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aaaawarshNetanyahu ha rischiato di essere incolpato per «abuso di fiducia» nell’affaire dei «doni illegali» (parecchie decine di migliaia di euro) che avrebbe ricevuto da uomini di affari… Come reagisce l’opinione pubblica?

Su questo tema, come su tutto il resto, l’opinione pubblica israeliana è divisa in due.

Da una parte ci sono quelli che sono colpiti ma non sorpresi dal grado di corruzione della classe politica, in particolare dall’entourage del primo ministro, e, dall’altra, una maggioranza della popolazione che vede in queste denunce una volontà di delegittimazione, messa in atto da coloro che vengono definite le élite, di un governo eletto dal popolo contro la volontà di queste élite. I media, la giustizia e, in una certa misura, la polizia sono per l’elettorato dell’estrema destra le espressioni di queste élite, ed è questa la ragione della decisione del ministro della Giustizia Ayelet Shaked di riformare in profondità il sistema giuridico in modo che «rifletta maggiormente la volontà della maggioranza»…

Non è esagerato affermare che siamo in un periodo di transizione del regime politico, a danno sia delle norme di un regime parlamentare, sia delle libertà pubbliche, a partire da quelle della minoranza palestinese in Israele e dei suoi rappresentanti eletti.

La situazione economica e sociale sembra assai buia per il governo: crescita della povertà, costi della colonizzazione, diminuzione delle richieste di aliyah (immigrazione ebraica in Israele, ndt), rallentamento dell’industria militare…

La crescita della povertà è innegabile, con un terzo dei bambini israeliani che vivono sotto la soglia di povertà. Ciò detto, povertà della maggioranza non significa – è proprio qui il senso del capitalismo – cattiva situazione economica. Se paragonata con quelle europee, l’economia israeliana è in buona salute: tasso di crescita superiore alla media dei paesi OCSE, tasso di disoccupazione inferiore al 4 %, bilancio in equilibrio, bilancia commerciale in attivo, esportazione di capitali e di tecnologia di punta in tutto il mondo. Israele non conosce la crisi, la sua economia è AAA per le agenzie di rating internazionali. Nel capitalismo neoliberale, un’economia con buoni risultati non è contraddittoria con l’aumento del numero dei poveri, anzi.

 

Sul piano internazionale la situazione non è brillante. Che conseguenze può avere il voto del 23 dicembre al Consiglio di sicurezza dell’ONU che, per la prima volta da decenni, esige lo stop della colonizzazione?

Il voto del Consiglio di sicurezza contro la colonizzazione in Cisgiordania in primo luogo riflette la stanchezza che avverte la comunità internazionale verso l’intransigenza di Israele, l’arroganza dei suoi dirigenti e la loro sordità di fronte agli avvertimenti generalizzati dei paesi che intrattengono relazioni amichevoli con lo stato ebreo. L’isolamento crescente sulla scena internazionale è stato a lungo eluso grazie al sostegno incondizionato delle amministrazioni statunitensi, sia democratiche che repubblicane.

La decisione di Barack Obama di non utilizzare il diritto di veto è senza precedenti: l’Assemblea generale dell’ONU ha adottato decine di risoluzioni contro la politica coloniale israeliana, ma è la prima volta dal 1983 che il Consiglio di sicurezza vota contro questa stessa senza scontrarsi con il veto degli USA. Alla vigilia della sua uscita di scena, Obama ha voluto far pagare a Israele per le numerose umiliazioni di cui è stato oggetto da parte dei governi presieduti da Netanyahu. Ricordiamo comunque che di fronte a quelle umiliazioni – perfino davanti al Congresso – Obama non ha mostrato rancore: due mesi fa ha firmato un trattato di cooperazione militare da 35 miliardi di dollari per il prossimo decennio. Netanyahu ha ringraziato a denti stretti e non ha esitato a dichiarare di attendere con impazienza la vittoria di Donald Trump.

 

Il 15 gennaio è iniziata a Parigi una conferenza per la pace in Medio Oriente. Israele non vi partecipa… Che cosa potrà scaturirne?

Messa in moto dalla Francia, la conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente non avrà assolutamente alcun effetto, e Israele ha fin d’ora annunciato di non parteciparvi, senza temere di infliggere un’umiliazione alle autorità francesi. Se Obama non è riuscito a smuovere di un centimetro il governo israeliano, non sarà certamente Jean-Marc Ayrault a riuscirci… Detto ciò, la conferenza di Parigi potrà essere un’occasione in più per mettere lo stato coloniale israeliano sul banco degli imputati per le sue violazioni ripetute del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi. Non illudiamoci: si farà di tutto per restare a quella che i nostri compagni belgi definiscono «l’equidistanza», distribuendo le responsabilità tra le «due parti», e non dimenticando mai di denunciare la cosiddetta violenza palestinese. Mettere sullo stesso piano il boia e la vittima, il colonizzatore e il colonizzato è la formula chiave della diplomazia internazionale… ed anche la ragione della sua impotenza.

 

Le difficoltà interne e il contesto diplomatico complicato per Israele non offrono una nuova opportunità alla campagna BDS? E, inoltre, che prospettive possono aprirsi per la solidarietà con la Palestina?

Il problema più importante posto dalla diplomazia internazionale sulla questione coloniale in Palestina non risiede tanto nelle prese di posizione – la risoluzione del Consiglio di sicurezza lo conferma – ma piuttosto nel rifiuto di tradurre queste risoluzioni in strumenti di pressione efficaci. La cosiddetta comunità internazionale lascia Israele in uno stato di totale impunità per i suoi crimini. E’ qui che si situa l’importanza capitale della campagna BDS: se ci fosse la «S», cioè se la comunità internazionale utilizzasse delle «sanzioni» – come ha fatto spesso, contro l’Apartheid nell’Africa del Sud o contro la repressione delle libertà democratiche in Cina – non ci sarebbe bisogno della «B» (boicottaggio) né della «D» (il disinvestimento), e la nostre battaglia per i diritti dei Palestinesi sarebbe vicina alla vittoria. E’ la viltà di questa comunità internazionale e, spesso, è anche la sua collusione con il regime coloniale israeliano che richiedono la mobilitazione attiva delle società attraverso la campagna BDS. E quest’ultima ha fatto, in un decennio, passi in avanti considerevoli: dal boicottaggio delle arance «Jaffa» al disinvestimento della azienda Orange (multinazionale francese della telefonia, ndt) nei suoi rapporti con il suo ex partner israeliano, alla rottura tra la compagnia delle acque olandese e Mekorot, la compagnia delle acque israeliana.

Le pressioni popolari sui governi perché questi prendano iniziative diplomatiche forti sono importanti, anche se queste iniziative, almeno per il momento, non vanno al di là della dichiarazione. Ma per piegare Israele, ne occorreranno molte di più, con la definizione di sanzioni concrete, in ambito economico e commerciale, ma anche culturale, universitario e sportivo. E’ anche qui una lezione che ci dà il popolo sudafricano.

Per concludere questa intervista, vorrei insistere sulla necessità di ridare ovunque una spinta al movimento di solidarietà con la Palestina. Il crollo, programmato dai neoconservatori, dell’ordine Sykes-Picot in Medio Oriente (l’accordo di spartizione tra Francia e Gran Bretagna al momento del collasso dell’Impero ottomano, ndt), ha creato un vuoto che riempiono i nuovi barbari del Daesh. Questa realtà regionale ha per effetto la marginalizzazione della questione palestinese. Che, invece, resta la chiave di ogni soluzione progressista per la realtà regionale mediorientale. Certo, non si possono né si devono semplificare i problemi del mondo, che siano quelli di Aleppo o quelli del terrorismo a Bruxelles, riducendoli alla sola questione palestinese. Tuttavia, quest’ultima resta un ascesso purulento che, se non risolto, continuerà ad alimentare non solo le lotte per la giustizia, ma anche le loro derive terroriste.

 

*Militante rivoluzionario e antisionista, Michel Warschawski ha fondato con altri militanti di sinistra il Centro d’informazione collettiva.

 

Intervista a cura di Alain Pojolat e Alain Krivine