, o lo considera solo in termini generici, soprattutto non vuole accettare la realtà che c’è del “marcio in Danimarca”, che sono i vertici del sindacato che portano un’enorme responsabilità in questo degrado sociale, per essersi subordinati pienamente alle richieste padronali, alla logica del mercato e del liberismo, sperando in questo modo di potersi garantire il loro ruolo d’apparato.

Una sinistra che voglia esprimere veramente gli interessi della classe lavoratrice non può che partire da questo livello; si deve confrontare certo sul piano politico ed anche elettorale nelle scadenze che stanno di fronte, ma non può pensare di riuscire rovesciare la situazione senza l’azione sociale e di lotta e senza cercare di affrontare le contraddizioni proprie delle attuali organizzazioni sindacali. Deve partecipare attivamente alla ricostruzione del protagonismo dei lavoratori, deve non solo sostenere le loro lotte, ma anche aiutarli a costruire la loro autoorganizzazione, superando direzioni burocratiche del tutto compromesse che invece della lotta di classe praticano la collaborazione di classe. Devono aiutare quei settori sindacali combattivi che in occasione del voto nelle aziende sui “contratti di restituzione” hanno costruito l’opposizione.

Quando Massimo Villone scrive sul Manifesto che il disegno di Renzi e soci si deve contrastare “costruendo a sinistra un progetto politico alternativo rispetto a quello portato avanti e in parte realizzato dagli ultimi governi. Un progetto che dia una nuova centralità ai diritti e ai bisogni della persona, come la Costituzione vuole, sul quale far convergere tutta la sinistra degna di questo nome e quella parte del paese che si è riaccostata all’impegno civile con il voto del 4 dicembre” esprime un’idea di buon senso, ma estremamente imprecisa e generica e che rischia, nel migliore dei casi di essere, retorica.

Anche solo per costruire uno strumento elettorale di “buon senso”, ma efficace, per non parlare di un progetto anticapitalista di più ampia prospettiva che noi vogliamo e su cui lavoriamo, esso deve essere completamente alternativo sia al PD di Renzi, sia al PD di chi lo ha diretto precedentemente, spianato la strada, tra l’altro, anche alla “resistibile ascesa”dell’ex sindaco di Firenze, uno strumento che combatta quindi fino in fondo le politiche liberiste e dell’austerità, che sia costruito dal basso, coinvolgendo tutti i protagonisti sociali della resistenza e che abbia a cuore la ricostruzione dell’organizzazione dei lavoratori senza la quale non ci sarà la forza di battere il governo e le forze padronali. Per questa via si deve passare per provare a costruire una vera prospettiva di alternativa.